Lelio La Porta *
Nei suoi scritti Gramsci usa spesso l’espressione I nipotini di padre Bresciani. Questi era Antonio Bresciani (1798-1862), uno scrittore, gesuita, antiliberale e antiromantico, autore di alcuni romanzi storici, uno dei quali, L’ebreo di Verona. Racconto storico dall’anno 1846 al 1849, ristampato nel 1851, era stato stroncato da Francesco De Sanctis. La stroncatura aveva origine dall’uso di tesi illiberali da parte dell’autore del libro e dal fatto che povertà artistica e debolezza umana fossero, in Bresciani, la stessa cosa. Quindi è De Sanctis a suggerire a Gramsci l’uso della categoria del “brescianesimo” per indicare una tendenza tipica della letteratura italiana e contraddistinta da individualismo, il liberalismo, opposizione al nazionale-popolare, aristocraticismo, paternalismo di stampo gesuitico.
Questi vizi Gramsci li rinviene anche in autori del suo tempo che vanno per la maggiore e, per questo, li sottopone ad una critica tanto feroce quanto necessaria. Costoro sono I nipotini di padre Bresciani che, nei Quaderni del carcere, vanno da Papini a Ungaretti e altri ancora tutti caratterizzati da “bassezza morale, vigliaccheria morale e civile”, buffoneria: in una parola, conformismo. Questo per dire come fra De Sanctis e Gramsci ci sia un legame stretto che caratterizza una tradizione culturale alla quale fa riferimento Raul Mordenti già nel titolo del suo ultimo lavoro (De Sanctis, Gramsci e i pro-nipotini di padre Bresciani. Studi sulla tradizione culturale italiana, Bordeaux, Roma 2019, pp. 457, €. 24,00).
Il libro è diviso in quattro parti: le prime due dedicate a De Sanctis, la terza a Gramsci e la quarta ai pro-nipotini di padre Bresciani. Mordenti si pone l’obiettivo di ricostruire una tradizione culturale italiana che parte da De Sanctis e arriva a Gramsci, ponendo come “terminus a quo” la specificità del capitalismo che, proponendosi come eterno presente, proibisce il passato “per realizzare il suo vero intento che è la proibizione del futuro” (p. 11). Questa immutabilità comunica un senso diffuso di depressione, che colpisce soprattutto i giovani nelle forme acute di una malattia. La medicina, almeno un primo antibiotico, non può che essere la riscoperta di coloro che sono stati e che ancora dovrebbero essere, appunto De Sanctis e Gramsci, i punti alti di riferimento di una tradizione dell’emancipazione dalla subalternità. Eppure si erge contro questo tentativo il muro ostile del nuovo “brescianesimo”, “convitato di pietra della storia culturale della nazione italiana, tanto sgradevole quanto imprescindibile” (p. 15). Le caratteristiche di questo nuovo “brescianesimo” sono le stesse indicate da Gramsci nelle sue note carcerarie e già sottolineate in apertura.
I pro-nipotini di padre Bresciani che operano per vendicarsi di Gramsci, sostiene Mordenti riprendendo un termine introdotto nel dibattito da Angelo D’Orsi, sono “rovescisti”, ossia qualcosa che va al di là dello stesso revisionismo. Il “rovescista” cerca di dimostrare il contrario di ciò che è spingendosi ben oltre i limiti del revisionismo. Mordenti dedica a questo fenomeno tutta la quarta parte del suo lavoro utilizzando un “sarcasmo” gramscianamente appassionato ma anche una verve narrativa di notevole caratura stilistica. Scorrono davanti agli occhi della lettrice e del lettore le storie del quaderno “scomparso”, di Mussolini che in carcere avrebbe “oliato” il cervello di Gramsci quasi proteggendolo, dell’uso da parte dei pro-nipotini dei verbi al condizionale, oppure dell’espressione “è possibile che…”, della criminalizzazione di Togliatti, perfido e demoniaco artefice di ogni misfatto antigramsciano, della costruzione fondamentalmente antiscientifica, oltre che antistorica, delle due sinistre (Gramsci e Turati), dell’uso dell’espressione “Non si può escluderlo” che potrebbe consentire di dire su Gramsci, e su Togliatti, tutto e il suo contrario.
Riprendere Gramsci partendo proprio dalla tradizione culturale a cui appartiene, che è quella dei subalterni, significa tentare la “fondazione di una nuova intellettualità di massa” (p. 444), la ricerca di un nuovo senso comune di massa, per intraprendere una lotta per l’egemonia nella quale abbia un ruolo centrale anche la letteratura che, per dirla proprio con il grande intellettuale comunista,” è una funzione sociale” e, sia consentito di aggiungere, ha una funzione sociale.
* Pubblicato in “il manifesto”, 16 gennaio 2020.