Emiliano Alessandroni

 

All'inizio della 73° assemblea dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, in un contesto planetario che vede ancora i Paesi dei due emisferi impegnati in una affannosa lotta contro il Covid-19, il Presidente della Repubblica Popolare Cinese, Xi Jinping, ha pronunciato via video il seguente discorso:

 

“Il vaccino cinese per il Coronavirus, una volta sviluppato e disponibile per l'uso, diventerà un bene pubblico globale. Questo sarà il contributo della Cina per garantire la disponibilità e l'accessibilità dei vaccini nei Paesi in via di sviluppo.

Tutti insieme abbiamo agito apertamente, con trasparenza e responsabilità, abbiamo fornito informazioni all'Oms e ai Paesi interessati nel modo più tempestivo. Abbiamo subito rilasciato la sequenza del genoma. Abbiamo condiviso esperienze di controllo e trattamento con il mondo senza riserve. Abbiamo fatto tutto il possibile per aiutare i Paesi bisognosi.

La Cina invita la comunità internazionale ad aumentare il sostegno politico e finanziario all'Oms in modo da mobilitare risorse in tutto il mondo per sconfiggere il virus.

Vorrei annunciare che la Cina fornirà due miliardi di dollari entro due anni per l'assistenza internazionale, per sostenere i Paesi colpiti dalla pandemia, in particolare i paesi in via di sviluppo, per combattere il virus e riprendere lo sviluppo sociale ed economico”.

 

Questo discorso è molto più eloquente di quanto a prima vista possa sembrare e costituisce una prova ulteriore della mentalità generale che la Cina ha da tempo abbracciato.

La cultura che ha formato la classe dirigente della Repubblica Popolare Cinese affonda le sue radici in una nota organizzazione, nata a Londra molti anni or sono, che aveva il nome di "Prima Internazionale".

Ogni comportamento, ogni singola dichiarazione, ogni atto compiuto dall'inizio di questa epidemia, checché ne dica la violentissima macchina del fango messa in moto dagli Stati Uniti, ha messo in risalto questo spirito internazionalista.

Ed è proprio in virtù di questo spirito (già codificato da Xi Jinping con la formulazione della "Teoria Win-Win" nelle relazioni internazionali) che la Repubblica Popolare Cinese ha mostrato di possedere una visione del mondo ben più avanzata di quella degli Usa e dell'Occidente.

Dalla Casa Bianca e da Donald Trump, invece, non si è avvertito nessuno spirito internazionalista. Nessun impegno a risolvere il problema di concerto, aumentando la solidarietà e lo spirito di collaborazione fra gli Stati. No, la prima preoccupazione (ma anche la seconda, la terza, la quarta e così via) è stata quella di trovare il modo di esimersi da ogni responsabilità per quanto stava accadendo e di trovare il capro espiatorio su cui puntare il dito. La mentalità sovranista ha contraddistinto la reazione americana al virus.

È così partita dagli Usa una crociata ideologica contro la Cina a cui l'Europa, con un atteggiamento di totale arrendevolezza e rivelando l'assoluta fragilità della sua autonomia in politica estera, ha finito per dar seguito.

Prima, naturalmente, la nostra Europa ha usufruito senza batter ciglio delle tonnellate di mascherine, di guanti, di tute protettive e di ventilatori polmonari che la Cina le ha messo a disposizione. Ha usufruito del personale sanitario cinese venuto dalla Repubblica Popolare a rischiare la propria vita nei nostri Paesi pur di salvarne altre (forte, questo personale, di quella mentalità, che il governo si è impegnato a far maturare, per cui l'epidemia continua ad essere un problema di tutti anche quando viene espulsa dai propri confini). Ha usufruito quindi, l'Europa, degli ospedali cinesi anti-Covid-19 che sono stati eretti per far fronte alla crisi sanitaria.

Dopodiché, non appena la situazione ha cominciato a mostrare cenni di miglioramento, ha rispedito tutti indietro, senza proferir parola, senza alcun ringraziamento ufficiale, senza mostrare pubblicamente nessun sentimento di gratitudine o di fraternità.

E dopo il silenzio è arrivato il boato: i principali giornali europei, sentitisi tirare il guinzaglio da Washington, sono ritornati ai loro ligi doveri e hanno cominciato a fungere da gigantesca cassa di risonanza di tutta la propaganda di Donald Trump.

Ad ogni storia che Donald raccontava ai microfoni, rispondeva immediatamente un articolo su Repubblica, su Le Figaro, o sul Times in cui, spesso senza neppure menzionarlo, se ne accreditava la tesi.

"Il virus è fuggito dal laboratorio di Wuhan!", gridava Trump, "a morte la Cina!". E il giorno dopo i giornali europei: "Recenti ricostruzioni di analisti stanno prendendo in considerazione l'ipotesi del virus sfuggito, forse intenzionalmente o forse per errore, dal laboratorio di Wuhan e tenuto nascosto dal regime cinese".

A nessun giornalista importa di confutare lo studio apparso alla fine di marzo su "Nature Medicine", e avallato dall'Oms, nel quale si dimostra, attraverso il confronto dei dati genetici, come il Covid-19 non possa essere stato prodotto in laboratorio.

La verità scientifica non può nulla contro la propaganda. È la mentalità no-vax a dominare le nostre menti: la superstizione è più potente del sapere. E così a milioni di persone viene iniettata la fobia del "pericolo giallo", della "minaccia cinese" che si aggira per il mondo. Quando pubblicheranno, vien da chiedersi, "I protocolli dei savi di Xi Jinping"?

Tuttavia, mentre questa crociata ideologica va avanti senza sosta, si spera che almeno chi ritiene il sapere più valido della superstizione, non abbocchi a questa ondata di propaganda. Si spera che almeno gli storici seri, quelli che conoscono la storia della sinofobia e in particolare del sentimento anticinese negli Stati Uniti, notino la somiglianza tra quanto sta accadendo oggi e il clima da "Yellow Peril" scatenato in passato; che diano l'allerta e ci mettano in guardia contro il sentimento d'odio che gli Usa, con i vari Johnson e Salvini a seguito, con l'appoggio della propria stampa e con la complicità di una larga fetta del giornalismo europeo, stanno cercando di alimentare.

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