Manfredi Alberti

 

Leggendo l’agile ma denso libro che Luciano Segreto ha dedicato alla storia dell’economia mondiale dalla fine della guerra fredda a oggi si acquisisce la consapevolezza di vivere in un’epoca di straordinari cambiamenti (L’economia mondiale dopo la guerra fredda, il Mulino, pp. 176, euro 16). Un periodo in cui, per prendere a prestito le parole usate da Hegel per descrivere le turbolente trasformazioni del proprio tempo, “lo spirito ha rotto i ponti con il mondo del suo esserci e rappresentare, durato fino ad oggi”. La transizione in atto impone infatti non solo nuove soluzioni per affrontare i problemi del presente, ma anche la capacità di rileggere da una diversa prospettiva la storia dell’ultimo secolo.

Poche cifre basterebbero a dare la prova del trapasso che stiamo vivendo, segnato dall’affermazione, probabilmente irreversibile, dell’integrazione fra le diverse regioni del globo, e dall’emergere inarrestabile di nuovi giganti della produzione mondiale. Nel 1997 la Cina era la settima economia mondiale, mentre vent’anni dopo era seconda solo agli Stati Uniti, divenendo dopo il 2012 il primo esportatore mondiale; il contributo offerto nell’insieme dalle economie emergenti alla crescita mondiale, stimabile intorno al 31% negli anni Ottanta, è oggi superiore al 70%. Il declino relativo dell’Occidente è nelle cose, come ci ricorda Segreto; solo guardando in faccia questa realtà sarà possibile tentare di intervenire nel nuovo contesto globale per costruire un mondo interdipendente, basato sul rispetto reciproco e sulla cooperazione multilaterale.

Il volume prende le mosse dalla crisi del modello sovietico, alla fine degli anni Ottanta, per giungere alla crisi economico-finanziaria iniziata nel 2007, esaminando il ruolo svolto dai principali attori economici mondiali: la Russia, gli Stati Uniti e i suoi sfidanti asiatici, per giungere alla vecchia Europa, indebolita da un instabile processo di integrazione politica e monetaria dagli sviluppi imprevedibili. Opportunamente l’autore analizza i processi economici e politici mostrando la loro natura processuale, dinamica e mai orientata in senso deterministico: i punti interrogativi e le questioni aperte sono tante, a cominciare dall’esito dell’attuale crisi dell’eurozona e dagli sviluppi di una globalizzazione finanziaria che tutt’oggi sembra minacciare le capacità di crescita e la stabilità sociale dell’Occidente nel suo insieme.

Il capitolo con cui si apre il volume, dedicato al crollo del comunismo sovietico, suggerisce implicitamente la necessità di fare ancora oggi i conti con lo “spettro del comunismo”. Nonostante la dissoluzione ingloriosa dell’Urss – riconducibile non soltanto alla perdita di efficienza dell’economia di piano, ma anche al risultato dell’ingenuo e avventato processo riformatore avviato da Gorbačëv – è innegabile infatti che la vicenda del comunismo novecentesco abbia contribuito a determinare i nuovi equilibri mondiali con cui dobbiamo oggi fare i conti. Senza quello che Rita di Leo ha definito “l’esperimento profano” – la costruzione nella Russia sovietica di una società e di un’economia alternative a quella di mercato – sarebbe stato impensabile quell’enorme processo di emancipazione dei popoli coloniali che è all’origine dell’attuale peso economico e politico di paesi come l’India e la Cina, quest’ultima peraltro ancora governata dal partito comunista. Viceversa, per restare in Europa, a cos’altro dovremmo attribuire la fine dei cosiddetti “trent’anni gloriosi” seguiti al 1945, se non al venir meno della sfida posta al sistema capitalistico dall’economia pianificata dell’Unione Sovietica?

 

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