Diritti umani e democrazia. La Repubblica Popolare Cinese contro l’imperialismo americano

Gianbattista Cadoppi

 

Take up the White Man's burden —
Send forth the best ye breed —
Go bind your sons to exile
To serve your captives' need;
To wait in heavy harness,
On fluttered folk and wild —
Your new-caught, sullen peoples,
Half-devil and half-child.

………..

Take up the White Man's burden —
The savage wars of peace —

Rudyard Kipling

Il pesante fardello dell’uomo bianco è quello di portare ai popoli incivili, per metà diavoli e per metà bambini, la vera fede, la civiltà, la democrazia dovendo, ahimè, combattere le “guerre selvagge” della pace. Ma coloro che abbiamo salvato dalla barbarie siamo sicuri che lo volessero? Siamo sicuri che la loro fosse “barbarie”, siamo sicuri che i nostri popoli siano quelli del “Manifest Destiny”, che Dio ci abbia destinato una missione? Siamo davvero in missione per conto di Dio come dicevano i Blues Brothers? Ma loro non facevano particolari danni e il prezzo era che qualche nazista dell’Illinois finisse a bagno dentro al fiume.

Certo che questa nostra voglia di portare la civiltà agli altri ha avuto anche qualche vittima per i danni collaterali. Quando ci sono milioni di morti una cosa è sicura: questi morti non potranno mai usufruire degli “immensi benefici” della democrazia, della libertà e dei frutti della “civiltà” occidentale. E le vittime? Gore Vidal afferma che i milioni di filippini morti (forse tre milioni) sono stati generalmente rappresentati come danni collaterali di una rivolta contro l’Impero americano.

Perché cito Vidal? Perché la poesia di Kipling fu scritta a sostegno dell’invasione da parte degli Stati Uniti delle Filippine nella guerra ispano-americana (definita splendid little war) iniziata nel 1898 il cui pretesto fu l’affondamento della USS Maine. Certo la guerra fu indubbiamente selvaggia. Il Generale Jacob H. Smith nel 1901 affermava: «Non voglio prigionieri, voglio che uccidiate e bruciate; più ucciderete e brucerete e più mi farete contento. Voglio che siano uccise tutte le persone che sono capaci di portare armi» (Cadoppi 2016).

Un altro grande scrittore americano Mark Twain, che in quell’occasione creò la Lega Antimperialista, cinicamente "salutò" l’America del primo genocidio internazionale suggerendo che si sostituissero le stelle e strisce nella bandiera americana con il teschio e le ossa incrociate. L'invasione delle Filippine era stata suggerita al presidente americano William McKinley nientemeno che da Dio in persona! Una cosa ricorrente in America.

Mark Twain scrive che i soldati americani praticavano il waterboarding pompando acqua salata su uomini per farli parlare, e «hanno fatto prigioniere persone che hanno alzato le mani e si sono pacificamente arrese, e un'ora dopo, senza un minimo di prove che dimostrassero che fossero degli insorti, sono state portate su di un ponte e abbattute una ad una, per farle cadere nell'acqua sottostante affinché galleggiassero a lungo, come esempio per chi avesse trovato i loro cadaveri crivellati» (Cadoppi 2016).

Domenico Losurdo parlando degli orrori della repressione del movimento indipendentista nelle Filippine scrive che la guerriglia fu affrontata «con la distruzione sistematica dei raccolti e del bestiame, rinchiudendo in massa la popolazione in campi di concentramento dove era falcidiata da inedia e malattie e in certi casi ricorrendo persino all'uccisione di tutti i maschi al di sopra dei dieci anni» (Losurdo 2007). Popolo avvisato…

Oggi si parla dei (falsi) campi di concentramento dello Xinjiang, ma proprio nelle Filippine furono istituiti i primi campi di concentramento a fine Ottocento contro la popolazione ribelle. Questa pratica fu continuata durante la guerra anglo-boera dai britannici in Sud Africa, per arrivare ai nazisti e infine a Guantanamo. I campi di concentramento sono stati un’invenzione degli occidentali.

Losurdo parla anche di come i britannici abbiano scardinato la Cina, chiusa al “mondo barbaro”. attraverso l’oppio e «non appena i cinesi si rendono conto del disastro sociale legato alla circolazione della droga, gli inglesi rispondono con quella che si chiamerà la politica delle cannoniere (1839-1842) sequestrando alla Cina il porto di Hong Kong» (a proposito).

La prima volta che gli occidentali si sono interessati alla Cina non era per i diritti umani.

Quanto potesse valere il diritto internazionale lo dimostrarono i britannici durante la guerra dell’oppio. L’incorruttibile Lin Zexu si oppone al contrabbando d'oppio sebbene non si opponga, in verità al commercio della seta e di altre merci. Egli persino distingue tra commercio legale e illegale dello stesso oppio. Lin Zexu aveva mandato una lettera alla Regina Vittoria nell’agosto del 1839, alla vigilia dell’attacco britannico: «Mi è stato detto che avete severamente proibito l’oppio nel vostro paese, e ciò indica senza dubbio la vostra consapevolezza di quanto dannoso esso sia. Voi non volete che l’oppio arrechi danno al vostro paese ma scegliete di portare un simile danno ad altri paesi come la Cina? Perché?».

Di fronte al rifiuto inglese di cooperare al­la soppressione del traffico richiesta in base al diritto interna­zionale e al comune senso della moralità, Lin iniziò a confiscare e distruggere l'oppio di contrabbando arrestando anche alcuni contrabbandieri. Queste operazioni di polizia, che si erano svol­te su territorio cinese, vennero denunciate nel parlamento ingle­se come «triste malefatta, una malvagia offesa, un'atroce viola­zione della giustizia per la quale l'Inghilterra ha il diritto, un as­soluto e incontrovertibile diritto», in base «alle leggi umane e di­vine», «di esigere una riparazione con l'uso della forza nel caso venga rifiutata una composizione pacifica». Evidentemente in Inghilterra e in Cina vigevano due conce­zioni molto diverse del diritto internazionale e del comune sen­so della moralità, ma mentre i cinesi rivendicavano il loro dirit­to di definire e applicare le leggi sul proprio territorio, gli ingle­si proclamavano il diritto di definire e applicare le leggi non so­lo sul proprio territorio, ma anche su quello cinese (Arrighi 2008: 376-77).

L’inizio dell’eccezionalismo. La Cina non era in grado di contrastare le navi da guerra a vapore e dovette soccombere. Fra diritti contrapposti decide la forza come già sapeva Marx e i diritti più o meno umani non sono diversi dagli altri. Il diritto è sempre quello del più forte.

I cinesi avevano violato la “libertà”, quella di vendere l’oppio, che gli inglesi proibivano a casa propria. Due pesi, As Usual. Allora Lord Palmerston aveva fatto la faccia truce: «Dobbiamo dare una lezione a queste perfide torme in modo che il nome Europa diventi sinonimo di terrore».

Insomma la prima volta che l’Occidente si è interessato seriamente alla Cina non era propriamente per i diritti umani ma per il diritto di spacciare droga. Sempre diritto è!!!

Si sente dire spesso che i cinesi avrebbero distrutto la loro cultura e il patrimonio culturale. Vediamo ciò che hanno fatto i “civilizzatori” occidentali la seconda volta che si occuparono della Cina entrando nel Palazzo d’Estate a Pechino.

Victor Hugo paragonò questo palazzo al Partenone, al Colosseo, una delle "meraviglie del mondo" e il più grande di tutta l'Asia. Ciò che fecero lo dice uno dei protagonisti diventato famoso in seguito come "Chinese Gordon":

Siamo usciti e, dopo averlo saccheggiato, abbiamo bruciato l'intero posto, distruggendo in modo vandalico le proprietà più preziose. Non puoi quasi immaginare la bellezza e la magnificenza dei luoghi che abbiamo bruciato. Faceva male al cuore bruciarli; in effetti, questi posti erano così grandi, e siamo stati così pressati per il tempo, che non abbiamo potuto saccheggiarli con cura. Le quantità di ornamenti d'oro furono bruciate, considerate come ottone. Era un lavoro miseramente demoralizzante per un esercito (Sdonline 2014).

Ma come afferma ironicamente Hugo noi saremmo i “civili”, e i cinesi sarebbero i “barbari”: «Questo è ciò che la civiltà ha fatto alla barbarie». Le rovine del Palazzo d’Estate sono il segno più visibile di cosa significasse per la Cina essere soggetta al dominio straniero, all'umiliazione e al saccheggio da parte della “superiore” civiltà occidentale.

Un’altra occasione in cui ci siamo interessati alla Cina è stata all’inizio del Novecento in seguito alla rivolta dei boxer. Le truppe straniere entrarono a Pechino dove iniziarono carneficine e saccheggi sistematici. Gli edifici reali, templi e palazzi furono spogliati, vandalizzati, diventando alloggio per le truppe. Beni culturali e artistici di inestimabile valore furono distrutti o rubati dalla soldataglia. Le banche furono saccheggiate e le truppe occidentali rubarono tutto. La moneta cinese perse ogni valore. Gli stupri e le violenze contro donne e ragazze erano all’ordine del giorno.

Lo stesso successe in altre città e i soldati stranieri bruciarono interi villaggi non risparmiando nulla. II Protocollo dei Boxer che fu imposto alla Cina comportò una pesante indennità a favore degli occupanti. Per tutta la Cina venivano prese in concessione miniere, e il commercio, le fabbriche, le banche, le dogane e qualsiasi posto dove si potesse sfruttare la nazione per fare soldi veniva occupato dagli occidentali.

Quello che era ancora all’inizio dell’Ottocento uno dei paesi più ricchi della terra divenne in breve tempo il più povero. La Cina fu smembrata e umiliata. Russi, Americani, Francesi, Britannici, Tedeschi, Giapponesi e Italiani si ritagliarono un posto al sole con la politica delle cannoniere. Cosa singolare l’imperatore tedesco coniò il termine “Pericolo giallo” quando in realtà il pericolo era assolutamente “bianco”[1]. È tipico dell’occidente colpevolizzare le proprie vittime.

Nel 1900, il 90% dell'Africa e il 56% dell'Asia sono dei domini coloniali che l'Occidente saccheggia permettendo la rapida industrializzazione dell'Occidente.

Allo stesso tempo, l'Occidente distrugge l'industria nascente di questi paesi con l'importazione di merci e l'organizzazione di una produzione locale sotto il controllo occidentale. Per le varie guerre, l'Occidente impone alla Cina dei «risarcimenti» eccessivamente alti. Lo scarso capitale interno non viene usato per la messa a punto dell’economia nazionale, ma passa in questi «risarcimenti». In tal modo, la base economica e finanziaria dello stesso sviluppo cinese è annientata (Franssen 2007).

Alla Guerra dell’Oppio segue il secolo dell’umiliazione. Dalla prima guerra dell'oppio, nel 1840, fino al 1922, ogni sconfitta della Cina da parte dell'imperialismo europeo o giapponese fece guadagnare agli agressori un compenso molto alto. Nel 1895, ad esempio, il Giappone ha imposto danni equivalenti a tre anni di entrate dello stato. Dopo la rivolta dei boxer, la Cina deve pagare agli imperialisti centinaia di milioni di dollari in contanti. In entrambi i casi, la Cina contrarrà prestiti all'estero; per ripianarli l'Occidente prende il controllo delle dogane, quindi quello dell'intera amministrazione fiscale (Franssen 2007).

La Cina durante la Seconda Guerra Mondiale subì l’occupazione e lo smembramento territoriale da parte del militarismo giapponese. La guerra causò circa 35 milioni tra feriti e morti (il paese più colpito in assoluto), distruzioni e danni economici ingenti. Il massacro terroristico di Nanchino con centinaia di migliaia di morti, decine di migliaia di donne bambine seviziate per opera dei giapponesi, ancora oggi suscita indignazione da parte dei cinesi. 300.000 tra soldati e civili cinesi furono uccisi.

È poi curioso che i vice-campioni dei diritti umani, i britannici, si siano tenuti per un secolo e mezzo Hong Kong ma le prime elezioni a suffragio universale le abbiano istituite i cinesi come pure il primo servizio di previdenza sociale. Della serie “Ve li diamo noi i diritti umani”.

Gli occidentali sempre più arroganti approfittavano della debolezza dell’Impero Cinese per impiantare legazioni dove era severamente vietato l’ingresso ai cani e ai cinesi[2]. Se si passeggia sul lungomare di Shanghai si vedrà l'architettura che riflette la presenza di "colonie" europee che hanno dominato la Cina per due secoli. È un promemoria, dicono i cinesi, che questa storia non si ripeterà. La Cina non sarà più una colonia di nessun paese e il lavoro della sua popolazione sarà solo a beneficio dei propri figli.

Una delle più cupe pagine scritte col sangue dall’imperialismo occidentale fu archiviata nel Risorgimento cinese con la Rivoluzione del 1911 e definitivamente con quella del 1949! Sin dalla comparsa del Kuomintang di Sun Yat Sen fortemente influenzato dal bolscevismo, il partito era strutturato come un partito comunista, la Cina si appropria di un nuovo patriottismo che rivendica dignità e rispetto. Così la pensavano i giovani del movimento del “4 maggio” che nel 1919 protestarono contro l’ennesimo atto d’arroganza dell’Occidente. Seguono le 21 richieste fatte dai giapponesi, il sequestro della Manciuria, i movimenti contadini in Hunan, l’Insurrezione di Canton, le campagne di annientamento di Chiang Kai-shek contro i comunisti, l'incredibile Lunga Marcia di una banda di soldati rivoluzionari mal vestiti e mal equipaggiati con solo una manciata di miglio per sostenerli fisicamente ma determinati a sopravvivere e strappare la vittoria; la lunga guerra di guerriglia, la riforma agraria nelle aree liberate e la vittoria finale sui giapponesi e sui Kuomintang, consentendo l'avvio del secondo esperimento nel mondo di costruzione del socialismo. Mao poteva dire il 1° ottobre del 1949: «La nostra non sarà più una nazione soggetta all’insulto e all’umiliazione. Ci siamo alzati in piedi. L’era nella quale il popolo cinese era considerato incivile è ora terminata». Mao aggiungeva: «Per oltre un secolo i nostri antenati non hanno smesso di sviluppare lotte ostinate contro gli oppressori interni e stranieri» (cit. in Losurdo 2002). La costernazione nel mondo capitalista avanzato nel momento in cui la Cina "divenne comunista" e la gioia della maggioranza delle popolazioni del Terzo mondo per la vittoria può essere solo immaginata. Il grande contributo cinese ai diritti umani è stato nell’indicare la via per la liberazione dal colonialismo: il più odioso crimine contro l’umanità.

Scriveva Geoffrey Barraclough verso la metà degli anni Ses­santa: "All'inizio del ventesimo secolo il predominio europeo in Asia e Africa era al suo apogeo; sembrava non ci fosse nazione capace di resistere alla superiorità europea tanto sul piano mili­tare quanto su quello economico. Ma sessanta anni dopo, di quella dominazione europea, non rimangono che poche tracce [...]. Mai, a memoria d'uomo, un mutamento di tale rivoluziona­ria portata si è compiuto con altrettanta rapidità". Il mutamen­to della condizione dei popoli asiatici e africani "è certo il se­gnale più evidente dell'inizio di una nuova era". Barraclough non aveva dubbi che quando si fosse cominciato a guardare con una visuale di più ampio respiro alla storia della prima metà del ventesimo secolo - che alla maggior parte degli storici appariva ancora dominata dalle guerre e dagli avvenimenti europei - nes­sun tema avrebbe assunto rilevanza maggiore di quello della "ri­volta contro l'Occidente" (Arrighi 2008: 12).

E questa rivolta contro l’Occidente è stata una potente molla nella lotta per i “diritti umani” il cui inizio su grande scala lo si deve alla Rivoluzione cinese.

È  del tutto logico e comprensibile che i cinesi non sappiano che farsene dei diritti umani formato export dell’Occidente, soprattutto se producono, è il caso dell’Irak, milioni di morti e distruzioni. Non provarci più Zio Sam!

Ancora una primavera. Il mito del massacro di Tienanmen e la fine ingloriosa della prima rivoluzione colorata[3]

E a questo punto il pastore pregò. Fu una preghiera bella e generosa, nonché molto particolareggiata: invocava la protezione del Signore per quella chiesa, e per i fanciulli di quella chiesa; per le altre chiese del villaggio; per il villaggio stesso; per la contea; per lo Stato; per i funzionari dello Stato; per gli Stati Uniti; per le chiese degli Stati Uniti; per il Congresso; per il Presidente; per i funzionari del Governo; per i poveri marinai, in balia di mari tempestosi; per i milioni di oppressi che gemevano sotto il tallone delle monarchie europee e dei dispotismi orientali.

Mark Twain: Le avventure di Tom Sawyer

La vocazione americana di portare i diritti umani in formato export è di vecchia data. A venticinque anni dalla prima rivoluzione colorata abortita[4], la “primavera cinese” (“Bejijng Spring” era definita), una rivoluzione colorata ordita dall’Impero del Kaos ha vinto (per ora) in Ucraina, e nuovi tentativi sono in corso in Venezuela e a Hong Kong. Oggi come allora ci sono all’opera bande di terroristi di estrema destra istruiti da CIA, ONG, media asserviti, addirittura con il supporto della “sinistra radicale”. Un giornale russo scrive dei «fatti di Piazza Tienanmen[5] ovvero la sventurata Maidan cinese», che Tienanmen per la Cina nel 1989, proprio come Maidan per l’Ucraina nel 2014, è stato un punto critico di biforcazione d’importanza strategica per i decenni futuri. Se gli studenti cinesi avessero vinto, la Cina avrebbe subito la stessa sorte dell'Unione Sovietica ieri e dell’Ucraina oggi: il collasso dell'economia, il crollo del paese su varie linee di rottura, passioni ribollenti e, probabilmente, la guerra civile. Centinaia di migliaia di persone sarebbero morte come risultato di questi eventi, ovviamente in proporzione alla scala di grandezza della Cina. Lo abbiamo visto dove la guerra civile ha preso piede a seguito dell’interferenza straniera in Libia e in Siria. «Tuttavia, niente di tutto questo è avvenuto» (Vinogradov 2014). E dire che avevano trovato il loro Gorbaciov in Zhao Ziyang[6] e il loro Sacharov in Fang Lizhi[7]. Tra l'altro nel 2015, un anno dopo la rivoluzione colorata, il salario medio in Ucraina è di 150 dollari con il 10 per cento di disoccupazione e il 28 per cento di inflazione. E questo sarebbe il brillante risultato ottenuto dall'intervento dell’Unione Europea e soprattutto degli USA nel finanziamento del colpo di stato. Nella Cina “impoverita e oppressa” nel 2015 lo stipendio medio era almeno quattro volte superiore (triplicato negli ultimi dieci anni), la disoccupazione al 4 per cento e l’inflazione al 2 per cento. Gli ucraini però non devono piangere, fa sempre un brutto effetto quando uomini mascherati e con le insegne delle SS si mettono a piagnucolare.

Quale versione ci viene proposta dal 1989 del «massacro di Tienanmen»? Gli autori del racconto ufficiale sono i giornalisti stranieri che lavorano a Pechino e che, tuttavia, non stanno sulla scena del presunto crimine. In particolare stiamo parlando dei giornalisti della CNN e della BBC, che trasmettono informazioni sulle montagne di cadaveri degli studenti schiacciati dai carri armati con tanto di mitragliatrici che sparano senza sosta. Alcuni riferiscono di aver visto la carneficina dalle finestre dell'Hotel Beijing, anche se in realtà si è scoperto che dalla terrazza dell'hotel non è visibile la parte della piazza dove sarebbe avvenuto il misfatto. L’hotel è a poche centinaia di metri dalla piazza mentre i giornalisti riferiscono notizie provenienti dalla Voice of America che si trova a migliaia di chilometri. È la débâcle del giornalismo d’inchiesta e il trionfo del “giornalismo passivo”. Così, infatti, lo definirà Jay Mathews, già capo dell’ufficio di Pechino del Washington Post, ossia il giornale del caso Watergate, che capeggiò l’ondata revisionista su Tienanmen con un articolo scritto per la Columbia Journalism Review nel 1998 dal titolo rivelatore: The Myth of Tiananmen and the Price of a Passive Press. «Nel 1989, questi metodi di guerra dell'informazione erano insoliti per molti. È solo ora, dopo aver visto il lavoro della televisione americana durante la guerra con la Georgia e la crisi ucraina, che i russi hanno un'idea di come funziona il sistema, nome in codice Wag the Dog»[8] commenta un osservatore russo (Vinogradov 2014).

Si è parlato del “lavaggio del cervello” cui sarebbero stati sottoposti i cinesi, ma anche qualora così fosse, non sarebbero certo gli unici. Quanti americani pensano che il loro paese sia la principale forza nella lotta per il bene del mondo, nonostante tutte le guerre e distruzioni immani create dalla commistione del complesso militare-industriale con la politica in una sorta di keynesismo militarista che condiziona perfino l’esercizio della democrazia, come già intravisto dal presidente Eisenhower alla fine degli anni Cinquanta.

I cinesi, poverini, per effetto della censura non sapevano quello che realmente stava accadendo nella loro capitale. In realtà non è così, ma noi lo sapevamo? Per nulla. La menzogna in occidente è molto più efficace. Noi abbiamo volontariamente ceduto il nostro cervello in ostaggio ai media mainstream[9]. Gli inganni False Flag sulla Siria dimostrano come uno statista, Assad, incensato dal nostro Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per la sua tolleranza e amico dell’Italia ancora nel 2010, diventa nel breve tempo di una stagione un nemico giurato del genere umano. Il tutto deciso, dalla mattina alla sera, a Washington dal capobranco dei paesi “democratici”, che sceglie per noi quali siano i nostri «veri» nemici (il tutto a nostre spese ovviamente).

Coloro che esaminano attentamente i media occidentali si accorgeranno della disinformazione per interesse delle élite; ad esempio il presunto attacco alla USS Maine per l’inizio della guerra ispanoamericana, la provocazione nel Golfo del Tonchino per bombardare il Vietnam del Nord, le inesistenti armi di distruzione di massa per invadere l'Iraq, sono solo alcune vicende di alto profilo in cui l’Impero ha agito attraverso il controllo dei media. Dopo i fatti di Tienanmen la Cina è tornata ad essere un nemico, mentre oggi tocca alla Russia essere demonizzata in questa guerra fredda riscaldata. Altri tentativi sono stati fatti per innescare rivoluzioni più o meno variopinte: dalla ridicola “rivoluzione dei gelsomini” a Pechino fino alla rivolta delle “nazionalità oppresse” del Tibet, dello Xinjiang e con i penosi studenti che issano le bandiere coloniali ad Hong Kong. È strano che il maggiore fautore della protezione delle nazionalità oppresse, ossia il mondo anglosassone (America, Australia, Canada e Nuova Zelanda), abbia addirittura occupato totalmente territori i cui popoli originari hanno sperimentato la quasi totale pulizia etnica. Il 95 per cento della popolazione nativa in America e Canada e l'80 per cento in Australia e Nuova Zelanda è stata sterminata. Per non parlare poi delle vittime dei disordini razziali in USA: Watts 1965 (34 morti), Newark 1967 (26 morti), Detroit 1967 (43 morti), oltre a varie altre città dopo l'assassinio di Martin Luther King nel 1968 (46 morti) e di Miami nel 1980 (18 morti). Infine i 54 morti e duemila feriti di Los Angeles nel 1992 (tre anni dopo Tienanmen) a seguito del pestaggio di Rodney King. Eppure quei fatti sono noti come “sommosse” o “disordini” (riot) di Los Angeles e non come “massacri”. E non parliamo poi dell’Europa con il suo retaggio coloniale e schiavistico, delle Concessioni territoriali in Cina in cui si vietava l’ingresso ai cani e ai cinesi a cui già abbiamo accennato. Invocare la storiella dei diritti umani è un’operazione assai selettiva (Siria sì, Arabia Saudita no[10], Venezuela sì, Brasile di Bolsonaro no) volta a rafforzare le potenze occidentali. Per fare un altro esempio recente, i rivoltosi venezuelani che ammazzano poliziotti e sparano durante le manifestazioni contro Maduro sono pacifiche vittime, mentre le centinaia di migliaia di francesi che protestano contro la politica del proprio governo sono «riottosi e violenti». Anche la lotta al terrorismo è discriminatoria. Tutti devono essere “Charlie”, ma nessuno è la “Metro di San Pietroburgo” oppure “Urumqi” con le sue 200 vittime del terrore islamista; tutti sono Nizza, nessuno ricorda che a Tienanmen si consumò il primo attentato con un automezzo lanciato a grande velocità contro cittadini inermi nel 2013[11].

Uno dei più tipici elementi dell’imperialismo umanitario è quello di creare indignazione con false informazioni per causare un clima di paura tra la gente e cortocircuitarne la riflessione. Lo si è visto in Siria, con Assad accusato di gasare il proprio popolo, quando invece le inchieste dell’ONU stabiliscono che ad agire sono stati semmai i tagliagole finanziati dall’Occidente. La presunta strage di Piazza Tienanmen, ad esempio, serve a creare lo stesso effetto, con i carri armati che passano sopra le tende in cui dormono dei pacifici studenti: «la costruzione del nemico», come la chiama Domenico Losurdo. Un nemico forzatamente odioso.

Sostiene il diplomatico australiano Gregory Clark che il massacro di Tienanmen è un mito e ciò che noi ricordiamo di quei fatti sono solo invenzioni che abbiamo letto o visto sui media. Due studiosi della non-violenza danno il seguente resoconto di quegli avvenimenti:

Dal 1989 sono stati smentiti molti dei miti creati in quei giorni […]. Basandosi su nuove informazioni e su studi accademici di vario tipo, si può fare un ritratto dello sviluppo del movimento di protesta degli studenti. Si vedrà come esso fu influenzato dal contesto sociale, economico, politico e culturale [….] così si saprà che la ricerca della democrazia non è mai stata l'argomento principale dei manifestanti, la maggior parte della popolazione non ha sostenuto il movimento e che ci sono state azioni di dialogo promosse da settori del governo cinese e degli studenti in tutte le sette settimane di occupazione della piazza. Si spiegherà come l'uso della violenza è stato utilizzato da entrambe le parti, anche se con intensità e mezzi diversi; una fazione radicale e poco democratica ha assunto la guida degli studenti in piazza e ha eliminato ogni opzione di dialogo, facendo precipitare la situazione nella repressione armata e che l'esercito ha permesso agli studenti di sgomberare Piazza Tienanmen senza uccidere nessuno all'interno della piazza (Lopez-Martinez 2016).

Durante i fatti di Tienanmen del 1989 sono i manifestanti che costruiscono barricate sbandierando la volontà di rovesciare il governo; durante le proteste di Occupy Wall Street del 2011 è invece il governo degli Stati Uniti che innalza barricate contro i manifestanti. Una semplice passeggiata attraverso la linea off limits imposta dalla polizia comporta l’arresto immediato.

Nella storia della Cina ci sono stati altri movimenti studenteschi. Il Partito Comunista cinese ricorda ancora il movimento del 30 maggio 1925, quando le forze di sicurezza britanniche (sì quelle invocate dai manifestanti di Hong Kong) uccisero tredici tra studenti e lavoratori a Shanghai mentre protestavano contro i poteri extraterritoriali degli stranieri in Cina. Lo spargimento di sangue scatenò proteste in tutto il paese, proteste che coinvolsero milioni di persone. Nel corso del movimento del 9 dicembre 1935, le forze di sicurezza del Kuomintang usarono tubi per l’acqua, cinture di pelle, bastoni e il calcio dei fucili per disperdere una manifestazione anti-giapponese di tremila studenti, proprio vicino a Piazza Tienanmen. Circa quaranta studenti furono feriti nello scontro, che provocò scioperi operai e manifestazioni studentesche a livello nazionale. Nessuno in Occidente ricorda questi avvenimenti.

Si sono visti molti articoli sulla stampa occidentale riguardo ai fatti di Tienanmen dopo il 1989: ne vedremo altrettanti sulle atrocità commesse dall’Occidente? Abbiamo molti dubbi, giacché la stampa occidentale mette i riflettori su cinesi, russi, iraniani, nordcoreani, venezuelani e su tutti coloro che sono percepiti, grazie al battage mediatico, come nemici nella quotidianità, ignorando ovviamente ciò che l'Occidente ha fatto. Se quello che è successo in Piazza Tienanmen è stato davvero un massacro di cittadini inermi, ricordare è un diritto, ma quanto dovrebbero essere ricordati i massacri di ben altre dimensioni commessi nell’interesse dell’Occidente?

Settanta anni fa più di centomila polacchi, ebrei e comunisti furono massacrati in Galizia dall’Esercito Insurrezionale Ucraino. Oggi, invece di commemorare quel massacro, celebriamo i discendenti degli aguzzini, che ancora innalzano le loro bandiere fasciste, come “combattenti per la libertà” secondo la giunta ucraina, già capeggiata dall’oligarca cioccolataio, arrivata al potere tramite la più classica politica del regime change. Cinquanta anni fa un milione – se non più – di indonesiani venne massacrato dagli squadroni della morte di Suharto, ma non una parola per ricordarli perché la loro morte era nell'interesse dell'impero USA. «Un colpo di fortuna» lo definì la CIA. Ne parliamo più avanti. Quanti civili cinesi sono stati massacrati in Malesia nel dopoguerra in nome della sicurezza degli Stati Uniti e dell’Impero Britannico? E quanti sono morti in Afghanistan sempre per la sicurezza americana? Cinquanta anni fa centinaia di studenti messicani sono stati uccisi a Città del Messico sebbene stessero manifestando, loro sì, pacificamente, ma non una parola viene detta per ricordarli perché le loro morti furono nell'interesse dell'impero USA. Cinquanta anni fa 3,4 milioni di persone sono morte in Vietnam, un milione in Laos e altri ottocentomila in Cambogia, per non parlare di quelli uccisi durante la precedente occupazione coloniale francese sostenuta finanziariamente dagli Stati Uniti.

Quaranta anni fa decine di migliaia di cileni e altri sudamericani furono assassinati come parte “dell'Operazione Condor” e ancora una volta i media controllati dalle corporation raramente ricordano questa operazione della CIA. Nel 1989 gli americani hanno invaso Panama e ucciso tra i duemilacinquecento e i quattromila panamensi. Nel 2003 un milione di iracheni ha perso la vita durante l’invasione illegale dell'Iraq da parte dell’Impero. Nel 2014 più di cento sono state le vittime a Odessa e le loro storie non saranno mai conosciute, per paura di turbare la propaganda a favore della NATO in Ucraina. La memoria per l’Occidente è un esercizio altamente selettivo. Si manipolano le notizie e si usano informazioni parziali per raccontare storie basate sul una trama predeterminata. Per fare un altro esempio recente, i giornali occidentali hanno pubblicato con compiacimento il video di una bomba esplosa al passaggio della polizia venezuelana con tanto di esultanza da parte dei bombaroli. Naturalmente ciò che sarebbe chiamato terrorismo, se il fatto fosse stato commesso nei paesi liberali, diventa “resistenza” con tanto di richiamo ai partigiani – sebbene commesso da fascisti dichiarati – se viene compiuto contro governi “ostili”.

La Cina ha subito una serie di sanzioni da parte dei paesi occidentali a seguito dei fatti di Tienanmen, ma il grande paese asiatico è andato per la propria strada, senza guardare indietro e senza dar retta ai consiglieri (interessati) «che desiderano il suo bene». Da allora la Cina è progredita fino a diventare la prima potenza economica mondiale, sollevando dalla povertà più di 850 milioni di persone. Guardando l’immagine dell’uomo che sfida i tanks, questo Che Guevara dei ricchi, è forse il caso di dire: T(H)ANKS People’s Liberation Army. Certamente nessuno può gioire per un dramma con centinaia di morti ma un’immagine simbolica può essere interpretata in tanti modi. Si può senz’altro ringraziare il carrista per aver fatto di tutto per evitare di mettere sotto il giovane che teneva in mano due borsine di plastica. Scrive, nel suo eccellente saggio sulla Cina, Diego Bertozzi che c’è un altro messaggio poco considerato: «[...] la volontà del carrista cinese – che sta uscendo da Piazza Tienanmen – di evitare a tutti i costi di schiacciare sotto il peso dei cingolati il giovane manifestante. Non potrebbe, quindi, essere immediatamente esplicativa della volontà delle autorità cinesi di evitare ogni inutile spargimento di sangue e di ricorrere il meno possibile alla forza?» (Bertozzi 2016). Ma ci chiediamo: quanti secondi di vita dareste a un palestinese che si avvicinasse con delle borse in mano a un Merkava israeliano o a un afgano davanti a un Abrams? I cittadini di Slaviansk, nel Donbass, si sono messi davanti ai carri armati mandati da Kiev e come mai le foto, che pure esistono, non hanno avuto eguale fortuna? Ci sono morti e morti e quelli del Donbass non sono i morti giusti.

La storia non è solo quella che indiscutibilmente è accaduta in passato, ma è anche quella che la gente, sotto l’influsso dei media, pensa sia accaduta. In Occidente e in Cina si pensano cose molto diverse su quanto è accaduto in Piazza Tienanmen e, infatti, la vicenda è stata raccontata in molte versioni contrastanti. La visione di Tienanmen dell’Occidente fa parte ormai della realtà oggettiva nello stesso modo in cui erano recepiti come reali il mito nell’antichità e il miracolo nel medioevo o nel modo in cui sono percepite le favole dai bambini. L’esperienza di quegli avvenimenti è diversa tra Occidente e Cina. Scrive Kim Petersen del sito Dissident voice:

Domenica scorsa, ero con un signore americano nel centro di Chengdu, Sichuan, e durante la nostra conversazione egli ha detto che sua moglie cinese non aveva mai sentito parlare del massacro di Piazza Tienanmen. Ho suggerito che fosse perché non è mai successo e che si tratti di una campagna mediatica occidentale di disinformazione. Perché i media cinesi dovrebbero consentire la diffusione di bugie? In realtà, sentir parlare di un qualche massacro di Piazza Tienanmen sorprenderà la stragrande maggioranza del popolo cinese, compresi quelli che vivono vicino a Pechino e che hanno partecipato alle manifestazioni (Petersen 2014).

Scrive in un brillante saggio Stefano Cammelli (2008) che nelle giornate di Tienanmen l’Occidente ha decretato la morte del regime cinese e anche la sua non rappresentatività. Inizia così l’attesa spasmodica del crollo del comunismo cinese che ormai non rappresenta più nessuno se non se stesso, ovvero una piccola cricca di profittatori che vivono nel lusso più sfrenato mentre il resto della popolazione vive nella miseria più nera. È solo «l’avidità dei governi e dei comitati d’affari a salvare un governo per altri versi destinato alla sconfitta. L’Occidente passa dalla difesa dell’indipendenza nazionale contro la teoria brezneviana della sovranità limitata alla teoria della difesa della democrazia anche in paesi terzi». In quei giorni Vittorio Zucconi sulla Repubblica quasi si rammarica che ormai l’aggressione non sia più possibile perché:

Nel momento in cui i dirigenti cinesi, i signori della guerra o chiunque abbia dato l’ordine di intervenire, hanno deciso di schiacciare la ribellione pacifica degli studenti, nessuno, non in America, non in Russia, non a Roma, poteva fare nulla per aiutarli. Un paradosso insolubile. E noi restiamo, spettatori impotenti, a contemplare l’amarezza di un’altra delusione storica, a vedere come i principi che guidarono una generazione alla rivolta conducano quella successiva alla repressione. La grande, bruciante ironia della Tienanmen e delle fiacche reazioni internazionali è, infatti, nel trionfo di quei sacri principi anticoloniali di sovranità e di indipendenza dei popoli che hanno consentito ai macellai di Pechino di muoversi nella certezza dell’impunità internazionale. In altre epoche, la rivolta degli studenti e la strage di Pechino avrebbero offerto perfetti pretesti alle potenze straniere per intervenire e tagliare via fette di territorio dal corpo sfatto del Celeste Impero. Oggi, nessuno può neppure contemplare l’invio di cannoniere a Shanghai e di soldati a Pechino per modificare il corso della storia cinese. Di fronte alle colonne della Ventisettesima Armata che schiacciavano i dimostranti il mondo si è trovato così nella morsa di un paradosso insolubile. Se un governo straniero si fosse mosso per fermare la repressione, avrebbe riesumato lo spettro coloniale e intollerabile dell’intervento negli affari interni cinesi e di un colonialismo non più territoriale ma certo politico (Zucconi 1989).

Cammelli fa risalire a questo tipo di discorsi (non a caso nati a sinistra) il passaggio dalla denuncia della sovranità limitata sovietica alla riformulazione della sovranità limitata dei neo-con (nati anch’essi da una costola della sinistra)[12].

L’Occidente si pronunciò in modo apodittico dopo Tienanmen: il governo cinese era condannato a morte mentre i “dissidenti” alla fine avrebbero prevalso. Alla Cina si è applicato lo schema già collaudato con la Polonia. Le lotte di Solidarnosc iniziate nei primi anni Ottanta alla fine portarono al rovesciamento del regime comunista. Cammelli nota: «Il post-1989 è tutto qui. In questa attesa di un crollo cinese, nella certezza che il clima da guerra civile sia ormai carattere emergente della situazione politica interna e il crollo politico del regime sia forse rimandabile ancora per qualche tempo ma sia, in qualche modo, inevitabilmente segnato» (Cammelli 2008). Provate a digitare le parole China, Crisis in Google e troverete più risultati di quante non siano le vittime del comunismo secondo il Libro nero. La Cina dovrebbe crollare ogni mese per una ragione diversa e spesso opposta a quella del mese precedente. È la teoria del China Collapse, ma a collassare finora è stata unicamente questa teoria. Negli anni Ottanta un gruppo musicale britannico che si chiamava China Crisis (già allora), pubblicò un pezzo dal titolo significativo di Wishful Thinking (pio desiderio). Infatti, il Wishful Thinking del collasso della Cina diventerà col tempo un Wistful Thinking (nel senso di pensiero triste). È comunque dai tempi dei fatti di Piazza Tienanmen che l’Occidente aspetta il crollo della Cina. China Crisis since 1989 sembra essere uno dei brand più conosciuti in Europa ma se si assiste a un match di uno sport violento e non si vede mai il sangue, la cosa comincia a diventare un pochino noiosa.

Sulle commemorazioni dell’evento scrive Thomas Hon Wing Polin (2017):

Nei quasi tre decenni trascorsi dalla tragedia, le forze ostili di Pechino in tutto il mondo, principalmente paesi occidentali e cinesi anti-PCC, hanno immancabilmente messo in scena commemorazioni per ricordare a tutti quanto spaventosi fossero e siano i comunisti cinesi. Sarebbe meno eclatante se la loro narrativa fosse vera, ma non lo è. In realtà, la storia, raccontata durante e dopo la repressione di Pechino, è una delle più grandi bufale della propaganda nei tempi moderni.

Per una storia criminale del liberalismo. Indonesia: un esempio di intervento americano a favore del “mondo libero” fondato sui “diritti umani”

Uno dei peggiori massacri del ventesimo secolo.

Dalla relazione dell’agente della CIA Helen Louise Hunter[13]

La CIA incolpò le vittime comuniste del massacro fatto con il suo diretto appoggio. Infatti, i generali comandati da Suharto accusarono i comunisti per un breve tumulto disorganizzato a cui parteciparono poche persone, instaurarono la legge marziale arrestarono un milione e mezzo di persone assassinate poi a colpi di fucile, pugnale, bastone o affamate fino alla morte. Il “Movimento 30 Settembre” fu l'incendio del Reichstag di Suharto: un pretesto per instaurare la dittatura personale e sterminare i comunisti. L'esercito utilizzò la tortura come procedimento normale per gli interrogatori, sicchè le dichiarazioni dei sospetti non sono affidabili. «La relazione di Hunter per la CIA, basata soprattutto su quelle trascrizioni, ha lo stesso valore di un testo dell'Inquisizione sulla stregoneria» (Roosa e Nevins 2005).

Secondo la CIA il PKI[14] in realtà non aveva mai sfidato l'esercito. Il PKI aveva una pacifica attività costituzionale. Il segretario del Partito Aidit, sembra opporsi, dice la CIA ad una linea di lotta armata rivoluzionaria in Indonesia. Egli si oppone al modello cinese della violenta rivoluzione agraria. Il governo statunitense appoggiò incondizionatamente i generali sanguinari:

Suharto, un Signor Nessuno nella politica indonesiana, agì contro il PKI e Sukarno con l'appoggio totale dal governo degli USA. Marshall Green, ambasciatore statunitense in Indonesia a quell'epoca, scrisse che l'ambasciata aveva messo in chiaro che l'esercito di Washington «simpatizzava ed ammirava in generale le sue azioni». Funzionari USA arrivarono ad esprimere la preoccupazione che l'esercito non sarebbe riuscito a fare quanto bastava per annientare il PKI. L'ambasciata nordamericana fornì materiali radio, walkie-talkie, ed armi di piccolo calibro a Suharto affinché i suoi soldati potessero realizzare l'attacco contro i civili in tutto il paese. Un funzionario diligente dell'ambasciata, con una spiccata inclinazione per la raccolta di dati, fece la sua parte consegnando all'esercito una lista di migliaia di nomi di membri del PKI. L’appoggio morale e materiale fu molto apprezzato dall'esercito indonesiano (Roosa e Nevins 2005).

Il governo americano non fu il solo, anche i britannici furono collusi con questo orrendo bagno di sangue che venne paragonato ai massacri dei nazisti durante la seconda guerra mondiale e ai "massacri dei paesi comunisti" della propaganda della guerra fredda. Il funzionario dell'Ambasciata Robert Martens riconosce che egli passò la lista dei quadri comunisti attraverso il canale ufficiale dell'Ambasciata, ai golpisti indonesiani. Soprattutto egli passò queste liste agli squadroni della morte indonesiani. La Cia infatti aiutò il "Kap Gestapu", un gruppo di civili che coadiuvò i militari nel massacro dei comunisti.

L’Indonesia non fu solo emblematica per lo sterminio dei comunisti e per cosa intendessero gli americani per “mondo libero”. In Indonesia fu sperimentata la ricetta del liberismo in salsa yankee:

La visione di Suharto del ruolo dell'esercito non aveva a niente che vedere con la difesa della nazione contro l'aggressione straniera, bensì con la difesa del capitale straniero contro gli indonesiani. Intervenne personalmente in una riunione di ministri del gabinetto nel dicembre del 1965 che discuteva la nazionalizzazione delle compagnie petrolifere Caltex e Stanvac. Poco dopo l'inizio della riunione, arrivò improvvisamente in elicottero, entrò in sala e dichiarò, come dice la giubilante relazione dell'ambasciata USA, che: «I militari non tollereranno azioni precipitose contro le compagnie industriali petrolifere». Intimorito da una tale minaccia, il gabinetto posticipò indefinitamente la discussione. Nello stesso tempo, l'esercito di Suharto imprigionava ed assassinava dirigenti sindacali nelle installazioni delle compagnie petrolifere e le piantagioni di caucciù statunitensi (Roosa e Nevins 2005).

Secondo alcune stime il patrimonio familiare di Suharto arrivò a 15 miliardi di dollari in mezzo a una corruzione dilagante. Il regime di Suharto completamente asservito allo straniero non fu efficace nemmeno dal lato della crescita economica:

La capacità del regime durante gli anni seguenti di sostenere la crescita economica mediante l'integrazione col capitale occidentale, somministrò tutta la legittimità che poteva avere. Una volta che il modello di crescita finì con la fuga di capitali nella crisi economica asiatica del 1997, la legittimità del regime si volatilizzò rapidamente. Gli studenti universitari di classe media, frutto della crescita economica, svolsero un ruolo particolarmente importante nell'espulsione di Suharto dal potere. Il regime di Suharto viveva del capitale straniero e morì col capitale straniero! (Roosa e Nevins 2005).

Anzi quegli anni posero le basi degli attuali problemi economici conseguenti alla spogliazione del paese da parte delle multinazionali americane. La crescita economica addirittura fu dannosa per l’interesse nazionale con le risorse svendute alle multinazionali creando una voragine nel debito estero.

A causa delle minime spese nella sanità, abbondano le malattie epidemiche. C'è poca produzione industriale interna. I boschi, coi quali i militari complici di Suharto continuano a guadagnare fortune, sono disboscati e bruciati ad una velocità allarmante. Il paese importa immense quantità di prodotti basilari che potrebbero essere facilmente prodotti in maggiore scala in Indonesia, come zucchero, riso e soia. I principali prodotti dei villaggi sono ora i lavoratori migranti, o “eroi delle valute straniere”, per citare un'insegna luminosa nell'aeroporto di Giacarta (Roosa e Nevins 2005).

Oltre al saccheggio delle risorse fondamentali dell'Indonesia il regime di Suharto continuò nella sua scia di sangue e terrore a Timor Orientale, nella Papua Occidentale ed Aceh, con la benedizione del governo americano. L’esempio indonesiano indica che gli USA come al solito parlano con lingua biforcuta: l’esportazione del “mondo libero” contrapposto al “totalitarismo comunista” portò ad una delle più sanguinarie dittature che la storia ricordi. I cinesi che allora furono vittime dei pogrom organizzati dagli amichetti degli americani hanno molto da imparare da questa esperienza. Per la verità non solo loro. Nessuno fece fiaccolate per ricordare le vittime che furono tra un milione e tre milioni. Le stime dell'Ambasciata Americana parlano di più di un milione di morti. La memoria dell'Occidente democratico è assai selettiva[15]. La CIA lo definì uno degli eventi più significativi del XX secolo. Molto più di altri che hanno ricevuto una maggiore pubblicità (leggi i pretesi massacri commessi dai comunisti).

L’imperialismo dei diritti umani

L'Occidente non ha conquistato il mondo con la superiorità delle sue idee, dei suoi valori o della sua religione ma attraverso la sua superiorità nell'uso della violenza organizzata (il potere militare). Gli occidentali lo dimenticano spesso, i non occidentali mai.

Samuel P. Huntington

 

Abbiamo mentito, abbiamo imbrogliato, abbiamo rubato.

Mike Pompeo, Direttore della CIA

 

Dalla Dichiarazione dei Diritti Umani del 1948 in avanti, gli Stati Uniti hanno sempre ribadito il carattere “universale” dei diritti umani che si rivolgerebbero all’intera Umanità. Gli stati sarebbero legittimati nella loro condotta solo rispettando i diritti umani. In realtà quello che si è visto concretamente è l’abuso della retorica dei diritti umani per fini geopolitici. Inoltre questo è stato il pretesto per trasformare nel mondo unipolare la NATO, che all’origine doveva essere uno strumento difensivo, nel poliziotto del mondo in difesa di interessi economici, finanziari e strategici.

Chi non accetta la civiltà occidentale è il possibile bersaglio dell’interventismo umanitario. Il sostegno a tale pratica non avviene solo da parte dei neo-conservatori ma anche dei neo-lib come ha suggerito la congressista americana Tulsi Gabbard. L'ex agente della CIA Ralph McGehee scrive che nei paesi che resistono all'influenza dell’Impero, gli Stati Uniti utilizzano la “violazione dei diritti umani” come scusa per intromissioni politiche. I “diritti umani” sostituiscono la “cospirazione comunista” come giustificazione per i governi che si rovesciano (McGehee 1999). Oggi quando l’Impero parla di diritti umani violati in un determinato paese, a quel paese conviene mettere rapidamente mano alla contraerea giacché gli americani e i loro scagnozzi sono usi a portare i diritti umani formato espresso direttamente dall’aria, a simboleggiare il mandato divino che gli viene dall’alto dei cieli. Infatti, cosa succede a chi non accetta i diritti umani nella definizione occidentale:

I gruppi o le società che non abbracciano esplicitamente o costituzionalmente tali diritti sono considerate al di fuori dell’universo “umano” e quindi ogni azione o intervento nei loro confronti sono da ritenersi moralmente legittimi o addirittura necessari. Non ci pare un caso constatare come il principale corollario politico di questa visione sia stata la realtà delle “guerre occidentali” degli ultimi venti anni. Che siano state motivate dall’idea di “ripristinare i diritti umani” o di “esportare la democrazia”, dalla Serbia all’Iraq passando per l’Afghanistan. Paesi costituzionalmente portatori di questi diritti hanno condotto guerre di aggressione, definite “umanitarie”, nei confronti di altri Stati. A nostro avviso, non c’era niente di umanitario in queste guerre e nessuna superiorità morale dei promotori di queste ultime. In breve, l’ideologia dei diritti umani è una forma falsa e politicamente pericolosa di universalismo (Cini, Bertuzzi 2018).

Così agisce la dittatura totalitaria internazionale (non sostenuta da alcun consenso delle istituzioni sopranazionali come l'ONU, ma basata unicamente sulla forza) esercitata dagli USA con il loro eccezionalismo che li ha portati a seminare morte, distruzione e caos in tutto il mondo. La maggior parte dei paesi ha votato ad esempio contro l’intervento in Kossovo. L’Impero del Kaos si dichiara democratico sebbene nessuno l’abbia eletto (elezione che sarebbe la base della democrazia) a governare il mondo e sebbene violi continuamente il diritto internazionale in particolare la non intromissione negli affari interni di altri paesi sovrani. Non esistono leggi che permettano l’intervento militare per fini umanitari senza l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu anzi bisogna ricordarsi che gli Stati Uniti si ritirarono dalla giurisdizione obbligatoria della Corte internazionale di giustizia poco prima della decisione della Corte Penale Internazionale del Nicaragua. I suoi strumenti sono sanzioni, no flight zone, bombardamenti e occupazione diretta quando non funzionano le rivoluzioni colorate. Se si annulla il diritto internazionale si ritorna alla legge del più forte. La legge della giungla è il risultato dell’attivismo dirittoumanista, ossia la negazione di qualsiasi diritto (Parenti).

Secondo quanto sostiene Michael Ignatieff le potenze occidentali hanno impegnato le loro forze armate, a partire dal 1989, più che durante tutta la Guerra fredda, e il linguaggio usato per legittimare questa attività è stato quello della difesa dei diritti umani (Ignatieff 2003: 42). Si capisce il perché, come sostiene Pino Arlacchi ex vicepresidente ONU: «Poiché viviamo in un’epoca di diffusa avversione alla guerra, il pretesto preferito per aggredire un Paese è diventato quello umanitario e della violazione dei diritti umani» (Arlacchi 2019). Lo stesso vale per la “democrazia”[16]. Dov Levin della Carnegie Mellon University ha calcolato che gli Stati Uniti dal 1946 al 2000 hanno interferito almeno 81 volte in elezioni politiche. Quel numero non include i colpi di stato militari e gli sforzi di cambiamento di regime in seguito all'elezione dei candidati che gli Stati Uniti non hanno gradito, in particolare quelli in Iran, Guatemala e Cile. Né include l'assistenza generale per il processo elettorale. Levin definisce l'intervento come «un atto costoso progettato per determinare i risultati elettorali a favore di una delle due parti». Il New York Times riferì negli anni Novanta che la CIA aveva sul suo libro paga membri della giunta militare che alla fine avrebbe sconfitto Aristide, dopo che questi era stato eletto democraticamente contro Marc Bazin, un ex funzionario della Banca Mondiale e ministro delle finanze favorito dagli Stati Uniti.

Un caso ci riguarda da vicino. Gli USA hanno fatto di tutto per aiutare i democristiani a battere i comunisti in Italia, ha detto Levin, incluso «sacchi di denaro» per coprire le spese della campagna elettorale, inviando esperti per aiutare a gestire la campagna, sovvenzionando progetti come la bonifica delle terre e minacciando pubblicamente di porre fine agli aiuti all'Italia se i comunisti avessero vinto. 

Gli Stati Uniti secondo l’ex presidente Jimmy Carter, nei loro 242 anni di storia, sono stati in pace solo per 16 anni diventando la nazione più belligerante del mondo. Mentre la Cina dal 1979, da quando stabilì relazioni diplomatiche con Washington non è mai stata in guerra. Il governo degli Stati Uniti ha investito fino a 56 miliardi di dollari l'anno per promuovere i cosiddetti "valori americani". Come mostra Michael Moore nel documentario Fahreneit 9/11, hanno speso milioni di dollari per dimostrare l’esistenza di un’opposizione in Iraq finanziando personaggi conosciuti solo tra i rifugiati in America e sconosciuti ai più nel proprio paese. Gli USA hanno accusato la Russia di essere intervenuta nel processo elettorale americano, che a giudicare dall’entità dell’intervento sarebbe come sparare con la cerbottana rispetto ai missili intercontinentali. Ma naturalmente, gli Stati Uniti interferiscono in ogni paese del pianeta. Ogni anno vengono investiti milioni di dollari per finanziare pseudo-ONG il cui compito è la sovversione di governi legittimi. Gli Stati Uniti hanno rovesciato 228 governi attraverso operazioni segrete e l’intervento diretto nel periodo 1973-2005, in nome della promozione della "democrazia", della "libertà" e del trionfo del “bene”. Il risultato finale è che in 96 casi non hanno causato alcun cambiamento nella “democrazia” del paese. In altri 69 casi il paese è diventato meno democratico dopo l'intervento (Choua 2014). In uno studio di James A. Lucas il numero di persone uccise dall’ininterrotta serie di guerre, colpi di stato e altre operazioni sovversive effettuata dagli Stati Uniti dalla fine della guerra nel 1945 ad oggi, viene stimato in 20-30 milioni (Dinucci 2018). Questi milioni di morti sono il risultato di “interventi chirurgici”, che dovevano essere rispettosi della popolazione civile e dovevano dimostrare la superiorità del modello occidentale ormai universalizzato a beneficio del mondo intero. Gli embarghi sui medicinali hanno fatto morire bambini e malati gravi privandoli delle cure necessarie. 500 mila sono i bambini iracheni morti e Madeleine Albright, ex Segretario di Stato, ha sostenuto che ne è valsa la pena. Cosa sono 500 mila bimbi di fronte agli immensi benefici dei diritti umani esportati manu militari. Evidentemente non si parla dei diritti umani dei bambini che nel mentre sono morti. L'economista Jeffrey Sachs ha rivelato i risultati di uno studio sugli effetti dell'embargo statunitense sul Venezuela a partire dal 2017: 40 mila morti, in gran parte bambini.

Significativo che i paesi in prima linea nel sottoscrivere convenzioni sui diritti umani siano poi i primi a violarli. A Parigi nel 2007, veniva firmata la Convenzione dell'Onu contro le «sparizioni forzate», cui hanno aderito i governi europei (ma non gli USA), che definisce criminale l'uso di carceri segrete. Pochi giorni dopo, il parlamento europeo di Strasburgo approva un rapporto che accusa quegli stessi governi di complicità con la CIA per le operazioni clandestine di rapimento (Ramonet 2007).

Tra il 2001 e il 2005 gli aerei della CIA avrebbero fatto non meno di 1.245 scali in aeroporti europei con vittime di «sparizioni forzate». Persone rapite in base a semplici sospetti e avviate clandestinamente al penitenziario illegale di Guantanamo, o verso paesi complici come l’Egitto, e il Marocco.
Sembra che Polonia e Romania si siano prestate ad allestire delle «piccole Guantanamo» provvisorie per prigionieri rapiti in Pakistan e in Afghanistan. Il sospetto di maltrattamenti grava sul governo britannico come su quello svedese e quello austriaco; il governo tedesco poi, era al corrente del rapimento di un suo cittadino di origine libanese trasferito in Afghanistan e torturato. I servizi segreti italiani sono accusati di aver aiutato gli agenti della CIA a rapire clandestinamente a Milano l'imam Abu Omar, trasferito in Egitto dove avrebbe subito torture e violenze (Ramonet 2007). Il coordinatore europeo della lotta contro il terrorismo dell’Unione Europea Gijs de Vries ha rassegnato le dimissioni: «Gli stati democratici - ha avvertito - devono condurre la loro lotta contro il terrorismo nel rispetto della legalità. [...] L'accumularsi di casi quali i maltrattamenti di Abu Ghraib, gli abusi di Guantanamo e i rapimenti ad opera della CIA hanno minato la credibilità degli Stati Uniti e dell'Europa» (Ramonet 2007).

Scrive John J. Mearsheimer (2019): «L’egemonia liberale richiede di trasformare tutti i paesi in democrazie liberali. Un Paese potente come gli Stati Uniti, è tentato di usare le sue forze armate per facilitare questo. La dottrina di Bush, che era stata progettata per diffondere la democrazia liberale in tutto il Medio Oriente, è finita con noi a combattere guerre. E per noi, non intendo solo gli Stati Uniti, ma anche la Gran Bretagna, che da allora sono stati i nostri aiutanti. Così, gli Stati Uniti e i suoi amici hanno iniziato guerre progettate per promuovere la democrazia. E hanno fallito. É stato un totale fallimento. La quantità di morti e destabilizzazione che abbiamo creato in Medio Oriente, è stupefacente».

Il risultato dell’ingerenza umanitaria è stato devastante. Le ingerenze sono state dapprima legittimate dal cristianesimo, poi da una missione civilizzatrice e infine dall’anti-comunismo. «In ogni tempo, la nostra pretesa superiorità ci autorizza a commettere una serie di azioni mostruose» (Bricmont 2006).

L’ingerenza “democratica” è spesso violenta e con caratteristiche marcatamente antidemocratiche. Dietro la rivolta che ha messo a ferro e fuoco la capitale della Mongolia nel 2008, Ulan Bator, c’era «lo zampino di George Soros, il filantropo statunitense che per mezzo della sua organizzazione mondiale – l’Open Society Institute – ha pianificato e finanziato tutte le “rivoluzioni colorate” che nei paesi ex-comunisti hanno prodotto cambi di regime a vantaggio degli interessi economici e geopolitici occidentali». La sede centrale del Partito Popolare Rivoluzionario (ex comunista) e la Galleria Nazionale d’Arte sono stati distrutti dagli incendi. Devastazioni e saccheggi ovunque dopo che il PPR aveva vinto le elezioni, risultato giudicato regolare dagli osservatori internazionali (Piovesana 2008). L’ingerenza inoltre non è mai disinteressata: «Per l’Occidente, un cambio di governo significherebbe la possibilità di avere concessioni di sfruttamento, che altrimenti andrebbero tutte a Russia e Cina. Inoltre, gli Stati Uniti sognano da tempo di aprire una base militare in Mongolia, strategicamente cruciale vista la sua posizione geografica. Ma questa opzione sarebbe teoricamente realizzabile solo con un governo diverso da quello attuale» (Piovesana 2008).

Gli interventi degli ultimi anni in l’Afghanistan, per l’Iraq, per la Libia, per il Sudan, per la Siria, per l’Ucraina, per lo Yemen non solo hanno a volte fallito il regime change ma sono diventati focolai di instabilità in cui regna il caos e l’intervento di forze esterne ha contribuito al permanere e acuire lo stato di guerra alimentando le tensioni.

L’Italia è stata coinvolta direttamente nel Kosovo, dove dal 1996, un’organizzazione terroristica, l’UCK è stata messa in campo dalla NATO per provocare una guerra contro la Serbia nel 1999. La Serbia non aveva attaccato nessun stato membro della NATO (che dovrebbe essere in teoria un’alleanza difensiva). Il paese è stato bombardato a tappeto con l’eliminazione delle sue infrastrutture non solo militari ma anche civili e industriali situate spesso a molto distanza dal Kossovo, di cui si diceva si volesse proteggere il popolo.

L’Italia si è trovata in guerra, espressamente proibita dalla Costituzione e non approvata dall’ONU, con la Serbia con l’utilizzo di aerei e aeroporti nazionali. Con la Serbia vi erano stati fino allora ottimi rapporti e anche parecchi interessi economici in comune. Ma altri hanno deciso quali fossero i nostri “veri” interessi.

In quell’occasione non solo sono state bombardate infrastrutture, ponti, centrali elettriche e centri industriali e mezzi militari (questi ultimi con l’utilizzo dell’uranio impoverito) ma si sono dati avvertimenti mafiosi ai media (distruzione televisione Jugoslava) e agli stati che si opponevano in sede di Consiglio di Sicurezza (bombardamento dell’Ambasciata cinese) Naturalmente oltre ad aver creato una sorta di narcostato il Kossovo è diventato una fonte di sovversione e destabilizzazione per gli altri stati della regione e in primo luogo la Macedonia. Le minoranze che noi avremmo dovuto proteggere una volta che siano diventate quelle dei serbi e dei rom non sono più state tutelate. Le nostre guerre “umanitarie” comportano necessariamente emergenze umanitarie con tanto di folle di profughi (Libia, Siria) che minacciano la stabilità degli stessi paesi europei favorendo l’avanzata dell’estrema destra (a sua volta favorevole alle politiche imperiali) creando il caos e situazioni contrarie agli stessi interessi nazionali dei paesi europei.

L’interventismo umanitario ha radici poco nobili. Il primo in assoluto ad usare il pretesto dei diritti umani per giustificare l’invasione di un paese indipendente fu il primo ministro inglese William Ewart Gladstone per l’Egitto. Il comandante dei militari egiziani era un militarista anticristiano “indifferente ai diritti umani”. L’Inghilterra delle Guerre dell’Oppio e delle stragi dei nativi in mezzo mondo si incaricò di rammentarglieli. Il parlamento inglese aderì in modo entusiasta al primo caso di imperialismo dei diritti umani.

Le origini della seconda guerra mondiale si possono riscontrare nell’uso da parte della Germania nazista dell’intervento “umanitario” ovvero per i diritti umani in difesa delle minoranze tedesche oppresse in Polonia, Cecoslovacchia, Lituania. Questa è la ragione per cui l’ONU proibisce l’intervento negli affari interni degli altri paesi. Dopo l’invasione dell’Iraq nel 2003 i paesi non allineati hanno reiterato il rigetto del cosiddetto diritto all’intervento “umanitario” che non ha basi nella carta delle Nazioni Unite o nel diritto internazionale. Intervento che si è dimostrato profondamente inumano con i suoi milioni di morti cui è stato negato il primo dei diritti umani: la vita, come per altro indica l'articolo 3 della Dichiarazione dei Diritti Umani.

L’imperialismo dei diritti umani: versione no global

Gli Usa ormai hanno messo in atto una raffinata strategia dell’interventismo democratico in cui di solito si mandano avanti le ONG poi seguono le femministe, quindi certi ambientalisti, animalisti, difensori degli omosessuali e compagnia cantata[17].

Il fisico belga Jean Bricmont scrive che il suo libro sull’imperialismo umanitario «è anche una risposta all’atteggiamento di certi militanti politici che si definiscono di sinistra. In nome dei diritti dell’Uomo, costoro legittimano le aggressioni contro paesi sovrani. O limitano a tal punto la loro opposizione che questa diventa puramente simbolica» (Bricmont 2006).

Non è che ci sia poi tanto di nuovo. Il Congresso per la Cultura, organismo finanziato dalla CIA, già dai primi anni Cinquanta radunò parecchi personaggi provenienti dalla sinistra e in particolare dall'estrema sinistra, trotskisti soprattutto, i quali dovevano sparare contro il comunismo con argomentazioni di sinistra. Orwell, l’ex comunista Silone, l’ex-poumista catalano Gorkin e tanti altri furono abilmente usati per cercare di minare il comunismo e le lotte di liberazione. Oggi questo compito passa al National Endowment for Democracy, Reporters sans Frontieres, China Labour Bulletin e via dicendo trovando spesso delle sponde addirittura nella sinistra radicale.

L’intervento di Rina Gagliardi in Liberazione su Tienanmen riprende un’accusa tipica di certi pretesi no-global o in generale della “sinistra radicale” occidentale: i paesi in via di sviluppo vogliono i capitali occidentali ma non i valori (i cosiddetti “diritti”) occidentali. Parlando dei dirigenti cinesi al tempo di Tienanmen scrive: «Tutto potevano capire, del "vento occidentale", fuorché parole come “diritti”, “democrazia di massa”, “partecipazione”. Come (invece) hanno capito i giovani no global di tutto il mondo, gli eredi veri di quei ragazzi massacrati il 4 giugno» (Gagliardi 2005).

Questo è lo specchio dell’adeguamento della sinistra al pensiero unico Made in Washington. Come epitaffio a questa sinistra dei “diritti umani” varrebbe quanto dice Jean Bricmont oppositore dell’imperialismo umanitario:

Esistono due versioni dell'imperialismo. La destra è per la lotta al terrorismo, per la difesa dei propri interessi sul campo. La sinistra per la violazione dei diritti dell'uomo e del diritto internazionale. Ma così facendo la sinistra è diventata più imperialista della destra classica, ha sostenuto la Guerra in Afghanistan e la secessione del Kosovo. Nelle guerre recenti ha fatto poca opposizione e praticamente nessuna alla minaccia di Bush contro l'Iran. Con la fine del comunismo, l'ideologia dei diritti umani e della democrazia da esportare, ha rimpiazzato il marxismo, il socialismo e la lotta di classe (Irace 2008).

Ci si dovrebbe ricordare che dopo il bombardamento dell’Ambasciata cinese a Belgrado, i cinesi andavano all’assalto dei consolati americani al grido di renquan (diritti umani) uguale baquan (egemonismo) (S.I. 1999).

In verità se questo è ciò che hanno capito i no-global, i paesi in via di sviluppo che rivendicano uno sviluppo indipendente dovrebbero guardarsi dai non-globalizzatori. I paesi che hanno scarsità di capitali e di tecnologia cosa dovrebbero fare? A quanto pare dovrebbero rinunciare completamente alle loro tradizioni, usi e costumi per adeguarsi integralmente ai valori occidentali per entrare nella modernità; nel contempo rifiutare di sfruttare la competitività delle loro economie fondate anche sul minore costo del lavoro. Globalizzazione culturale senza globalizzazione economica. I cinesi resistendo al crollo del socialismo in Europa in realtà hanno preceduto Seattle. Questo divenne chiaro quando in Cina divampò la polemica per il libro La Cina può dire no quando i cinesi rifiutando la “globalizzazione” della propria cultura, ovvero la sua riduzione a quella occidentale, anticipando Seattle: «Rivendicando il diritto di progredire ed entrare nella modernità senza che questo volesse dire diventare americani e “parodie dell’Oriente” (Bangkok) la Cina mosse un primo passo in una direzione verso cui stavano marciando molti altri schieramenti sociali e politici, di tutto il mondo» (Cammelli 2008). Anzi furono proprio quelli della generazione di Tienanmen che venuti a contatto con la cultura occidentale, nell’esperienza di studi all’estero, ne divennero i più fieri critici. Essi sostennero che «il predominio della cultura occidentale negli scambi culturali internazionali stava danneggiando la cultura delle nazioni in via di sviluppo come la Cina». Questi intellettuali «utilizzarono gli strumenti critici di cui si erano impadroniti in Occidente come il post-colonialismo, il post-modernismo, il post-marxismo e l’orientalismo, per attaccare la cultura occidentale» (Cammelli 2008).

Coloro che erano stati in piazza a Tienanmen spiegano il perché avevano cambiato idea sull’Occidente:

Quando eravamo all’università, tutti noi ammiravamo la cultura americana e tutto quanto proveniva dall’America. Ora che siamo più vecchi abbiamo compreso che non dobbiamo voltare le spalle alla nostra nazione. Gli americani sono ingenui, loro pensano che tutta la gioventù cinese sia filo-occidentale e li ammiri. Noi vogliamo che gli americani, gli inglesi e gli altri occidentali capiscano che cosa i giovani della Cina pensano per davvero (Cammelli 2008).

Come si vede c’è chi sostiene di parlare in nome dell’anti-globalismo riprendendo poi in sostanza una versione globalizzatissima. Ovvero chi è no-global lo decidiamo noi in Occidente. I no-global cinesi la pensano diversamente: nell’ambito di intellettuali un tempo affascinati dall’Occidente si svilupparono le correnti di pensiero nettamente anti-occidentali come la “Critica del post-colonialismo” e la “Nuova sinistra”. Ma fu l’economista Sheng Hong che nel 1994 lanciò un attacco durissimo alla cultura occidentale. Certamente una riflessione la si deve porre. Si tratta di «sottolineare il carattere più ampio, forse planetario, di un disagio che si esprime ormai negli stessi termini all’università di Pechino, come a quella di Damasco, di Bologna o di Lima San Marcos o in qualunque altra università della terra. Il problema dell’Occidente – certamente dell’Europa intera – è non soltanto quello che dicono i letterati di Damasco, Lima e Pechino ma anche che nessuno si sia ancora posto la domanda se sia opportuno continuare a muoversi e a dare lezioni di diritti democratici in un mondo di cui si ignora tutto» (Cammelli 2008).

Un chiaro esempio di questo Occidente che da lezione a un mondo di cui ignora tutto è proprio Rina Gagliardi che sostiene che dopo Tienanmen ”il nuovo Moloch della Cina si chiama Mercato”. A noi non sembra che il “mercato” sia proprio una novità in Cina. Anzi date le millenarie tradizioni mercantili del paese asiatico, forse il mercato lo hanno inventato loro. «L’Occidente che non intende il cinese, che non sa quello che si dice nelle moschee di Damasco e di Medina, che ignora quello che si scrive sui giornali di Delhi e di Tehran, che trascura le opinioni della stampa pechinese e di Shanghai, di Bangkok e di Giakarta sembra non volere sbagliare nulla, ma proprio nulla, per sfuggire al disastro che lo attende» (Cammelli 2008). Lo stesso ragionamento fa Bricmont: «In America latina e soprattutto nel mondo arabo-musulmano, la percezione del diritto internazionale è totalmente differente dalla nostra, anche da quella della sinistra e dell’estrema sinistra. Queste ultime non sembrano interessate molto a ciò che pensano le popolazioni direttamente interessate dalle nostre ingerenze» (Bricmont 2007).

Ora anche le rivendicazioni nazionali dei cinesi sono proprio all’interno del fiume che si identificò con il movimento di Seattle: «Esse presentano assonanze significative con l’anti-occidentalismo del mondo arabo, di parte dell’Europa e dell’America meridionale. Giudicate nel 1996 parte di una indefinita specificità cinese, sono confluite in un gigantesco fiume sotterraneo che è emerso di colpo a Seattle e a Genova» (Cammelli 2008).

Ciò che non avevano capito certi no-global caserecci è che anche i cinesi forse hanno una cultura, loro tradizioni che magari sarebbe opportuno studiare per capire, invece di demonizzarle. Questo vale particolarmente per la millenaria civiltà cinese. O come dissero polemicamente gli autori de La Cina può dire no: «L’alta e nobile tradizione della cultura cinese – attualmente – è esattamente ciò che può fornire alle masse popolari il segno di valori di riferimento nel campo etico e spirituale» (Cit. in Cammelli 2008).

Abbiamo visto come un certo atteggiamento della sinistra nei confronti dei fatti di Tienanmen facesse risorgere, per la prima volta dopo la fine della seconda guerra mondiale, la tesi dell’interventismo democratico dell’esportazione della democrazia. Alcuni hanno voluto vedere nei neo-con, quasi tutti di provenienza trotskista, una riedizione della tesi del rivoluzionario russo sull’esportazione della rivoluzione sulle baionette dell’Armata Rossa.

Si sa che Irving Kristol, il massimo esponente neo-con, fu membro della Quarta Internazionale. Non è stato il solo. Nel 1996 Michael Leeden dell'American Enterprise [uno dei think tank neocon] ha coniato il termine di «rivoluzione democratica mondiale» - è il sottotitolo del suo libro, in cui attaccò Bill Clinton definendolo un «controrivoluzionario». Il titolo stesso del libro, Freedom Betrayed [Libertà tradita], è un'ovvia citazione del libro, La Rivoluzione tradita, con cui Trotzky raccontò nel 1938 la sua rottura con Stalin (Laughland 2006).

Un vecchio conservatore (ostile ai neo-con) si domanda come mai, come bambini che richiedono sempre che gli sia raccontata la stessa favola, noi accettiamo per vere le fiabe sulle rivoluzioni “democratiche” in Paesi lontani di cui non sappiamo nulla:

Perché si finanziano rivoluzioni fondate sull’internazionalismo? Così il rovesciamento di Shevarnadze in Georgia, la “rivoluzione delle rose” del novembre 2003; la “rivoluzione orange” dell'Ucraina; la cacciata violenta del presidente del Kirghizistan nel marzo 2005; la rivolta nella città uzbeca di Andijan in maggio, tutte ci sono presentate come esplosioni spontanee della sacrosanta indignazione popolare. Ovviamente sono accuratamente orchestrate e puntigliosamente preparate (Laughland 2006).

Ed è Eric Hobsbawm, lo storico marxista che riferisce ciò che gli disse, scherzando solo a metà, un appassionato ex marxista diventuto sostenitore dei neo-con perché: «dopotutto sono la sola possibilità rimasta per una rivoluzione mondiale» (Laughland 2006).

Scrive Cammelli a proposito delle reazioni ai fatti di Piazza Tienanmen: «Si potrà dire e convenire che in quel 1989 che di tante tragedie fu fine (e di molte altre inizio) l’avanzata della democrazia parve a tutti così naturale e scontata, così inevitabile che nell’entusiasmo di quelle giornate, una sorta di primavera della democrazia, vennero passati in secondo piano problemi di metodo al tempo stesso gravi e pericolosi» (Cammelli 2008).

Un libro, simile alla Cina può dire No, che vendette tra il 2004 e il 2006 più di 900 mila copie è Wolves Totem, la storia dei fieri e vigorosi lupi mongoli. Secondo l’autore i cinesi devono imparare dai lupi mongoli a sopravvivere nella giungla della globalizzazione. La Civiltà cinese fu così grande perché riuscì ad assorbire il culto dei lupi dei nomadi del nord, che la aiutò a mantenere un grande impero. Curiosa la reazione degli antiglobal occidentalizzanti: questo libro viene accusato di socialdarwinismo e messianimo cinese (Au Loong-Yu 2006). Reazione tipica di come è stato inteso l’altermondismo in Occidente. I no-global occidentali sono altrettanto convinti degli imperialisti classici che nelle periferie del Cairo nelle campagne cinesi aspirino ai diritti umani made in USA.

Per la verità fu, ancora prima di La Cina può dire no, He Xin che nei primi anni Novanta che scrisse un libro contro la demonizzazione in risposta alle sanzioni dell’Occidente contro la Cina a seguito dei fatti di Tienanmen. Quando gli USA fermarono la nave cinese “Milky Way” in acque internazionali iniziò una seppur piccola protesta pubblica ma fu con il bombardamento dell’Ambasciata cinese a Belgrado che il patriottismo cinese esplose e prese la strada del non ritorno. Il bombardamento dell’Ambasciata ricordò ai cinesi che gli USA non erano per nulla un partner affidabile e ciò fu confermato dai contemporanei negoziati per l’adesione al WTO in cui gli USA forzarono la Cina a fare concessioni più di quanto dovuto per un qualsiasi paese in via di sviluppo (Au Loong-Yu 2006).

In un reportage sulle Olimpiadi del 2008 su Repubblica l’intervistatore chiedeva ad una sportiva italiana molto commossa per il Tibet ma piuttosto insensibile al terremoto nello Sichuan, appena avvenuto: «Non crede che le Olimpiadi possano servire a qualcosa, magari ad avvicinare la Cina ai valori occidentali?». (Chiusano 2008). La domanda è ben posta. I cinesi devono diventare occidentali volenti o nolenti. Poi magari sono gli stessi che lamentano che la Cina attuale abbia dimenticato la sua storia millenaria. Perché dovrebbe ricordarsi della sua storia millenaria se il suo destino è quello di diventare occidentale, basta che impari la storia occidentale. D’altra parte come tutti sanno noi siamo fedeli alla nostra storia e parliamo tutti in latino venerando gli Dei “falsi e bugiardi”. I colonialisti non sono mai cambiati. Un tempo in nome della”civiltà”, che guarda caso è sempre quella occidentale, si sono commessi genocidi immani contro i “selvaggi” come ora per i diritti umani contro i reprobi. Si sta sempre più sviluppando una retorica sui diritti umani per creare un terreno favorevole agli interventi “umanitari” che sfociano spesso nei peggiori abusi.

Da questi esempi vogliamo partire per affrontare il problema dei diritti umani e della loro pretesa universalità.

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[1]Nel secolo dei Lumi la Cina diventa per alcuni addirittura un modello di Governance, come si direbbe ora. I primi missionari gesuiti che visitano la Cina tra il Cinquecento e il Seicento descrivono i cinesi come del tutto bianchi ma poi subentra la delusione per il fatto che i cinesi oppongono resistenza alla conversione. Non si poteva considerarli uguali a noi e allora diventano “gialli”. Giallo è il colore della malattia e inoltre è intermedio fra il bianco e il marrone; il giallo rappresenta l’ambivalenza della civiltà cinese. La Cina appariva arretrata rispetto alla civiltà europea del tempo, ma superiore ai “selvaggi”. Il giallo è intermedio tra i neri africani e i bianchi. Bernier, Buffon, Kant e Linneo, erano impegnati nel gettare i fondamenti di una teoria della razza imperniata sul colore della pelle. L’Illuminismo scientistico ha finito con il consolidare il pregiudizio razziale. 

[2] Le concessioni straniere furono dei territori ceduti dall'Impero cinese ad alcuni paesi europei e al Giappone.

[3] Questo capitolo rielabora la parte introduttiva del libro: Ancora una primavera. Il mito del massacro di Tienanmen. La fine ingloriosa della prima rivoluzione colorata alimentata attraverso l’uso sistematico dell’informazione pilotata che può essere scaricato liberamente da qui: https://lacrescitafelice.blogspot.com/2019/05/ancora-una-primavera-il-mito-del.html

[4] Movimenti che tendono al regime change, ossia al cambio di sistema, colpendo “regimi autoritari corrotti” sostituendoli con regimi autoritari ancora più corrotti, ma disponibili alla privatizzazione a favore di corporation occidentali. Il tutto viene ottenuto attraverso movimenti sovversivi “non-violenti”, eterodiretti ma che producono spesso guerre civili con un alto tasso di violenza. Nel caso del Venezuela e di Hong Kong abbiamo visto all’opera squadristi e terroristi.

[5] Piazza Tienanmen è la piazza al centro di Pechino. È immediatamente a sud della Porta della Pace Celeste (questo è il suo significato) che comandava l'ingresso meridionale della città imperiale: la Città Proibita. È una delle piazze più grandi del mondo. La piazza è di forma rettangolare, copre una superficie di oltre 40 ettari, la maggior parte dei quali è coperto con lastre di granito.

[6] Zhao Ziyang (1919-2005), è stato primo ministro quando Hua Yaobang era segretario del partito e poi, dopo le dimissioni di questi, segretario del partito secondo solo a Deng Xiaoping.

[7] Fang Lizhi (1936-2012), professore di astrofisica e vice presidente dell'Università di scienza e tecnologia della Cina. Espulso dal partito nel 1987 in quanto sostenitore del liberalismo, è stato ispiratore il movimento degli studenti del 1989. Con il fallimento del movimento si è rifugiato nell’ambasciata americana a Pechino per poi raggiungere gli USA.

[8] Wag the Dog è il titolo originale del film Sesso e potere di Basil Levison in cui uno spin doctor (Robert de Niro) dà in pasto al pubblico, con la collaborazione di media compiacenti, una guerra virtuale in Albania con tanto di messa in scena per coprire uno scandalo sessuale del presidente americano. In una situazione ideale il cane (l’opinione pubblica) dovrebbe essere padrone di scuotere la coda, ma una realtà contraffatta (da media, spin doctor ecc.) può far sì che sia la coda a scuotere il cane e orientare l’opinione pubblica nella direzione voluta. Famoso il dialogo dello spin doctor con la consigliera del presidente americano: «Che ne sa degli albanesi? Niente. Ecco, è un popolo sfuggente. Come dire, non è trasparente. Lei cosa sa dell'Albania, cosa sa degli albanesi? Chi si fida degli albanesi? Ho capito, ma che male ci ha fatto l'Albania? Non ci ha neanche mai fatto del bene. Ecco perché dobbiamo far scaldare i reattori dei B3».

[9] Possiamo definire i media mainstream come l’espressione compiuta dell’ideologia dominante a favore della classe dominante e soprattutto dell’Impero dominante. Sei corporation statunitensi controllano 9000 radio, 2600 giornali, 2400 case editrici e 1500 televisioni. Questo oligopolio ci dice come pensare dato che ha il compito di elaborare il frame a cui si allineano i media mondiali.

[10] Qualcuno ha sostenuto che richiamare i diritti umani solo per la Siria e non per l’Arabia Saudita non sia uno “spaccare un Khashoggi in quattro”. Una macabra battuta che si riferisce alla crudele sorte del giornalista saudita, a quanto pare sezionato in varie parti per essere trasportato al di fuori dell’ambasciata di Ankara.

[11] Un caso tipico di come ragionano gli occidentali è quello di Ursula Gauthier, giornalista dell’Obs, che ha giustificato l’attacco dei terroristi islamisti uiguri che sgozzarono cinquanta minatori han come una vendetta per i presunti soprusi dello stato cinese (Vivas 2015). Il livello di comprensione dell’Occidente per tali fenomeni è dato dall’ex ministro degli esteri francese Kouchner, che aveva difeso il popolo degli “Yogurt” (anziché Uigur). Il sostegno alla causa terrorista è comprensibile. Molti uiguri sono, infatti, tra i “ribelli” che la NATO sostiene in Siria. C’è anche da rilevare l’esclusione del popolo cinese dai discorsi antirazzisti che riguardano soprattutto ebrei, poi eventualmente neri e mussulmani. In pratica la narrazione antirazzista esclude i cinesi, che, tuttavia, hanno subito pogrom terribili tanto da essere chiamati “ebrei dell’Asia”.

[12] Cammelli è uno dei pochi studiosi occidentali che non obbedisce al paradigma dominante “orientalista”, ossia il paradigma di un Oriente creato su misura per le esigenze dell’Occidente che, quando va bene, è quello che si immagina Indiana Jones. Spesso però la Cina è un incubo che serve per legittimare un Occidente da sogno. Edward Said (1999) non si occupò espressamente di Cina nel suo saggio sull’orientalismo, ma avrebbe avuto senz’altro molto da scrivere.

[13] La relazione era significativamente intitolata “Indonesia - 1965: Il golpe che fu un colpo di fortuna”.

[14] Il Partito Comunista Indonesiano (PKI) contava 3 milioni di iscritti e circa 17 milioni di simpatizzanti. Era il partito comunista più forte al di fuori dei paesi socialisti.

[15] In un’intervista  l'ex primo ministro australiano Keating (laburista) ha respinto le preoccupazioni per i diritti umani e la democrazia in Indonesia. Egli ha affermato che le cifre fornite dagli economisti hanno dimostrato che gli indonesiani sono stati portati alla prosperità dalle politiche dell'ex dittatore Suharto, che prese il potere con il colpo di stato del 1965. 

[16] Il geografo Elias Jabbour ritiene che la democrazia occidentale non possa essere considerata un valore “universale”. L'unico valore universale è il diritto alla vita. Il diritto alla vita, in un mondo segnato dalla concorrenza dei blocchi di capitale tra i diversi paesi, necessariamente comporta la garanzia della sovranità nazionale di tutti i paesi del mondo e la non ingerenza nei loro affari interni (Jabbour 2019). Il trattato di Westfalia del 1648 proclamò l'importanza cruciale degli stati come attori principali del sistema. Il fallimento della teoria dei diritti umani deriva dalla sua idea centrale della negazione della sovranità statale. Tutto ciò che va contro il concetto di stato sovrano può essere visto come una violazione dei principi su cui si base la sovranità: un paese non può violare il diritto di un altro paese a governarsi come ritiene opportuno.

[17] La filosofa e politologa tedesco-americana Hannah Arendt scrisse nella sua famosa discussione sull'imperialismo ne Le origini del totalitarismo (1951) che «il fatto che il fardello dell'Uomo Bianco sia l'ipocrisia o il razzismo non ha impedito ad alcuni dei migliori inglesi di assumersi il fardello con zelo e diventando dei folli, tragici e chiassosi, sostenitori dell'imperialismo». La Arendt intendeva gli inglesi “progressisti”.

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