Salvatore Tinè

 

Con "Esterno-notte", Marco Bellocchio ritorna di nuovo dopo “Buongiorno, notte” sul caso Moro, ma questa volta provando a ricostruire la vicenda del sequestro e dell’assassinio del grande statista democristiano non solo nei suoi nessi interni con il più vasto e complesso quadro storico nazionale e internazionale in cui essa si svolse ma anche in rapporto con il processo di crisi dello stato italiano e del potere “democristiano” consumatosi alla fine degli anni ‘70 e di cui rappresentò un momento per molti versi decisivo. Una crisi che nel film ci appare in primo luogo come una crisi ideologica per molti versi tale quindi da investire insieme ai fondamenti ultimi della legittimità stessa del potere e delle sue istituzioni i livelli più profondi della vita e della coscienza nazionali.

Di qui la centralità che nell’economia stessa del racconto filmico e quindi nella trasfigurazione “artistica” della vicenda storica oggettiva che vi si narra assume il ruolo della Chiesa romana come principale pilastro ideologico e spirituale del “partito-stato” democristiano Il sequestro e la morte di Moro costituiscono il momento cruciale della crisi di questo partito-stato e della sua stessa vastissima base di consenso di massa e popolare ma proprio per questo ne scoprono e rivelano le contraddizioni interne e la natura più profonda. La DC finisce così per apparire come una forma certo storicamente determinate di esercizio e di pratica del potere e tuttavia anche particolarmente esemplare e “paradigmatica” della sempre contraddittoria fenomenologia del potere come tale, in quanto legata al suo carattere internamente duplice, insieme “sacrale” e totalmente immanente al conflitto sociale e politico, quindi alla sua natura di “potenza ideologica” e tuttavia o proprio per questo “materiale”.

Non a caso, nella struttura narrativa del film Moro è assoluto protagonista solo fino alla sequenza del suo sequestro, mentre lungo l’intera parte successiva alla strage di Via Fani, ad imporsi nel racconto, perfino come protagonista principale dei tentativi di liberazione del prigioniero, è la figura del papa. Ed è proprio nei dilemmi tormentosi in cui si dibatte la coscienza di quest’ultimo nel tentativo via via sempre più disperante di salvare la vita del leader democristiano, che il racconto di Bellocchio sembra riassumere il nodo inestricabile di contraddizioni in cui viene tragicamente aggrovigliandosi la vicenda politica italiana in quel cruciale passaggio storico, non solo nell’ambito delle istituzioni rappresentative dello stato e dei suoi relativamente autonomi apparati militari e repressivi ma anche nel più generale contesto della vita e della coscienza nazionali. Al centro di quei dilemmi è infatti il contrasto tra la logica politica della responsabilità che non può non informare l’esercizio dello stesso potere papale e la misericordia cristiana che altrettanto necessariamente si impone alla coscienza del “credente”. Bellocchio trasforma Paolo VI nel personaggio di un vero e proprio “dramma luttuoso” il cui angoscioso svolgimento è destinato a far vacillare e perfino e delegittimare il fondamento stesso del suo potere politico e quindi della sua autorità religiosa e spirituale. Si direbbe che la tragedia di Moro venga raccontata in questa parte del suo film principalmente attraverso i suoi riflessi drammatici non solo nell’azione politica, incerta e precaria, continuamente oscillante e contraddittoria, del papa ma anche nei dubbi lancinanti sul rapporto tra fede cristiana e cattolica ed esercizio del potere che quella tragedia innesca nel più profondo della coscienza di Paolo VI. E’ questa profondità, che Bellocchio indaga, non solo nei suoi chiaroscuri più mobili e sfuggenti ma anche nei suoi livelli più profondi e inattingibili, portandola alla luce proprio nelle forme della più spinta spettacolarità barocca. La visione che ossessiona le notti insonni di Paolo VI di una croce addossata sulle spalle di Moro colpisce insieme per la cupezza e insieme per la sua funebre spettacolarità rivelandosi come la più sconvolgente metafora visiva della stessa visione del sequestro e della morte di Moro che Bellocchio ci propone. La visione di un calvario cristologico nelle forme artistiche spettacolari e fantasmagoriche proprie del barocco. Ma è l’esercizio esercizio del potere in quanto tale una croce da portare sulle spalle- sembra dirci Bellocchio. Nella sua interpretazione così scopertamente e spettacolarmente teologico-politica della vicenda di Moro, il potere è colpa ed espiazione insieme. Ma Bellocchio riporta questa colpa ed espiazione destinate segnano l'ultima grande svolta politica della storia del nostro paese, nel profondo della coscienza di tutti i suoi protagonisti e non del solo Paolo VI, nel loro interno più fondo e cupo. Gli "arcana imperii" ci riportano agli strati più profondi e impenetrabili della coscienza di chi pure è investito del potere pubblico, caricandosi il peso spesso schiacciante ed insostenibile della responsabilità pubblica che essa comporta. Il regime democristiano si fa nel film di Bellocchio metafora di questo intreccio inestricabile tra pubblico e privato, tra religione e politica, tra la dimensione per così dire "interna" del potere e la sua immagine pubblica ed esterna che nei giorni del sequestro Moro, della cosiddetta "notte della repubblica" sembra come esplodere in tutta la sua lacerante e paradossale contraddittorietà. La stessa violenza del conflitto sociale e politico che insanguina le piazze e le strade del paese è un momento di questa contraddittorietà. Anche il potere e quello religioso e indirettamente politico e quello direttamente politico, posto di fronte al problema della vita di Moro e al dilemma tra fermezza e trattativa rivela la sua essenza violenta ovvero la sua natura di potere   di vita e di morte, opposto e speculare insieme a quello illegalmente esercitato dalle Br attraverso il processo cui viene sottoposto il loro prigioniero. Il sangue che fuoriesce dal corpo del papa in preda al tormento per la sorte di Moro, in una sequenza del film è la metafora visiva del potere come lacerazione, ferita che sanguina ancorché nascosta. Certo, di fronte a questo fondo di morte che il potere che proprio la sua crisi smaschera e rivela, Moro sembra incarnare l'idea, in apparenza opposta, che il potere sia essenzialmente mediazione e unità, una continua, paziente, fiduciosa opera di superamento dei contrasti e delle divisioni che lo lacerano al suo interno e quindi nel rapporto tra esso e la società cui sovraintende e che pure cerca di inglobare e assorbire in sé. Ma il destino di Moro rivela proprio la catastrofe di questa idea, la realtà sotterranea che di cui essa è insieme manifestazione e occultamento. Bellocchio fa così emergere il nucleo tragico che si nasconde dentro l'idea "democristiana" di potere propria di Moro come dentro la stessa figura di quest'ultimo di la' dal suo volto familiare e rassicurante, dal ritmo uguale e dalla calma liturgia che ne scandisce la vita quotidiana, nei palazzi del potere come all'interno della casa e della famiglia. Di qui la contraddittoria complessità del suo rapporto con le figure di Cossiga e Andreotti, due “personaggi” centrali nel racconto del film e che anche nelle differenze e nei contrasti con Moro risultano illuminanti nella comprensione della stessa figura di quest’ultimo.

Cossiga viene fuori come un personaggio più complesso che ambiguo, come un'altra figura della "mediazione" politica, diversa da quella di Moro e tuttavia complementare ad essa. Moro media tra le correnti della DC e tra quest'ultima e la Santa Sede; Cossiga tra la DC e le strutture militari e segrete dello stato più legate agli USA e alla NATO. Due figure, dunque, della mediazione e della costruzione dell'ordine politico-statuale, quella di Moro centrata sul consenso e l'ideologia, quella di Cossiga sull'equilibrio tra il consenso e la forza, tra il partito come strumento dell’unità politica dei cattolici e gli apparati dello stato. E’ in fondo questo nesso tra partito e stato, non meno essenziale, nella struttura del potere democristiano di quello tra partito e Chiesa, ad emergere nel rapporto personale e politico tra Moro e Cossiga così come ci viene raccontato da Bellocchio. Per Cossiga, Moro è un riferimento politico essenziale, perfino una guida spirituale, non priva di tratti paterni. Ma è per l’appunto appunto la crisi di questo rapporto come emblematica di una crisi del potere e della sua unità il tema del film di Bellocchio.

Andreotti è un'altra figura ancora della mediazione: il rapporto con la Santa Sede è fondamentale ma in una logica politica che piega questo rapporto al mantenimento degli equilibri dati, alla loro cristallizzazione. Perciò il suo volto è una maschera irrigidita, la sua ambiguità più impenetrabile che complessa. Il film è una fenomenologia del potere democristiano proprio perchè mostra il nesso interno e non solo la diversità o la contraddittorietà tra queste figure. A tutte non a caso sembra presiedere il potere del papa come potere religioso e politico, come mediazione paradossale e tuttavia necessaria al mantenimento dell'ordine e della pace, tra religione e politica, quotidiana costruzione dell'unità tra esse. E' a questa unità rinvia in fondo lo splendido discorso di Moro con cui inizia il film, il suo calmo e insieme appassionato evocare la necessità dello "stare uniti". La mediazione è dunque potere, non mero compromesso, sintesi politica ma in un senso altissimo, anche religioso e morale. Il suo ostinato paziente realismo politico ha un fondamento religioso.

Esso non ha niente di cinico o disincantato. Non a caso l'assenso di Paolo VI, pure sofferto, alla politica del compromesso storico è fondamentale per Moro. Ma il PCI è un partito la cui partecipazione al governo è per Moro un elemento di ordine. E' ciò che secondo lui, gli americani non capiscono. Ma Moro nonostante il suo realismo forse non capisce che questo costituisce un ostacolo insormontabile per la sua politica. Se, insomma, sulla questione della partecipazione del PCI al governo la mediazione è possibile con le correnti e con Andreotti non lo è con gli USA. Cossiga lo capisce e entro certi limiti, che tuttavia sa intrascendibili, cerca di mediare con gli USA. Ma proprio l’impossibilità di questa mediazione è la tragedia che il film ci racconta.

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