Paolo Favilli*
(da "Micromega", 10 Maggio 2016)
Nella Storia del marxismo (Carocci, Roma 2015, 3 voll.) recentemente uscita a cura di Stefano Petrucciani si ripresenta la possibilità di riesaminare la storia del marxismo alla luce del sistema di relazioni che sorregge le sue diverse forme. Entro questo contesto sono almeno due i problemi che vanno posti: quello del rapporto fra riforme e rivoluzione e quello del nesso fra filosofia e marxismo.
1) I tre agili volumetti che compongono questa Storia del marxismo, pur inserendosi in una tradizione consolidata e di lungo periodo concernente i modi di fare storia dell’«oggetto» in questione, presentano interessanti spunti di originalità nel panorama complessivo della produzione storica frutto del clima della Marx Renaissance. Ho usato l’espressione produzione storica, ma, come vedremo proseguendo nel discorso, il termine storia, proprio nell’ambito della tradizione cui ho fatto sopra riferimento, necessita di essere meglio precisato. Qual è, però, il peso della dimensione storica nel contesto di quella riflessione generale su Marx ed il marxismo che è stata chiamata Marx Renaissance?
La Marx Renaissance è, indubbiamente, un fenomeno di estrema importanza che oggi ha travalicato anche l’ambito degli studi per diventare, ad esempio, elemento centrale di una delle più importanti manifestazioni artistiche mondiali: la Biennale di Venezia del 2015. Il «cardine» del programma è stato «l'imponente lettura dal vivo dei tre volumi di Das Kapital di Karl Marx. «Porto Marx alla Biennale perché parla di noi oggi», ha detto il curatore della mostra veneziana[1]. La sfera degli studi, la sfera dell’arte, la sfera dell’alta cultura in genere, però, appare separata dai processi di mutamento che interessano lo stato di cose presente.
Il fenomeno della Marx Renaissance comincia a delinearsi pochissimo tempo dopo la proclamata morte del pensatore di Treviri, non casualmente in concomitanza con i primi sinistri scricchiolii delle crisi finanziar-recessive degli anni Novanta. Un fenomeno che poi è cresciuto in maniera esponenziale a partire dagli inizi della «grande crisi» in cui siamo tuttora immersi. Le ragioni sono evidenti: l’impossibilità del pensiero economico mainstream, ormai quasi del tutto coincidente con l’«economia volgare», a spiegare le logiche profonde dei modi in cui si manifestano gli squilibri dell’«economia mondo», cioè del capitalismo mondo. Porsi le domande giuste e tentare qualche risposta di fronte all’attuale fase di accumulazione capitalistica, comporta la necessità di pensare il capitalismo come problema. È possibile farlo senza Marx?
Con tutta evidenza non lo è. Di qui la ripresa di una ricchissima pubblicistica, in gran parte scientifica, su Marx e il marxismo, quasi una nuova biblioteca che si aggiunge a quella vera e propria biblioteca di Alessandria (fortunatamente non scomparsa) che ha raccolto nel tempo gli infiniti contributi dedicati a problematiche marxiane e marxiste.
Il contributo italiano alla costruzione di questa nuova biblioteca è stato ed è tutt’altro che marginale. Studiosi di economia, di filosofia, di sociologia hanno prodotto una letteratura di alto livello. I testi fondamentali di Marx sono stati sottoposti a nuove ed accurate indagini filologiche. In particolare Il Capitale è stato oggetto di una recente ed importante edizione comprendente tutti i testi scritti da Marx con l’intenzione esplicita della realizzazione del I libro[2]. Il volume comprende anche tutte le principali varianti delle edizioni precedenti alla IV edizione tedesca, e permette, così, di entrare direttamente nel laboratorio marxiano. Un preliminare «lavoro filologico minuto e condotto col massimo scrupolo di esattezza, di onestà scientifica»[3], per dirla con Antonio Gramsci. Filologia messa al servizio dell’interpretazione critica della teoria[4]. Della teoria, appunto. Gli studiosi di storia, fino a questo momento, sono rimasti ai margini dei filoni centrali della Marx Renaissance; nel migliore dei casi ne hanno accompagnata la logica dominante.
L’amplissimo panorama di studi che la Marx Renaissance ha prodotto è stato recepito dagli storici soprattutto per lavori relativi a nuove interpretazioni di storia del pensiero, di storia dell’analisi, di storia delle idee in genere.
In Italia la storia della teoria ha una lunga tradizione di grande interesse. Il fatto che il contributo italiano al dibattito teorico sul marxismo sia stato di estrema rilevanza sia alla fine dell’Ottocento (Antonio Labriola), sia nel Novecento (Antonio Gramsci), non poteva non avere influenza su tutta una tradizione di studi. Inoltre sempre italiani erano gli interlocutori/avversari tanto sull’«economia pura» (Vilfredo Pareto) che sui «concetti puri» (Benedetto Croce), e si trattava di italiani che rappresentavano le punte alte internazionali vuoi della teoria economica che della filosofia idealistica.
Una tradizione che ha avuto ed ha importanti risultati conoscitivi. Nei «trenta gloriosi» seguiti al secondo dopoguerra si sono esplorati con varia fortuna i sentieri della storia sociale della cultura marxista. Questa impostazione storiografica non si è sostituita alla prima, vi si è affiancata e, nonostante alcune frizioni, l’insieme di rimandi tra le due dimensioni storiografiche ha rappresentato un indubbio arricchimento di quella cultura.
Dopo «fine del marxismo» e «fine della storia», diventata assai problematica la connessione con il «movimento reale», la storia della teoria ha ripreso nuovo vigore, ma con riferimenti del tutto esterni rispetto alle forme marxismo nel loro rapporto con le forme assuntedall’antitesi dei subalterni, tanto nella loro storia quanto nelle loro prospettive. D’altra parte la storia del marxismo si concretizza proprio nel sistema di relazioni tra le sue forme, le quali si presentano, a loro volta, come incroci, risultanti di percorsi molteplici
È possibile che lo scavo in atto nei materiali teorici marxiani sia propedeutico anche ad una storia rinnovata, ad una nuova sintesi, ma per ora le opere di carattere generale che sono uscite nel periodo della Marx Renaissance hanno riproposto il modello della storia delle teorie.
Allo stato attuale degli studi di storia del marxismo era impossibile pensare una storia di carattere generale, una storia addirittura globale, in grado di seguire la molteplicità delle forme marxismo al di fuori della forma marxismo teorico.
Come ha opportunamente ricordato Giorgio Cesarale, uno degli autori dell’opera in questione, ««il marxismo (…) se ha un valore conoscitivo è perché riposa su un complesso di forme (da quelle storiche e politiche a quelle più legate alla critica dell’economia politica)»[5]. E, seppure attraverso una declinazione sostanzialmente interna al marxismo teorico, i lineamenti dei volumi si snodano e si articolano secondo tale pluralità.
Gli ideatori dell’opera, il curatore, Stefano Petrucciani, sono perfettamente coscienti delle difficoltà insuperabili, anche rimanendo nell’ambito della sola forma marxismo teorico, per costruire una narrazione generale con tendenze sistematiche relativamente ad un oggetto definibile solo tramite storicamente determinati. Petrucciani nella Premessa parla esplicitamente della costruzione di una «mappa», e nel saggio introduttivo afferma «che una storia del marxismo non possa essere che selettiva e dunque per molti versi anche arbitraria»[6]. È quindi del tutto ovvio che la mappa in questione sia esile e che i suoi lineamenti si dipanino attraverso uno spazio talmente ampio da rendere impraticabile la possibilità di percorrere tutto il territorio. Sarebbe, però un’esercitazione non solo inutile, ma anche fuorviante, esercitarsi nella ricerca degli spazi non percorsi dalla «mappa» tracciata. Un’opera non va giudicata per quello che non c’è. Ed inoltre la ricerca delle «assenze» avrebbe il medesimo carattere «arbitrario» che Petrucciani ha indicato per la scelta delle «presenze». Un’opera va giudicata per quello che c’è, e in questa Storia del marxismo c’è molto, e di sostanza.
2) Tra le molte «forme» marxismo quella di «marxismo teorico» parrebbe avere una solida struttura di riferimento, e quindi caratteristiche di denotazione attraverso parametri certi. Dal punto di vista dell’analisi storica, invece, i parametri di definizione dell’oggetto di studio in questione non si delineano con nettezza. I loro confini sono sfumati sia in profondità che in ampiezza. Ci troviamo di fronte, infatti, a livelli diversi di «marxismo teorico». Diversi per capacità euristica, diversi per la scelta del punto ritenuto essenziale allo svolgimento della teoria, diversi infine per gli effetti su processi culturali di lunga durata.
Proprio la molteplicità dei modi in cui si manifesta la permeabilità dei confini del «marxismo teorico», implica l’impossibilità, in una storia, di ignorare nel contesto delle connessioni con il «marxismo politico». Il marxismo politico, infatti, dal punto di vista dell’analisi storica, e non solo, non è separabile dalle altre forme. Con queste, nel corso della sua storia, ha costituito un sistema di relazioni attraverso cui si è resa possibile l’amplissima diffusione di aspetti fondamentali delle forme stesse. Per più di un secolo partiti politici e poi persino Stati hanno posto il «marxismo» come elemento centrale della propria denotazione ed anche delle molteplici connotazioni, e dunque abbiamo necessariamente a che fare con dimensioni teoriche «impure».
Alcuni dei contributi dell’opera in questione hanno indagato accuratamente nel terreno della suddetta permeabilità, con risultati di notevole interesse. È il caso, ad esempio, dell’articolato itinerario di Nicolao Merker nell’universo del marxismo di lingua tedesca, dalla Spd all’austromarxismo, e di Guido Carpi nella centralità politica del marxismo russo e poi sovietico.
Merker sottolinea il ruolo fondamentale delle leggi antisocialiste di Bismarck nella formazione dei caratteri originari del marxismo. «Esibire dottrine ispirate a Marx – afferma – diventò importante per motivi anzitutto politici»[7]. Senza la pesante concretezza di questa contingenza storica la «cerniera che segna il passaggio da Marx al marxismo», la «cerniera»[8] engelsiana, avrebbe avuto maggiore difficoltà a chiudersi sull’orizzonte di una «filosofia per il socialismo».
Ed ancora, a proposito della permeabilità dei confini di cui si è detto, Merker cita Bruno Bauer che in un articolo politico del 1924 discute una tesi di fondo della Meccanica nel suo sviluppo storico (1883) di Ernst Mach[9]. E la discute, appunto, non in uno scritto di teoria della conoscenza, ma in un intervento sul terreno molto caldo dei tempi delle trasformazioni storiche, dei tempi delle rivoluzioni e della lentezza dei ritmi di trasformazione. E in tempi in cui il movimento operaio austriaco ed europeo su tali temi si sta dilaniando, e non solo metaforicamente.
Il marxismo russo è, con tutta evidenza, il luogo in cui l’intreccio tra marxismo teorico e marxismo politico finirà per assumere forme che incideranno profondamente nella vicenda dei socialismi novecenteschi. Merito del ricco ed analitico saggio di Guido Carpi è di avere tenuti ben stretti i lineamenti della particolare storia russa dell’Ottocento nel loro rapporto tanto con il marxismo precedente la rivoluzione d’ottobre che con quello seguente. Pur senza alcuna tentazione deterministica, Carpi coglie il peso di una storia profonda e di lunga durata nell’ambito di un complesso sistema di relazioni con i fenomeni legati a esigui gruppi di intelligencija. Anche il partito socialdemocratico russo (POSDR), prima della Grande guerra è partito di intelligencija. E sarà soprattutto dopo la guerra e la rivoluzione che la storia russa profonda, con protagonista il contadino-soldato, entrerà in collisione con la dimensione critica del marxismo. La belle pagine che Carpi dedica alla tensione tra quella vera e propria esplosione di sperimentazione artistica, culturale in genere, degli anni Venti e il prevalere del marxismo della ragione politica, sono, a questo proposito, di grande interesse.
Il grande scrittore sovietico Vasilij Grossman immagina una situazione in cui, nel 1943, un fisico teorico di grande rilevanza e famoso in tutto il mondo scientifico anche al di fuori della Russia, viene messo sotto accusa in quanto le sue teorie «contraddicevano le idee leniniste sulla natura della materia»[10]. Una situazione tutt’altro che immaginaria ed isolata nel marxismo di Stalin. In quella del Diamat (materialismo dialettico) dello «stalinismo maturo» – che, dice Carpi, «funziona e vuole funzionare come generatore e fondamento di una mitologia universale assoluta». Ed aggiunge: «Lungi dal rappresentare una mera deformazione del marxismo in senso platealmente deterministico – come vuole Lukács o, al contrario in senso pragmatico (come vuole Marcuse), il “materialismo dialettico” staliniano trapassa – qui davvero dialetticamente! – in arte divinatoria, demiurgica e polemologica: il nostro oggetto di studio si è così “tolto” (aufgehoben) in qualche cosa di altro da sé»[11].
Credo che sia una conclusione consolatoria. Anche questa era una forma marxismo, uno specifico e particolare storicamente determinato.
3) Nei primi due volumi di quest’opera l’intreccio tra dimensione teorica e sua articolazione con lo svolgimento dei lineamenti politici si manifesta, e non poteva essere altrimenti, attraverso un fittissimo insieme di problemi. Mi soffermerò, brevemente, solo su un paio di temi che mi sembra abbiano a vedere in maniera particolare con questioni di fondo relative a tale intreccio:
a) l’ «antiriformismo» di Marx, b) filosofia/non filosofia in Marx e nel marxismo.
a) Secondo Stefano Petrucciani «non c’è dubbio sull’opzione antiriformista e rivoluzionaria di Marx»[12]. Un’affermazione che, a mio parere, ha bisogno di essere meglio precisata, e, quindi, inserita in un contesto di «distinzioni», per usare un’espressione di Delio Cantimori.
Soprattutto la distinzione tra le categorie analitiche del Capitale e le posizioni politiche di Marx, in particolare nel momento in cui la Spd tendeva ad assumere una identità «marxista».
Sul piano del miglioramento delle condizioni di lavoro degli operai, ad esempio, la teoria del salario veniva legata da una parte a quella del valore, dall’altra a quella dell’accumulazione, tramite la definizione dei meccanismi d’azione del saggio di plusvalore e del saggio del profitto. Perciò, per quanto concerneva le categorie strettamente analitiche, la grandezza del salario, lungi dall’essere legata ai minimi di sopravvivenza (e del resto Marx insisteva particolarmente sul carattere storico, non statico, di questi minimi), non trova limiti se non nell’insorgenza di gravi pericoli per la continuazione del processo di valorizzazione del capitale. Le variazioni del saggio del profitto tra un limite minimo ed uno massimo potevano essere assai ampie. «È chiaro – affermava Marx – che tra questi due limiti del saggio massimo del profitto è possibile una serie immensa di variazioni. La determinazione del suo livello reale viene decisa soltanto dalla lotta incessante tra capitale e lavoro»[13]. Ed è altrettanto chiaro che tra questi due limiti, nella tensione verso il limite superiore, sta tutta la storia del riformismo. Centocinquant’anni di storia economica e sociale dalla I edizione del Capitale, hanno dimostrato, ad abundantiam, la dinamica di quelle oscillazioni anche in relazione al fattore «movimento operaio».
Naturalmente non era certo questo l’orizzonte verso cui verso cui tendeva il «rivoluzionario» Marx, ma le sue principali categorie di analisi economica non possono esser considerate negatrici di percorsi gradualistici e quindi riformatori.
Per quanto riguarda, invece, la posizione politica espressa nella «importante lettera “antiriformista”»[14] del 1879, il contesto in cui si pone è, certamente, quello della «assoluta opposizione», cioè il contesto in cui, in seguito alle leggi antisocialista di Bismarck, l’ambiente socialista tedesco si trovò ad essere sottoposto a violente oscillazioni. La ricordata lettera-circolare del 1879 non è altro che una reazione nei confronti dell’oscillazione più radicale: dalla «lotta di classe» alla «filantropia». Nell’estate di quell’anno era uscita a Zurigo nell’appena fondato «Jahrbuch für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», un articolo dal titolo Sguardi retrospettivi sul movimento socialista in Germania. Ne erano autori Höchberg, Schramm e Bernstein che però aveva aggiunto solo alcune righe secondarie. Questa una delle frasi chiave dell’articolo: « … i tedeschi hanno commesso un errore trasformando il movimento socialista in un puro movimento operaio e attirandosi da sé, provocando inutilmente la borghesia. Il movimento dovrebbe essere portato sotto la direzione degli elementi borghesi e colti…».
In una lettera a Becker (8 settembre) Engels chiarirà il senso della circolare «antiriformista»: «Sarà ben presto tempo di farsi avanti contro i grandi e piccoli borghesi filantropici (…) che vogliono annacquare la lotta di classe del proletariato contro i suoi oppressori [trasformandola] in un istituto generale per la fratellanza umana, e questo nel momento in cui i borghesi, con i quali vogliono affratellarci, ci hanno dichiarato fuori legge, hanno distrutto la nostra stampa, disperso le nostre assemblee e ci hanno consegnati all’arbitrio poliziesco sans phrase. Difficilmente i lavoratori tedeschi parteciperanno a questo tipo di menzogna». Battaglia per l’autonomia politica e teorica del socialismo, dunque, esattamente la stessa operazione che più di un decennio dopo vedrà, in Italia, protagonista Filippo Turati contro tutti gli «affinismi».
b) «Quando si parla del rapporto tra “filosofia” e “marxismo” si viene nominando un oggetto non chiaramente intellegibile», in questi termini, del tutto condivisibili, Giorgio Cesarale imposta uno dei problemi che ha attraversato, ed attraversa, tutto il lungo percorso del «marxismo teorico».
Cesarale è ben cosciente della difficoltà (impossibilità?) di definire il sapere filosofico. Penso che potrebbe concordare con quest’affermazione di uno storico come Krzysztof Pomian: «La specificità della filosofia consiste proprio in questo, che essa non può realizzarsi se non in una pluralità di filosofie tra loro in conflitto». E gran parte di questi conflitti sono relativi al rapporto tra sapere filosofico e saperi particolari[15]. La questione del rapporto filosofia-Marx, filosofia-marxismo è del tutta interna a questo tipo di problema, la cui consapevolezza impronta di sé tutto il saggio di Cesarale. «Karl Marx fu un filosofo tedesco»[16] afferma con decisione Kolakowski, e su questa base legge le categorie economiche marxianecome sostanziale frutto di una «antropologia filosofica»[17] e ribadisce che il Capitale «va compreso come opera filosofica»[18]. Ed, appunto, cercare una risposta alla questione della natura del sapere di Das Kapital, significa entrare nel nucleo centrale dell’operazione tanto metodologica che epistemologica del Marx maturo.
Marx è stato certamente anche un «filosofo tedesco» e alcuni dei problemi filosofici centrali del periodo giovanile, non sono certo scomparsi, nella maturità, dall’orizzonte della sua riflessione. Ma è altrettanto significativo che una volta giunto alla economia politica egli «studiò per vent’anni questa scienza (…) con un interesse assolutamente prevalente rispetto agli altri rami del sapere»[19]. Il Marx analitico della maturità è un economista politico. Il problema riguarda piuttosto la peculiarità della sua critica dell’economia politica.
Com’è noto Schumpeter insiste sulla natura «chimica» della fusione nel Capitale di sociologia, storia, economia. Diverso il caso della filosofia che, sempre secondo Schumpeter, al massimo avrebbe influenzato la «visione» di Marx, l’«atto conoscitivo preanalitico», mentre si potrebbe dimostrare che «ogni sua proposizione, economica e sociologica, come pure la sua visione del processo capitalistico in generale, o possono riportarsi a fonti non filosofiche (...) oppure considerarsi come risultato di una propria analisi rigorosamente empirica»[20]. Un’osservazione pregnante, sebbene non immune da quel fastidio nei confronti della filosofia, apportatrice di impurità nei paradigmi scientifici, tipico di una lunga tradizione di economisti per i quali nel migliore dei casi la filosofia doveva considerarsi nettamente separata dalla loro disciplina, nel peggiore considerarsi il luogo di complicate fanfaluche verbali.
In realtà la filosofia, nell’argomentazione del Capitale, ha un ruolo più rilevante di quello che Schumpeter le ha assegnato, senza che per questo l’analisi economica perda la sua specificità, e le categorie economiche appaiano come meri involucri di categorie filosofiche, così come Kolakowski le ha interpretate. La scelta del curatore della Storia del marxismo di affidare a Riccardo Bellofiore[21], uno degli economisti che con maggiore rigore e penetrazione ha indagato il rapporto filosofia/economia nel Capitale, il capitolo dedicato all’analisi il luogo sostanziale del problema (la teoria del valore), è stata, senza dubbio, lungimirante.
Cesarale, sulla questione, cita Balibar: «quella marxiana è piuttosto tanto un’antifilosofia (…) quanto una sorta si Überwindung, di oltrepassamento, della filosofia, una posizione teorica che nel suo costituirsi utilizza la filosofia, ma non la invera, non la eleva ad un grado superiore di sviluppo». Sempre dallo stesso libro cui si riferisce Cesarale si potrebbe citare anche questa tesi che l’autore definisce «un po’ paradossale»: «Non c’è e non ci sarà mai una filosofia marxista; di contro l’importanza di Marx per la filosofia è più grande che mai ( il corsivo è di Balibar)»[22].
Alla fine del XIX secolo un filosofo italiano, Antonio Labriola, proprio tramite studi economici, passa dalla «filosofia astratta»[23], alla convinzione che «la filosofia come un tutto a sé [sia] destinata a sparire»[24] (il corsivo è mio). Un lungo e intenso viaggio all’interno dell’economia politica durante il quale la sua concezione di filosofia si modifica radicalmente. Alla luce di quel viaggio, che poi fa tutt’uno con la sua adesione al marxismo, arriverà a questa conclusione: «Noi ora sappiamo che cosa la filosofia sia stata, che cosa non debba più essere, e in quali modesti confini d’ora innanzi si debba restringere»[25]. Per Labriola, in polemica con Croce proprio sulla concezione della filosofia, la scienza dei «concetti puri» si manifesta come sapere regressivo, rispetto ad un metodo, quello marxiano, che si oppone, da un lato all’assolutizzazione della scienza, sottoponendola ad una “critica” (nel Capitale, ad una “critica dell’economia politica” come scienza); dall’altro si oppone alla assolutizzazione della filosofia, rinviandola per i suoi contenuti a riflettere sulle scienze e sull’esperienza comune. Si è di fronte, direi, ad un modo d’intendere il lavoro teorico diverso dalla theoria (non è un bisticcio di parole) nelle sue implicazioni procedurali, conoscitive e pratiche, un modo che costituisce la risposta non alla classica (e infruttuosa) domanda ‘che cosa è la filosofia?’, ma alla domanda cruciale ‘come fare filosofia in mondo che cambia?’: per conoscerlo e per trasformarlo.
* Paolo Favilli, già professore di Storia contemporanea e Teoria della conoscenza storica all’Università di Genova, già direttore del Dipartimento di Studi Umanistici di quell’Università, è studioso delle culture del socialismo. Alla storia del marxismo ha dedicato, oltre numerosi saggi, anche alcuni volumi: Il socialismo italiano e la teoria economica di Marx (1892-1902), Napoli, 1980; Herausgabe un Verbreitung der Werke von Karl Marx und Friedrich Engels in Italien, Trier, 1988; Storia del marxismo italiano. Dalle origini alla grande guerra, Milano, 1996; Marxismo e storia. Saggio sull’innovazione storiografica in Italia, Milano, 2006. Sono in corso di pubblicazione: Il marxismo e le sue storie, Milano, 2016 e The History of Italian Marxism, Leiden/Boston, 2016, traduzione inglese del libro del 1996.
[1] «La Stampa», 3 marzo 2015.
[2] K. Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica, Napoli, La città del sole, 2011. (Marx Engels Opere Complete, XXXI).
Cfr. http://ilrasoiodioccam-micromega.blogaut...
[3] A. Gramsci, Quaderni del carcere, Edizione critica, Torino, Einaudi, 1975, p. 420.
[4] R. Fineschi, Un nuovo Marx. Filologia e interpretazione dopo la nuova edizione storico-critica (MEGA2), Roma, Carocci, 2008.
[5] G. Cesarale, Filosofia e marxismo tra Seconda a Terza Internazionale, in Storia del marxismo, vol. 1, pp. 169-228. La cit. p. 225.
[6] S. Petrucciani, Premessa, e Da Marx al marxismo attraverso Engels, in Storia del Marxismo, cit., pp. 9 e 12.
[7] N. Merker, Ortodossia e revisionismo nella socialdemocrazia, ivi, pp. 33-72. La cit. p. 33.
[8] S. Petrucciani, Da Marx al marxismo, attraverso Engels, ivi, pp. 11-32. La cit. p. 24.
[9] N. Merker, L’austromarxismo e i marxismi eterodossi, ivi, pp. 147-168. Il riferimento p. 150.
[10] V. Grosssman, Vita e destino, Milano, Adelphi, 2008, p. 542.
[11] G. Carpi, Il marxismo russo e sovietico fino a Stalin, in Storia del marxismo, cit,pp. 101-145. La cit. p. 141
[12] S. Petrucciani, Da Marx al marxismo attraverso Engels, cit., p. 18.
[13] K. Marx, Salario, prezzo, profitto, MEOC, vol. XX, p. 147. Il corsivo è mio.
[14] S. Petrucciani, Da Marx al marxismo attraverso Engels, cit., p. 18.
[15] K. Pomian, Filosofia/filosofie, in «Enciclopedia», vol. VI, Torino, Einaudi, 1981, pp. 153-207. La cit. p. 155.
[16] L. Kolakowski, Nascita, sviluppo, dissoluzione del marxismo, vol. I, I fondatori, Milano, SugarCo, 1980, p. 11.
[17] Ivi, p. 349.
[18] Ivi, p. 279.
[19] Intervento di B. Jossa in Marx e i marxismi cent’anni dopo, a cura di G. Cacciatore e F. Lomonaco, Napoli, Guida, 1987, p. 423.
[20] J. A. Schumpeter, Storia dell’analisi economica, Torino, Einaudi,1959, vol I, p. 52, vol. II, p. 506.
[21] R. Bellofiore, Capitale, teoria del valore e teoria della crisi, in Storia del marxismo, cit., vol. III, pp. 11-50
[22] E. Balibar, La filosofia di Marx, Roma, Manifestolibri, 1994, p. 7.
[23] Lettera a Friedrich Engels del 3 aprile 1890, A. Labriola, Carteggio, III, (1890-1895), a cura di S. Miccolis, Napoli, Bibliopolis, 2003.
[24] Lettera a Friedrich Engels del 13 giugno 1894, ivi.
[25] Ivi.