Gabriele Borghese
È uscita da pochi mesi una nuova raccolta di scritti di Domenico Losurdo, curata da Emiliano Alessandroni, su Imperialismo e questione europea[1]. Filo conduttore del volume, che raccoglie vari scritti di Losurdo pubblicati tra il 1978 e il 2017, è l’analisi dal punto di vista marxista dell’imperialismo odierno. Sin dalle prime righe viene chiarito come il processo di unificazione europea è stato certamente egemonizzato dalla borghesia e si sviluppa fin dal principio in modo contradditorio. Dal punto di vista storico-filosofico (Cap. II) Losurdo analizza l'«autocoscienza o falsa coscienza europea» (p.31) attraverso le parole di filosofi eminenti della tradizione occidentale: Adam Smith, David Hume, John Locke, Alexis de Tocqueville.
Notevole è lo sforzo di Losurdo, compiuto nel corso di tutta la sua carriera di studioso, di far emergere un lato spesso taciuto nell’ambito degli studi storico-filosofici “tradizionali” che riguardano questi autori. Il punto di vista di questi filosofi sulla situazione politica concreta che vivevano e nella quale operavano, per Losurdo, risulta viziato da una concezione dell’Europa «come rappresentante privilegiata o esclusiva della libertà» (p.33). Lo stesso individualismo che solitamente costituisce il “vanto”, il «titolo di gloria» (p.65) della tradizione filosofica occidentale, secondo Losurdo è stato più degnamente interpretato da esponenti della tradizione rivoluzionaria, da Toussaint Louverture a Lenin. L’individualismo rivendicato dalle figure classiche a cui si fa solitamente risalire l’origine della modernità occidentale, infatti, finiva il più delle volte per restringere ad un determinato paese o ad una determinata classe sociale, il godimento dei diritti fondamentali dell’uomo.
Questa concezione eurocentrica si fondava, a ben vedere, sulla mancata problematizzazione di un dato: il loro abitare nell’unica parte del globo in cui esisteva una certa libertà, mentre il resto del mondo subiva una condizione di schiavitù ed era ridotto a colonia della parte “civilizzata”. Scrive infatti Losurdo: «in ultima analisi, Europa, Occidente, Nord, razza bianca (e ariana), cristianità, tend[evano] a divenire sinonimi che defini[vano] il luogo della civiltà in contrapposizione alla barbarie» (p.35). Nondimeno il principio filosofico di base che guida Losurdo – e ciò vale anche per la sua analisi dell’imperialismo nella sua configurazione odierna – è quello di sottolineare sì i limiti intrinseci della tradizione occidentale ed europea (soprattutto della sua autorappresentazione), ma al tempo stesso di metterne in evidenza i punti più avanzati e le conquiste che non vanno perdute. Senza questo bilanciamento equilibrato si genera una prospettiva non dialettica, irrigidita, per cui «i movimenti di resistenza alla politica egemonica ed imperiale dell’Occidente tendono ad assumere sempre più la forma di guerra di religione e di civiltà» (p.68).
Questo stesso principio aveva guidato anche Lenin quando si espresse nel 1912 (Democrazia e populismo in Cina) a proposito della lotta per la Repubblica intrapresa da Sun Yat-sen contro l’Impero cinese e i privilegi della sua aristocrazia: «Ebbene? Ciò significa forse che l’Occidente materialista è putrefatto e che la luce splende solo dall’Oriente mistico, religioso? No. Proprio l’opposto. Significa che l’Oriente si è incamminato definitivamente sulla via dell’Occidente, che altre centinaia e centinaia di milioni di uomini parteciperanno d’ora innanzi alla lotta per quegli ideali per i quali l’Occidente ha cessato di battersi» (p. 68). Lenin dunque accoglieva i successi di Sun Yat-sen (anche se i suoi principi erano i principi della democrazia borghese) paragonandoli a quelli dei populisti russi. Qualche mese dopo il leader rivoluzionario, prendendo notizia delle prime elezioni svoltesi in Cina, commentò: «La libertà cinese è stata conquistata mediante l’unione della democrazia contadina e della borghesia liberale. Il prossimo avvenire ci dirà se i contadini, non diretti dal partito proletario, sapranno mantenere la loro posizione democratica contro i liberali, i quali aspettano soltanto il momento propizio per spostarsi a destra» (V.I. Lenin, La Cina rinnovata, in Opere complete, Roma, Editori Riuniti, Vol. XVIII, p.386).
È chiaro, dunque, che Lenin non utilizzava formule astratte o parole d’ordine vuote per leggere gli sconvolgimenti politici della sua epoca e prendere posizione rispetto ad essi. L’analisi di una forza politica o di un rivolgimento sociale viene sempre sviluppata a partire dal contesto, ovvero dai rapporti di forza in gioco e dalle possibilità concrete di ottenere risultati in senso progressivo. Oltre a quanto fin qui indicato, Losurdo mostra molto bene come la categoria di imperialismo sia stata elaborata da Lenin non come una formula onnicomprensiva, ma con un senso ben preciso: «la guerra tra le potenze imperialistiche interviene allorché i rapporti di forza si modificano a favore della potenza emergente e a danno della potenza sino a quel momento egemone» (pp.107-108). Stando a questa definizione Losurdo ritiene che essa mal si adatta all’Unione europea, che innanzitutto non è uno Stato, ma oltretutto è ben lungi dal vantare una superiorità economica, geopolitica e militare sugli USA.
Il saggio di Emiliano Alessandroni posto in appendice al volume (p.389), intitolato Economicismo o dialettica? Un approccio marxista alla questione europea, recepisce la lettura di Losurdo e la rende immediatamente operante nell’analisi del rapporto tra USA ed Unione Europea. Nel saggio si chiarisce che il rapporto tra queste due potenze può essere compreso se si rinuncia ad abbracciare il punto di vista delle «due ipostasi»: la prima che vedrebbe nell’UE soltanto una propaggine degli USA, la seconda che la inquadra come una forza in conflitto aperto con gli USA. Alessandroni fornisce una lettura degli avvenimenti geopolitici più recenti per mostrare come l’Unione Europea si sia posta in maniera critica nei confronti dell’asse USA-Israele, ad esempio sulla vicenda del TTIP e nei confronti dell’importazione di merci in Europa dallo Stato Israeliano, che l’UE riconosce entro i «confini del 1967» (407), oppure le vicende che hanno visto stanziare fondi dall’Unione Europea per i profughi palestinesi. Si potrebbe aggiungere a questo elenco, agli occhi di chi scrive, anche l’interessamento del Parlamento Europeo verso il massacro operato da parte dell’Isis rispetto ai curdi e alle altre popolazioni limitrofe, nonché delle minoranze religiose presenti sul territorio, con la risoluzione del 4 febbraio 2016 nella quale si esortavano i paesi contraenti della Convenzione delle Nazioni Unite a porre fine a «sostegno, cooperazione o finanziamenti a tali crimini di guerra […] comportamenti inaccettabili che stanno causando ingenti danni alla società irachena e siriana e stanno destabilizzando gravemente i paesi vicini» ( Procedura n. 2016/2529(RSP) Résolution sur le massacre systématique des minorités religieuses par le soi-disant groupe "EIIL/Daech", Testo approvato: https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/TA-8-2016-0051_IT.html). Alessandroni rintraccia le relazioni che l’UE è riuscita a costruire con altri Stati: Iran, Russia, Cuba, Cina e Vietnam. Considerando questi elementi è possibile smorzare notevolmente le «due ipostasi» a cui prima si accennava.
A sostegno della propria analisi Alessandroni chiama in causa anche le posizioni di Togliatti e l’idea di Gramsci espressa nei Quaderni secondo cui «la cosiddetta intransigenza è una forma di economismo: così la formula tanto peggio tanto meglio» (p.467). Nulla prova, in sostanza, che dalla disgregazione dell’Unione Europea sorga meccanicamente una situazione geopolitica migliore, anzi proprio Gramsci, nonostante denunciasse le modalità marcatamente classiste con cui l'Unità d'Italia era stata costruita, valutava che la sua dissoluzione avrebbe condotto ad uno stadio più arretrato e frammentato la coscienza delle masse popolari (Ibid). Di qui l'auspicio affinché si consolidi un'organizzazione delle sinistre anticapitaliste europee degna di questo nome in grado di fare convergere le lotte sociali su posizioni non remissive all’eurofobia liberale.
Dal punto di vista metodologico l’indicazione di Alessandroni è chiara: «l’assioma dell’irriformabilità […] fa astrazione da un’importante lezione che possiamo desumere dalle analisi di Marx e di Gramsci: gli ordinamenti giuridici non hanno natura divina, né sono scolpiti nel tempo, ma riflettono in qualche modo i rapporti di forza esistenti sul piano politico e sociale. È soltanto attraverso la trasformazione di questi rapporti che è possibile modificare anche quegli ordinamenti» (p.445).
Nella postfazione al volume Stefano G. Azzarà nota come la rivolta populista che ha agito anche in Italia non riesca comunque a «mettere in discussione la società capitalistica stessa e la sua natura strutturalmente critica» (p.505). I tumulti e i rivolgimenti politici che si sono verificati nella penisola e in Europa sono «certamente [una] reazione rabbiosa a una crisi prodotta in tutto e per tutto dal capitale» (p.504), ma la risposta a questa crisi non si colloca su un terreno rivoluzionario: essa è piuttosto «una reazione che, dopo decenni di diffusione dell’ideologia del consumo illimitato delle merci […] cerca disperatamente di tenersi aggrappata ai livelli di benessere della fase precedente» (Ibidem). Il punto ribadito da Azzarà, in conclusione, è che al posto di rivendicare forme di sovranismo non meglio caratterizzate, occorrerebbe costruire un movimento dei lavoratori capace di riunire le classi subalterne tenendo ferma la centralità del conflitto di classe.
[1] D. Losurdo, Imperialismo e questione europea, a cura di Emiliano Alessandroni, La scuola di Pitagora editrice, Napoli, 2019, pp. 552.