Antonino Infranca
[Erik Olin Wright, brillante sociologo marxista statunitense, è scomparso il 23 gennaio di quest’anno. Lo ricordiamo e gli rendiamo omaggio pubblicando la recensione di Antonino Infranca a suo ultimo libro tradotto in italiano]
Questo libretto[1] era già apparso in italiano, nel 2017 con il titolo Come essere anticapitalisti nel XXI secolo, poi l’autore ne ha rivisto alcuni argomenti, ne ha aggiunti altri, in pratica ha riscritto il libro che adesso riesce in italiano quasi totalmente rinnovato.
Wright prende le mosse dalla classica concezione del capitalismo che, nel corso del suo sviluppo crea contraddizioni, addirittura i suoi stessi oppositori, gli “anticapitalisti”, come li definisce Wright (cfr. p. 17). Innanzitutto questa definizione ci fa capire come sia difficile oggi definire le vittime del capitalismo, il lavoratore – l’Arbeiter come lo conobbe Marx, spesso tradotto con “operaio” – continua ad esistere, ovviamente, ma sono sorte anche altre figure di lavoratori che non è più possibile definire “operai”, come dai tempi di Marx fino a tutto il Novecento. Però ha ragione Wright, questi lavoratori non saranno sicuramente contenti della loro condizione di sfruttati e, quindi, saranno sicuramente anti-capitalisti, più o meno coscienti del loro essere tali. Il capitalismo attuale ha la tendenza, sempre più marcata, di frammentare le esperienze di vita dei singoli lavoratori, fino al punto di rendere di rendere difficile la nascita di un’identità di classe (cfr. p. 160). Wright non ci spiega dove nasca questa frammentazione, ma questa spiegazione la possiamo trovare in un classico dell’anti-capitalismo (per dirla, appunto, alla Wright) del Novecento, cioè in Storia e coscienza di classe di Lukács. La frammentazione, di cui parla Wright, sarebbe la parcellizzazione di cui parla Lukács nella sua opera del 1923, parcellizzazione che è imposta dalla modalità di lavorazione –catena di montaggio, quindi lavoro ripetitivo. Naturalmente le modalità di lavorazione sono cambiate nel corso di questo secolo, ma ritengo ancora valida la concezione di Lukács: si vive come si lavora. Così al lavoro parcellizzato novecentesco, corrisponde oggi il lavoro frammentato; alla parcellizzazione del soggetto novecentesco corrisponde oggi la frammentazione del soggetto. Se ha ragione Wright che non si può parlare di identità di classe, non si può parlare, a maggior ragione, di coscienza di classe. Ma un aspetto mette insieme il soggetto parcellizzato di Lukács e il soggetto frammentato di Wright: l’aspirazione all’eguaglianza dei mezzi per vivere.
Wright ci dà la sua proposta di uguaglianza come valore: «In una società giusta, ogni persona dovrebbe avere uguale e ampio accesso ai mezzi materiali e sociali necessari per vivere con una alta qualità della vita» (p. 23). Questo è un progetto da realizzare, direi un principio regolativo, allo stesso modo di un imperativo categorico, fattibile. Per ambire alla fattibilità di questo progetto una delle condizioni è la realizzazione di una reale democrazia, che per Wright dovrebbe fondarsi sull’autodeterminazione: «In una società pienamente democratica, tutte le persone dovrebbero avere ampio e uguale accesso ai mezzi necessari per partecipare significativamente alle decisioni su ciò che tocca la loro vita» (pp. 28-29). Anche questa appare un’aspirazione altissima, ma è altrettanto fattibile come principio regolativo per qualsiasi azione di rivendicazione democratica. Naturalmente una condizione minima per la fattibilità di questi due principi regolativi è la libertà democratica. In una società oppressiva e repressiva non ci sono le condizioni minime per un’azione di rivendicazione democratica. La lotta sarebbe per togliere gli ostacoli oppressivi e repressivi di qualsiasi natura. Quindi il discorso di Wright è diretto a società avanzate dal punto di vista dello sviluppo democratico.
Wright indica il confine tra libertà e democrazia, riprende il classico binomio tra sfera privata e sfera pubblica, dove nella prima si esercita la piena libertà senza partecipazione democratica di nessun altro, la sfera pubblica dove tale partecipazione è richiesta prima di esercitare qualsiasi azione (cfr. p. 30). Penso che la sfera pubblica inizi quando si ha almeno una coppia di esseri umani. Probabilmente Wright utilizza questa divisione per intendere che la cooperazione è una forma di azione indispensabile per la fattibilità dei suoi due principi regolativi. Infatti chiarisce che «comunità/solidarietà esprime il principio che le persone dovrebbero cooperare non semplicemente per trarne vantaggio personale, ma anche per impegno concreto per il benessere degli altri e per un senso di obbligo morale che quella sia la cosa giusta da fare» (p. 31). In effetti Wright ha ragione nel pensare che una comunità si fondi sulla solidarietà, anzi direi sulla responsabilità della solidarietà. Ricordo che in latino “responsabilità” si può intendere come communio sponsio, “peso comune”, e in realtà la solidarietà è un peso comune a tutti i membri di una comunità.
L'Autore è attento, però, a verificare l’articolazione del valore di comunità con quello di eguaglianza e democrazia (cfr. p. 34), si rende conto che appartenere a una comunità, avere una cittadinanza è porre una barriera tra esseri umani. «In pratica può risultare del tutto impossibile fare qualcosa per correggere l’ingiustizia creata dai confini nazionali e dalla cittadinanza, in parte perché gli ostacoli politici sono troppo grandi e poi perché gli effetti collaterali negativi dell’abolizione delle frontiere nazionali porterebbe a mettere in pericolo altri valori importanti. Ma il fatto che non possiamo risolvere questo problema non significa che dal punto di vista del principio dell’uguaglianza/equità la barriera della cittadinanza sia giusta» (p. 27). Le frontiere nazionali sono ingiuste soprattutto sono a senso unico, cioè dal Sud del mondo al Nord del mondo devono essere invalicabili per gli esseri umani che cercano nel Nord di realizzare un proprio progetto di vita, mentre dal Nord al Sud si possono valicare per sottrarre materie prime e fonti di energia senza un eguale corrispettivo in ricchezza. L’invalicabilità delle frontiere nazionali dovrebbe essere in entrambi i sensi di movimento. Se è permessa in un solo senso, allora non ha senso.
Wright ricorda che l’etica del capitalismo si fonda sull’individualismo competitivo e sul consumismo (cfr. p. 46), che sono valori morali capitalistici alternativi a quelli anti-capitalistici, comunità e solidarietà. Individualismo e consumismo sono valori morali che il capitalismo ha imposto alla vita quotidiana degli esseri umani globalizzati, quindi la vita quotidiana diventa un campo di battaglia per affermare e realizzare uno stile di vita alternativo a quello imposto dal capitalismo e che segua solidarietà comunitaria. E lo stile di vita riguarda anche la questione impellente dello sfruttamento ambientale. Sulla situazione dello sfruttamento ambientale del pianeta, Wright mostra un sufficiente ottimismo: «Sembra probabile che il riscaldamento climatico proclami la fine del neoliberismo come forma specifica del capitalismo» (p. 127). Quindi possiamo aspettarci che il capitalismo trovi una propria forma di produzione della ricchezza adattabile ad un minor grado di sfruttamento ambientale.
A questo punto Wright avanza una sua proposta: il socialismo va concepito come una democrazia economica, cioè come un’economia di mercato sotto il controllo di una democrazia (cfr. pp. 88-89). Il fondamento della sua concezione socio-economica è il Reddito di Base Incondizionato (RBI): «Ogni persona che risiede legalmente sul territorio riceve un reddito sufficiente a vivere al di sopra della linea di povertà, senza necessità di lavorare o altri requisiti» (p. 92). Questa concezione richiede certe condizioni –su alcune scriverò più in seguito- che sono collegate alla proprietà dei mezzi di produzione. Naturalmente Wright è favorevole a una proprietà cooperativa, anche perché un tale tipo di proprietà è democratica per costituzione. Ma l’esistenza di cooperative non risolve il problema delle grandi proprietà, delle multinazionali, che sono attualmente le grandi padrone delle risorse e dei mezzi di produzione esistenti. Wright è fiducioso del fatto che il RBI potrebbe diminuire la disuguaglianza economica e rafforzare la stabilità sociale, potrebbe favorire l’autocreazione e l’aumento di redditi discrezionali, potrebbe stabilizzare il mercato (cfr. p. 131). Per autocreazione va intesa l’attività di chi ha risolto il problema del soddisfacimento dei propri bisogni mediante il RBI e si dedica all’attività lavorativa per puro spirito di creatività. In pratica sarebbe la realizzazione del sogno del giovane Marx, quando il lavoro si sarebbe trasformato in gioco. Ma ciò era possibile quando le condizioni di lavoro sarebbero profondamente mutate; cioè quando lo sfruttamento dei lavoratori sarebbe cessato. Il giovane Marx non dice come sarebbe cessato questo sfruttamento e, appunto, su questo problema si è sviluppata un’intensa attività teorica e pratica all’interno del movimento dei lavoratori. Non analizzo questa attività, perché non rientra nel libro di Wright.
Il RBI non mette in discussione, come ho accennato prima, i rapporti di produzione e di proprietà. Si limita a distribuire ricchezza per garantire una vita degna di essere vissuta agli esseri umani. La prima questione è a quali esseri umani? Credo che sia ovvio che questi esseri umani sono quelli dei paesi capitalistici più avanzati, dove il RBI rappresenta una forma di distribuzione della ricchezza e sinceramente questa mi pare un’ottima idea. Ma la seconda questione che pongo è la fonte di RBI? Credo che i paesi capitalisticamente avanzati sono forniti di una tale quantità di ricchezza che si possa distribuire un RBI in quantità individualmente consistente. Ma la terza questione è: come distribuire il RBI senza cambiare i rapporti di proprietà dei mezzi di produzione? Olin Wright probabilmente sarebbe favorevole a un cambiamento rivoluzionario dei rapporti di proprietà dei mezzi di produzione. Non si esprime apertamente su questo problema, ma probabilmente auspica una rivoluzione democratica che si ponga come scopo un cambiamento, anche se lento e progressivo, dei rapporti di proprietà dei mezzi di produzione.
Pongo, però, un’altra questione: chi sarebbe escluso dal RBI? Ovviamente i ricchi, che non avrebbero bisogno di nessun RBI, o forse ne sarebbero le vittime, perché sarebbero costretti a distribuire una parte del loro reddito e del loro profitto a chi riceverebbe il RBI. Niente di male di fronte a questa evenienza, salvo pensare che costoro farebbero resistenza alla sottrazione della loro ricchezza e questo è sempre stato un grosso problema nella storia del socialismo. Ma aggiungo: sarebbero esclusi tutti i poveri del mondo, una maggioranza enorme, non solo perché sarebbe estremamente difficile, se non impossibile, distribuire ricchezza dal Centro alla Periferia dell’attuale sistema dominante di produzione capitalistico, perché –come appena scritto- sarebbe difficile distribuire ricchezza anche all’interno dello stesso Centro del sistema di produzione capitalistico. L’impossibilità sarebbe dovuta al fatto che un’enorme quantità di ricchezza del Centro dell’attuale sistema dominante capitalistico è costituita dallo spostamento di ricchezza dalla Periferia al Centro del sistema. La distribuzione di RBI sarebbe, quindi, distribuzione di ricchezza della Periferia a tutti gli esseri sociali del Centro e questo potrebbe essere anche accettabile a questi beneficiari, ma diverrebbe impossibile se anche agli esseri sociali della Periferia si distribuisse un RBI. Non so, infatti, se esiste una quantità di ricchezza sufficiente a garantire a tutti i 7 miliardi di attuali esseri umani un’eguale quantità di ricchezza, anche perché questa distribuzione egualitaria rappresenterebbe una sostanziale diminuzione di beni materiali per gli esseri sociali del Centro.
La proposta di Wright, quindi, ha una sua possibile validità nel Centro del sistema, ma non tiene conto del resto dell’umanità. L’ho voluta discutere, perché è comunque una proposta fondata su un’analisi della situazione attuale sostanzialmente valida e poi per un motivo strettamente umano: è molto probabile che quando il lettore leggerà queste righe Wright non sarà più vivo, perché soffre di una forma incurabile di cancro e sta vivendo i suoi ultimi giorni. Come ricorda Rosa Fioravante nella sua bella post-fazione, Wright è stato un punto di riferimento dei movimenti politici di sinistra in Inghilterra (Corbyn) e negli Stati Uniti (Sanders) e ha rappresentato la punta più avanzata della riflessione politica e sociale su quelle società. La sua stessa riflessione ha subito il condizionamento di quella situazione di privilegio che lui stesso riconosce. Durante un seminario su Hegel e Marx a Sarajevo, nel 2007, Wright si accorse di quanto fosse privilegiata la sua situazione di identità come scoperta di sé, mentre i suoi allievi bosniaci avevano sofferto una guerra etnica (cfr. p. 150). L’etnia è una delle forme di differenziazione tra esseri umani, ma molto più forte è la differenza tra chi vive nel Centro del sistema e chi vive da escluso nella Periferia.
[1] Erik Olin Wright, Per un nuovo socialismo e una reale democrazia, tr. it. di Nunzia Augeri, a cura di Rosa Fioravante e Riccardo Mapelli, Milano, Punto Rosso, 2018.