Stefano G. Azzarà

(da Marxismo Oggi, 2003, n. 1)

 

  1. Trionfo della borghesia e riconoscimento della modernità

Netto e inequivocabile, come è stato più volte messo in evidenza, è il riconoscimento, da parte degli autori del Manifesto, del ruolo progressivo svolto dalla borghesia almeno per gran parte dell'età moderna. Dopo aver enunciato la tesi fondamentale dell'interpretazione materialistica della storia secondo il principio della lotta di classe, dopo averne delineato l'articolazione storica più generale e mostrato la forma che essa ha assunto nella «moderna società borghese»[1], Marx ed Engels ripercorrono sinteticamente i nodi decisivi dell'affermazione del modo di produzione capitalistico e della connessa ascesa politica e sociale della classe detentrice della nuova forma di proprietà.

Dallo sconvolgimento dei rapporti di produzione nella dissoluzione del mondo feudale emerge una classe nuova, nella quale la volontà di profitto si manifesta in primo luogo nello spirito di commercio, che stimola l'esplorazione del pianeta, l'accumulo di nuove conoscenze, la scoperta e la conquista di nuovi popoli, merci e mercati, materie prime e relazioni. La crescita esponenziale delle forze produttive, «l'aumento dei mezzi di scambio e delle merci» (MPC pp. 6-7 = MEW 4, pp. 464-4), è così anche l'indice quantitativo di un progresso generale della società europea. La prima ondata coloniale e l'impetuoso avanzare del mercantilismo non solo favoriscono «il rapido sviluppo dell'elemento rivoluzionario in seno alla società feudale», radicalizzando il conflitto sociale e creando rapidamente le condizioni per la sconfitta politica del feudalesimo e dei suoi referenti sociologici, con il loro ordine politico[2]; ma concorrono a determinare una vera e propria cesura storica, un salto rivoluzionario che trasforma integralmente il volto della società europea, la vita e le forme di coscienza degli uomini.

«L'organizzazione feudale o corporativa dell'industria da quel momento non bastò più ai bisogni»: nel superamento - dapprima per le sole classi incluse nel processo di accumulazione, poi per cerchie via via più larghe della società - dei livelli di sussistenza materiale che erano stati “naturalizzati” dalla lenta crescita della produzione consentita entro il modo di produzione feudale, nella cancellazione della portata minima dei bisogni necessari, comincia ora a rendersi pienamente visibile la storicità integrale della natura umana. L'aumento della ricchezza complessiva, accrescendo le probabilità di soddisfazione media delle necessità primarie, renderà da questo momento possibile una moltiplicazione esponenziale, in chiave quantitativa e qualitativa, dei bisogni come delle capacità espressive degli individui. Esso si pone, perciò, come un passaggio decisivo nella costruzione del soggetto moderno: il miglioramento progressivo delle condizioni economico-sociali si accompagna in maniera evidente, da questo momento, a una continua ridefinizione della sfera stessa dell'individualità, a un continuo arricchimento degli stessi progetti di vita, che si muove seguendo l'evoluzione storica. Ed ecco, infatti, che «i mercati continuavano a crescere, e continuavano a crescere i bisogni», innescando un'attitudine complessiva che, metabolizzata sino a divenire essa stessa una vera e propria “seconda natura”, diventerà poi anche il terreno di un’induzione pianificata delle forme di vita e di consumo nel capitalismo novecentesco, di una «illimitata manipolabilità e manipolazione dell’intera vita umana»[3], dice Lukács.

Con il sorgere del modo di produzione capitalistico, l'ascesa della borghesia è ormai inarrestabile: dal mercantilismo allo sviluppo della manifattura, e poi dalle macchine sino alla «grande industria moderna» e alla creazione tendenziale del «mercato mondiale», avanza l'unificazione capitalistica del globo, che nelle ceneri del campo socialista e nel trionfo neoliberale della cosiddetta “globalizzazione” trova oggi la sua contraddittoria compiutezza. Insomma, «La borghesia ha avuto nella storia una funzione sommamente rivoluzionaria»: Marx ed Engels celebrano qui la funzione acceleratrice che la borghesia europea ha svolto nello sviluppo delle forze produttive e nella liberazione dei rapporti di produzione ma ne celebrano anche la forza creatrice di soggettività, di storia e civiltà, per quanto «cosiddetta» (MPC, p. 10 = MEW 4, p. 466), affermando che la storia di questa classe coincide per larga parte con la storia della modernità stessa. L'esaltazione della borghesia - in nesso dialettico con la sua altrettanto radicale condanna in quanto perpetuatrice della parzialità e dello sfruttamento di classe - è in altre parole il riconoscimento del suo merito oggettivo, il superamento dell'arretratezza premoderna e la genesi della società e del mondo moderno in generale. Questo riconoscimento così circostanziato diventa, in tal modo, un elemento decisivo per la costituzione e la definizione stessa del comunismo marxiano, che sin dal primo momento si caratterizza per la chiara accettazione della modernità, per il riconoscimento della legittimità del Moderno contro ogni rimpianto e ricaduta nostalgica.

Per essere coerente fino in fondo, questo accoglimento – ovviamente critico - della relativa razionalità e della realtà “strategica” immanente al capitalismo deve essere allargato senza remore a tutte le conseguenze della modernizzazione borghese. E' qui che il comunismo di Marx trova la pienezza delle proprie articolazioni e trova un banco di prova per affermarsi come un vero e proprio salto qualitativo nell'evoluzione delle forme di coscienza del pensiero umano. Parte integrante della costruzione borghese della modernità è la fagocitazione impietosa e inesorabile – tramite sussunzione formale prima, reale dopo - di ogni nucleo comunitario tradizionale e, con la distruzione delle sue condizioni materiali, dell’idea stessa di comunità precapitalistica. Il congedo da ogni nostalgia premoderna per la comunità come «comunità apparente»[4], l'accettazione dell'irreversibilità del suo superamento nella società capitalistica, è quindi la mossa decisiva con la quale Marx, nel momento stesso in cui riconosce la novità della libertà dell'individuo borghese insieme ai suoi limiti, lancia ad essa la sfida più alta e realistica - l'unica sfida possibile - nell'idea di un comunismo integralmente moderno, di una «comunità reale» di uomini che taglia i ponti con ogni tensione religiosa e con ogni mito delle origini.

L'ascesa della borghesia non comporta soltanto una trasformazione razionale delle modalità produttive, non conduce soltanto ad un accrescimento della ricchezza e ad un generale «progresso politico» (MPC, p. 7 = MEW 4, p. 464). La trasformazione reale innescata dall'imporsi del modo di produzione capitalistico determina la fine di un mondo storico, a partire dalla crisi mortale del suo nucleo relazionale di organizzazione. La vittoria di questa nuova classe «ha distrutto tutte le condizioni di vita feudali, patriarcali, idilliache». Un intero orizzonte di senso storico, un'epoca – nell’integralità delle sue determinazioni - è portata al fondo delle sue possibilità. Tutto cambia, adesso. Pensiamo soltanto allo sconvolgimento nella vita e nella mentalità di intere masse di persone mobilitate nei flussi migratori innescati dall'accumulazione originaria e improvvisamente portate «via dai loro luoghi di nascita»[5], strappate da paesaggi e territori, costumi e consuetudini, relazioni familiari e vincoli sociali tradizionali. La trasformazione delle condizioni materiali di produzione e riproduzione porta con sé la simultanea mutazione del modo stesso di svolgere e percepire le relazioni umano-sociali, una metamorfosi nella prassi e nella coscienza delle società occidentali.

Il rivoluzionamento in atto distrugge i presupposti del mondo feudale e con esso recide definitivamente tutti quei vincoli di ordine personalistico - essi stessi storici, ma ancora per larga parte vicini al loro fondamento naturale e naturalisticamente pensati - estremo retaggio della «dissoluzione della comunità naturale»[6]. C'è un passo dell'Ideologia tedesca che sia l'Ontologia che i Prolegomeni di Lukács ripetono più volte: «Nell'ordine (e più ancora nella tribù) [...] un nobile resta sempre un nobile, un roturier sempre un roturier, a prescindere da ogni altra sua condizione: è una qualità inseparabile dalla sua individualità»[7]. Con la società borghese emerge, invece, seppure falsificata dalla parzialità delle divisioni di classe, «la differenza fra l'individuo personale e l'individuo come membro di una classe, la casualità delle condizioni di vita per l'individuo». E’ un’idea - questa del superamento dell'appartenenza “naturale” che risolve l'individuo nell'ordine - che accompagna tutta l'opera di Marx ed è presente anche nel Manifesto: la vittoria della borghesia, dice insieme ad Engels, «ha lacerato senza pietà i variopinti legami che nella società feudale avvincevano l'uomo ai suoi superiori naturali» (MPC, p. 8 = MEW 4, p. 464). Reciso ogni ordinamento di tipo organicistico, il legame sociale appare adesso nella nuda concretezza dei rapporti di classe mediati dalle cose e, soprattutto, dalla “cosa” per eccellenza, il denaro: «tra uomo e uomo» non c'è più alcuna relazione e gerarchia naturale e non rimane perciò «altro vincolo che il nudo interesse, lo spietato “pagamento in contanti”».

 

  1. Tre forme di comunità originaria

E’ nei Grundrisse che Marx affronterà più compiutamente il tema della comunità “naturale”, antecedente storico e logico di quella feudale. Analizzandone la struttura materiale, egli mette in luce le condizioni di possibilità delle molteplici forme ideologiche da essa via via storicamente emerse, forme che si sono mantenute vitali ben al di là della dissoluzione, per necessità immanente, della comunità originaria stessa. E però, per contrapposizione implicita ma anche esplicita al modello di queste strutture associative arcaiche, emerge anche, in queste pagine, un abbozzo fondamentale di quella «società regolata» - come la chiamerà Gramsci[8] - nella quale gli uomini, una volta riconosciutisi reciprocamente nella loro comune essenza generica, arriveranno a riappropriarsi consapevolmente delle condizioni della riproduzione sociale complessiva e a guidarne razionalmente il corso.

Marx ricostruisce, qui, la genesi storica del rapporto di capitale. Presupposto dello scambio del denaro con il lavoro libero è, chiaramente, «la separazione del lavoro libero dalle condizioni oggettive della sua realizzazione - ossia dal mezzo di lavoro e dal materiale di lavoro» (G2, pp. 95-7 = MEGA II.1.2, pp. 378-80). Si tratta della dissoluzione della proprietà fondiaria originaria, nella quale la proprietà della terra si presenta come «unità naturale del lavoro con i suoi presupposti materiali». Qui il lavoratore trova nella terra, e non nel lavoro astratto, la propria «esistenza oggettiva». La terra di cui è proprietario lo definisce; essa, come condizione naturale della sua riproduzione, è il «corpo oggettivo della sua soggettività». Nel rapporto con questa, però, egli trova subito anche il rapporto con gli altri lavoratori in quanto «comproprietari». Il rapporto di proprietà è dunque al tempo stesso un rapporto immediatamente sociale-comunitario: gli individui sono ad un tempo «proprietari» e «membri di una comunità». La comunità è quindi la forma originaria della proprietà, il nucleo di addensamento dei rapporti di produzione e del legame sociale; non già il regno della libertà di tutti, bensì l’origine di ogni differenziazione tra gli uomini. Ed è anche, di conseguenza, la forma originaria nella quale si manifesta la percezione di quella linea di demarcazione che distingue lo “spazio sacro” degli uomini liberi dalle terre incognite ed aperte alla conquista. Linea di demarcazione che, nelle diverse fenomenologie assunte nelle epoche successive, accompagnerà l’intera storia dell’Occidente, stabilendo le coordinate – ad un tempo sociali e geografiche, di classe e di razza - lungo le quali questo disporrà le proprie pratiche di liberazione e discriminazione, di emancipazione e de-emancipazione[9].

Marx distingue tre grandi tipologie di comunità-proprietà originarie: quella orientale, quella antica (greco-romana) e quella germanica[10]. La comunità di tipo orientale è probabilmente la forma più arcaica e difatti essa viene ricondotta direttamente alla «comunità naturale» (G2, pp. 95-7 = MEGA II.1.2, pp. 378-80), articolazione della famiglia[11]. Nelle primitive forme economiche legate alla pastorizia nomade, la «comunità tribale», il «gregarismo», costituisce la genesi della proprietà come «presupposto dell'appropriazione (temporanea) e dell'utilizzazione collettiva del suolo». La terra rappresenta per i suoi membri l’insieme delle «condizioni oggettive della loro vita», nonché «della riproduzione e oggettivazione» del loro lavoro. Essa è quindi «il grande laboratorio, l'arsenale che dà i mezzi e il materiale di lavoro, e la sede che costituisce la base della comunità». L'intera configurazione del legame sociale nasce qui dal «rapporto istintivo» del singolo con la terra: poiché questa è immediatamente «proprietà della comunità», il singolo è da subito «member», «si comporta soltanto come membro di questa comunità». Solo attraverso questa egli ha – o non ha - un rapporto con le proprie condizioni oggettive, con le quali, pure, si trova ancora in unità.

Tutto un mondo mentale, l'embrione di una sfera ideologica, emerge da queste condizioni materiali, perché gli elementi dell'appartenenza comunitaria sono percepiti qui come i «presupposti naturali o divini» dell'appropriazione della terra nel lavoro. Al di là delle diverse forme storiche concrete assunte da questa tipologia, la comunità, l'«unità» dei proprietari (e solo di essi), è «il proprietario effettivo» delle condizioni materiali, che si presentano perciò come una «proprietà collettiva» il cui uso, nel lavoro quotidiano, è un semplice possesso ed è mediato «dalla concessione dell'unità complessiva [...] al singolo attraverso la mediazione della comunità particolare». La proprietà, qui, «esiste soltanto come proprietà comune» (G2, p. 102 = MEGA II.1.2, pp. 383-4) e il singolo è solo «possessore», e lo è solo in quanto «immediatamente membro della comunità», incluso, «unito direttamente con essa». E’ questa la struttura materiale del “modo di produzione asiatico”, il «dispotismo orientale» (G2, p. 97-9 = MEGA II.1.2, pp. 380-1)[12], che è caratterizzato dunque da una «proprietà tribale o comunitaria». In esso, la comunità è «sostanza» rispetto alla quale gli individui sono «meri accidenti» e il singolo è «in fact privo di proprietà». Soddisfatta la riproduzione del singolo lavoratore, non a caso, il pluslavoro - soprattutto nella forma di immense opere di canalizzazione idraulica - viene appropriato dalla comunità, nella figura personale di un «proprietario supremo», che sia la persona fisica del sovrano o un dio.

Rispetto a questa prima tipologia, la struttura della comunità antica, greco-romana, rappresenta uno stadio successivo, «è il prodotto di una via più dinamica, storica» e sorge dalla «modificazione delle tribù originarie». Si tratta di una forma sociale che trova un'esistenza esterna nella città, per la quale la campagna è semplice «territorio». Se nel primo caso non esiste proprietà privata ma solo «possesso privato» (G2, pp. 102-3 = MEGA II.1.2, p. 384), ora si assiste alla separazione di questa dalla proprietà pubblica. «La terra è occupata dalla comunità» ma «la proprietà del singolo non è qui anche immediatamente proprietà della comunità» (G2, pp. 99-100 = MEGA II.1.2, pp. 381-2): proprietà privata e ager publicus sono separati. Il singolo è divenuto «proprietario privato» della parcella di territorio sulla quale lavora. Muta qui il senso complessivo della comunità, che non è più proprietario unico e reale. Lo Stato è difatti «la relazione reciproca di questi proprietari privati liberi e uguali». Il principale rapporto dei singoli con la comunità, allora, non consiste più nella prestazione di lavoro agricolo in comune. Mentre la proprietà parcellizzata viene valorizzata dal lavoro delle singole famiglie, il «grande lavoro collettivo» è qui la guerra. La comunità si definisce infatti anzitutto «come unità negativa verso l'esterno», ed è per questo che la struttura sociale organizza necessariamente le famiglie «come sistema bellico e militare» pronto ad intervenire contro chi dalla comunità è escluso. E' chiaro, allora, che il pluslavoro è ora erogato alla comunità anzitutto sotto forma di «servizio militare» (G2, p. 102 = MEGA II.1.2, p. 383). Un altro importantissimo carattere dello Stato è, poi, la «garanzia (Garantie)» (G2, p. 100 = MEGA II.1.2, p. 382) del legame comunitario: se il servizio delle armi è rivolto essenzialmente verso l’esterno e verso le altre comunità, in una dimensione militare, la «garanzia» in quanto tale ha chiaramente una funzione interna allo “spazio sacro” della comunità e una dimensione egemonica. Emerge, qui, l'embrione di una duplice essenza dello Stato (riflesso, almeno in un primo momento, del doppio standard di comportamento che la comunità originaria assume verso il proprio interno e verso l’esterno). Con la divisione della comunità in classi definite, questa duplicità si presenterà poi nella forma dell’organizzazione della classe dominante per l'oppressione di quella dominata e in quella della «garanzia» all'interno della classe dominante stessa[13].

Nonostante l'emergere della proprietà privata, però, la comunità si conferma qui come l'elemento essenziale. Infatti, «essere membro della comunità» che ha occupato la terra, essere cittadino dello Stato, ad esempio cives romanus, «rimane qui un presupposto per l'appropriazione del territorio» (G2, p. 100 = MEGA II.1.2, p. 382). La stessa libertà, l'«autonomia» dei singoli proprietari, «consiste nella loro relazione reciproca in quanto membri della comunità» e non esiste al di fuori di essa. L'esistenza in quanto proprietario coincide dunque con l'esistenza come membro della comunità e deriva da essa, dall’appartenenza al suo “spazio sacro”; essere esclusi da tale appartenenza impedisce qualunque appropriazione. Poiché la comunità «è un presupposto della proprietà del territorio», la sua difesa incessante e organizzata è ad un tempo la difesa della proprietà privata. Quest'ultima, dunque, «è mediata [...] dall'esistenza dello Stato»: è per questo che anche qui lo Stato - in quanto «presupposto» - «viene considerato divino». Non a caso, in questa forma di comunità l'ager publicus, sottratto alla parcellizzazione riguardante i plebei - privati, appunto, del suo godimento -, rimane possesso dei patrizi, rappresentanti la comunità «al più alto grado» (G2, p. 105 = MEGA II.1.2, p. 387). E' chiaro, poi, che anche in questa forma di comunità il rapporto del soggetto lavoratore con le condizioni del proprio lavoro è un rapporto di inscindibile unità. La terra è anche qui non solo «laboratorio, mezzo di lavoro, oggetto di lavoro e mezzo di sussistenza del soggetto» (G2, pp. 99-103 = MEGA II.1.2, pp. 381-4) ma è ancor prima «natura inorganica dell'individuo vivente». Del resto, solo il permanere di questa unità attraverso il «lavoro personale» della terra - rispetto al quale la manifattura è un'attività solo «accessoria» - garantisce a tale individuo la sua «esistenza di membro della comunità», fondando, dunque, «il mantenimento dell'uguaglianza» dei proprietari e, con ciò, «la continuità della comunità». E’ per questo che per gli antichi l'agricoltura è «l'occupazione propria dell'uomo libero», in cui «si conserva l'antico ceppo della nazione».

Ancora diversa è la terza tipologia comunitaria, la comunità germanica. Qui la comunità non ha un’esistenza stabile che possa trovare una forma permanente nello Stato. Le varie famiglie che ne fanno parte, infatti, si dividono, si disperdono nel territorio occupato e lo colonizzano, per riunirsi poi di volta in volta solo in particolari circostanze. Sul piano esteriore, dunque, la comunità «esiste unicamente attraverso la riunione periodica dei suoi membri» (G2, pp. 106-8 = MEGA II.1.2, p. 388-9), nella «assemblea effettiva». Essa è non «unione» ma «riunione», non è «unità» ma «unificazione» di «soggetti autonomi»[14]. E’ per questo che non può presentarsi concretamente come città, né assumere corpo nello Stato o in istituzioni permanenti. Ogni membro della comunità è qui “libero proprietario”: la terra che egli lavora con la famiglia, raccolta attorno alla sua casa - e con la quale anche qua egli è in unità semplice -, costituisce la vera «totalità economica», è già il vero «centro autonomo della produzione». La produzione generale non è affidata ad una «concentrazione di molti proprietari» ma alle singole unità. Essa non ha dunque bisogno di un’oggettivazione permanente. Anche qui esiste un ager publicus ma esso è un possesso comune che costituisce solo una «integrazione della proprietà individuale», un «elemento accessorio collettivo», e si presenta come «proprietà» della comunità solo nella sua difesa. Nell’uso normale, esso non è però proprietà «dell'unione» ma «dei proprietari individuali».

A differenza della comunità antica, dunque, il rapporto tra proprietà e comunità sembra essersi rovesciato. Sembra che la comunità sia ora l'elemento inessenziale, dipendente dalla proprietà e dalla «relazione reciproca dei soggetti autonomi», dei «proprietari fondiari individuali in quanto tali»[15]. Di conseguenza, il proprietario non è qui immediatamente «cittadino dello Stato». In effetti, però, è solo l'esistenza - e non l'essenza - della comunità ad essere «mediata». Questa, che è certamente il prodotto di condizioni storiche «più tarde» rispetto alle comunità dei due tipi precedenti, certo non è più la «sostanza» dell'individuo, non è «unità in atto», e però rimane il presupposto imprescindibile di ogni relazione umano-sociale. Essa infatti, come «unità a se stante», è «posta nella discendenza, nella lingua, nel passato e nella storia comuni», è «comunità in sé» in quanto «comunanza di lingua, di sangue». Come tale, dunque, è «presupposta al proprietario individuale», che deve la sua proprietà unicamente all'occupazione del territorio da parte di una stessa tribù, con la la sottomissione (o lo sterminio) dei precedenti occupanti e la difesa militare dai pericoli rappresentati dalle tribù straniere. Solo la sua «effettiva esistenza» (G2, p. 109 = MEGA II.1.2, p. 390), le sue determinazioni concrete, perciò, sono condizionate dalla «forma determinata» della proprietà. La stessa proprietà individuale, del resto, trova fondamento in un vincolo di garanzia che solo l'unità comunitaria, nella sua peculiarità che ripugna dalle contaminazioni con ciò che è escluso, può dare: essa è «garantita dall'unione con altre simili abitazioni di famiglie della stessa tribù» (G2, p. 107 = MEGA II.1.2, p. 387) e dall'assemblea periodica, che si riunisce «al fine di attuare tale garanzia reciproca (Burgschaft)».

 

  1. La dissoluzione della comunità originaria

Al di là delle differenze formali, le tre tipologie indagate da Marx presentano, dunque, due fondamentali caratteri comuni, logicamente connessi, che riguardano il rapporto “naturale”, e quindi esclusivo e particolaristico, dell'individuo con la terra e con la comunità. Anzitutto, la terra; o meglio: l'unità del soggetto con la terra come mezzo di produzione, come «condizione oggettiva della sua riproduzione» (G2, pp. 108-9 = MEGA II.1.2, p. 389-90). Il soggetto è già «in rapporto con le condizioni oggettive del lavoro come condizioni sue», e lo è «semplicemente». Queste condizioni - la terra, che è qui «strumento originario del lavoro», «laboratorio», «riserva di materie prime» - sono da subito proprietà del lavoratore. Egli trova già la «condizione naturale del lavoro», prima del lavoro stesso, come «presupposta al lavoro stesso». Non essendo prodotto del suo lavoro, la terra è perciò «natura inorganica della sua soggettività». In secondo luogo, la comunità. Marx sta qui demolendo la mitologia liberale dell'individuo proprietario, e dopo aver mostrato che le origini della proprietà non sono nel libero lavoro del singolo, le riconduce alla loro vera fonte: lo stesso rapporto di unità del lavoratore con il presupposto naturale della propria riproduzione «è subito mediato dall'esistenza naturale, storicamente più o meno sviluppata e modificata, dell'individuo come membro di una comunità». Non esiste il singolo libero lavoratore originario, tantomeno come proprietario della terra su cui lavora e alla quale è indissolubilmente connesso. Il suo stesso «rapporto col territorio, con la terra» deriva dalla sua appartenenza ad una determinata unità sociale. Nel rapporto di unità con la proprietà, egli «è soggettivamente presupposto come membro di una comunità» e solo a partire da questa partnership deriva il fondamentale legame con l'oggetto e lo strumento del suo lavoro.

La relazione fondamentale, dunque, è quella tra la comunità – rispetto alla quale si è inclusi o esclusi - e la terra: «il rapporto con la terra come proprietà è sempre mediato dalla occupazione, pacifica o violenta, di un territorio da una parte della tribù, della comunità, in qualsiasi forma più o meno naturale, oppure già storicamente evoluta», occupazione cui segue la divisione e l'assegnazione della terra ai membri. Si tratta di un’acquisizione concettuale che anche la riflessione filosofico-politica conservatrice più avanzata ha fatto propria: «la prima misurazione», dice al proposito Carl Schmitt, «la prima occupazione di terra, con relativa divisione e ripartizione dello spazio; la suddivisione e distribuzione originaria, è nomos»[16], e cioè confine e frontiera, linea di inclusione e di esclusione, all’esterno come all’interno della comunità.

Già prima delle concrete vicende storiche, il destino della comunità tradizionale è però segnato, per una logica interna ai rapporti di produzione in essa vigenti e a causa della stessa finalità immanente alla sua struttura produttiva. Queste forme comunitarie fondate sulla proprietà fondiaria e sul lavoro agricolo trovano infatti il proprio «scopo economico» nella semplice «produzione di valori d'uso» (G2, p. 108 = MEGA II.1.2, p. 389). Sappiamo che il valore d'uso è sì ricchezza ma solo «ricchezza d'uso» (G1, p. 180 = MEGA II.1.1, p. 145), e cioè «un lato del tutto particolare» della ricchezza. Esso, «in se stesso, non ha l'illimitatezza del valore in quanto tale» (G2, p. 5 = MEGA II.1.2, p. 318) ma si commisura direttamente al «bisogno che se ne ha». E' chiaro che la finalità generale della produzione di ricchezza è qui ancora estremamente limitata, in quanto si rivolge alla «riproduzione dell'individuo» (G2, p. 108 = MEGA II.1.2, p. 389), ad un livello oltretutto ancora molto elementare di soggettività. La riproduzione come tale, però, non basta. Essa deve avvenire «nei rapporti determinati con la sua comunità». Marx ribadisce qui ciò che nei Grundrisse costituisce uno dei momenti più importanti della sua teoria generale della produzione. Ogni forma di produzione è produzione sociale e tende a riprodurre i soggetti coinvolti nel processo di lavoro non come elementi astratti ma insieme alle condizioni oggettive nelle quali essi sono coinvolti e che ne definiscono la posizione stessa all'interno dei rapporti di produzione. Nel lavoro dell'individuo ne va della riproduzione dell'individuo stesso ma anche del contesto sociale in cui tale lavoro viene erogato, a partire dalla struttura relazionale che vi soggiace.

Nella particolare situazione della comunità primitiva, riprodurre con il lavoro i suoi presupposti significa, però, che la produzione si organizza in maniera tale che «la comunità continui ad esistere nella vecchia maniera» (G2, pp. 110-1 = MEGA II.1.2, p. 391). «In tutte queste forme», spiega Marx, «la riproduzione dei rapporti già esistenti - più o meno naturali o anche sorti storicamente, ma divenuti tradizionali - del singolo con la propria comunità, e una esistenza determinata, che per lui è predeterminata, oggettiva, sia in rapporto alle condizioni di lavoro, sia in rapporto a coloro che lavorano con lui, ai membri della sua tribù, ecc. - è il fondamento dello sviluppo». Condizione, principio d'organizzazione e finalità generale dell'erogazione del lavoro sociale complessivo e del processo economico è la conferma della relazione “naturale” tra l'individuo, la terra e la comunità. Lo sviluppo consentito in queste condizioni, dunque, è chiaramente «a priori uno sviluppo limitato» e coincide tendenzialmente con la stasi sociale generale, con la perpetuazione dello status quo eternizzato nella tradizione-trasmissione dei rapporti consolidati: «lo scopo di tutte queste comunità è la conservazione» (G2, p. 120 = MEGA II.1.2, p. 397), dice Marx. La conservazione della «comunità stessa» e dunque della primitiva forma di proprietà - l'identità dell'individuo con la terra, condizione del suo lavoro - con cui essa coincide.

Rintracciamo con ciò proprio nella comunità tradizionale, e nella sua nostalgia, la matrice ideologica premoderna - e persino prefeudale - su cui si installano il pensiero e il comportamento conservatori antimoderni. Ancora nel Novecento, per fare solo un esempio, un esponente dell'antimodernismo borghese classico come Werner Sombart ispira la sua reazione alle contraddizioni della società industriale al mito di una «Eigenwirtschaft», di una “economia limitata” volta al semplice soddisfacimento del bisogno, che trova proprio nella comunità agricola dei piccoli proprietari il suo riferimento ideale[17]. Infine, è chiaro poi come la particolare circolazione ideologica consentita dalla struttura della comunità tradizionale legittimi - a partire dalla «idolatria della natura» (G2, p. 11 = MEGA II.1.2, p. 322), sotto l'aspetto dei ritmi ciclici della terra-madre-nutrice - la trasfigurazione e la sublimazione in chiave naturalistica, religiosa o ontologica del rapporto sociale stesso. Proprio la comunità naturale-tradizionale, in quanto “presupposto” dalle origini opache, sfuggente alla consapevole produzione umana e al controllo razionale, è sin dall'inizio il terreno genetico che offre l’archetipo di ogni forma di pensiero antiumanistica.

La genesi dell'ideologia comunitaria è però, al tempo stesso, la genesi della sua contraddittorietà. Non si tratta soltanto di una semplice contraddittorietà ex post, dovuta - come messo in evidenza da Lukács[18] - alla inane negazione dell'irreversibilità del corso storico. E' già sul piano dell'analisi concettuale che questo «determinato modo di produzione» (G2, p. 122 = MEGA II.1.2, p. 398) rivela, proprio per via di una limitatezza intrinseca, la necessità della sua morte. Per quanto limitato, lo sviluppo che inevitabilmente scaturisce dall’essenza negativa e produttiva del lavoro mette in crisi il presupposto dell'economia comunitaria, e cioè la sua sussistenza come legame sociale naturale, eternamente riprodotto e confermato nei suoi caratteri fondamentali di proprietà. Basta un piccolo spostamento, qui, per provocare una vera e propria catastrofe sociale. Ecco perciò che «la stessa produzione» (G2, pp. 110-1 = MEGA II.1.2, p. 391) e il connesso «incremento della popolazione», spiega Marx, «sopprimono necessariamente a poco a poco queste condizioni», le «distruggono invece di riprodurle»; anzi: esattamente nel riprodurle. Infatti, «se il singolo modifica il suo rapporto con la comunità», per quanto minimo sia tale scarto, «egli modifica la comunità stessa e produce effetti distruttivi» che riguardano la comunità a partire dai particolari rapporti di proprietà della terra in essa vigenti, dal suo «presupposto economico». Modifiche anche del tutto “sistemiche”, pienamente «compatibili» e in apparenza sopportabili dalla struttura comunitaria - come l'emergere di forme parziali di scambio e, dunque, di denaro e così via - mettono in crisi i vincoli e la limitatezza del rapporto sociale e conducono così alla «decadenza» e alla «rovina» la proprietà “naturale” della terra. E’ per questo, ad esempio, che nelle forme comunitarie più antiche «la manifattura figura già come corruzione» (G2, pp. 120-1 = MEGA II.1.2, p. 397-8) ed è preclusa ai cittadini veri e propri. Lo stesso accade con l'espansione territoriale e demografica in seguito a guerre vittoriose: essa è volta a confermare i limiti fissati tra “spazio sacro” e “spazio profano”, inclusione ed esclusione, estendendoli solo quantitativamente; e però finisce di necessità per sconvolgerli nella loro forma determinata e per riprodurli sì, ma in una forma qualitativamente nuova, che implica la trasformazione della comunità stessa.

In quanto le condizioni del lavoro, l'unità con la terra nel suo nesso con la comunità, sono sottoposte al «rapporto attivo, reale», alla «concreta attività soggettiva», esse dunque necessariamente «si modificano». La semplice «riproduzione» dell'individuo determinato è, «al tempo stesso» e «necessariamente», una «nuova produzione» e una «distruzione della vecchia forma». Insomma, proprio «la conservazione della vecchia comunità implica la distruzione delle condizioni sulle quali essa poggia, e si rovescia nel suo contrario». E' inscritta nell'essenza stessa del legame sociale comunitario di tipo “naturale” - per la contraddizione oggettiva in cui essa sta con la potenza produttiva insita nella negatività del lavoro umano - la fine ineludibile della comunità stessa, il suo passare necessariamente ad altro e la rottura dell'identità tra il lavoratore e la terra nel rapporto di proprietà. Non è possibile alcuna formazione economico-sociale che risponda ai criteri della perpetua conservazione dell’identico: «la comunità tramonta» (G2, p. 110 = MEGA II.1.2, p. 391) e la stessa apparente “naturalità” del modo di produzione feudale costituisce, rispetto ad essa, un salto di qualità irreversibile.

 

  1. Comunità originaria e naturalizzazione del rapporto sociale

E’ chiaro, del resto, che la limitatezza di sviluppo dell'economia comunitaria coincide con la limitatezza della stessa personalità dell'uomo in quanto lavoratore e individuo soggetto di bisogni e capacità, creando con ciò, oltretutto, le condizioni della sua più bieca sottomissione. All'interno della comunità, l'individuo tende a riprodurre se stesso nelle condizioni oggettive date e, conservando queste nella loro determinatezza particolare, conserva e blocca anche se stesso nella particolarità della forma storica di prassi e coscienza di cui in tali circostanze egli è capace. La parzialità e staticità della ricchezza d'uso non consente una fioritura dei bisogni e dell'individualità, ma solo la mera riproduzione dell'esistenza come «esistenza determinata» (G2, p. 111 = MEGA II.1.2, p. 391) e addirittura «predeterminata». In queste condizioni, certo «possono sorgere grandi individualità», commenta Marx. E però «non c'è qui da pensare a uno sviluppo libero e completo né dell'individuo, né della società». Tale sviluppo, infatti, «è in contraddizione con il rapporto originario», con il primitivo e limitato legame sociale della comunità naturale e con il rapporto di proprietà-identità con la terra.

Nel primo quaderno dei Grundrisse, affrontando il carattere di rapporto sociale proprio del denaro, Marx presenta un brevissimo abbozzo di fenomenologia dell'individualità, letta in connessione con lo sviluppo storico-economico[19]. Nei modi di produzione in cui si è ormai affermato il valore di scambio, lo scambio stesso - nella forma della merce e conseguentemente del denaro – assume, come è noto, la funzione di oggettivare e dare corpo al rapporto sociale: «la relazione sociale tra le persone si trasforma in rapporto sociale tra cose» (G1, pp. 98-9 = MEGA II.1.1, pp. 90-1). Ne consegue che il padroneggiamento dello scambio e dei suoi mezzi sostituisce il diretto dominio personale: «ciascun individuo possiede il potere sociale sotto forma di una cosa». Non accade così laddove, invece, è il valore d'uso, la diretta copertura del bisogno, ad essere preponderante. In questo caso, il potere sociale, che non risiede nella cosa, sconta ancora caratteri personalistici: esso è il potere delle «persone sulle persone».

Ecco dunque che Marx - sulle orme della filosofia della storia hegeliana[20] - articola per grandi linee la successione dei rapporti di libertà e dipendenza interpersonale. «I rapporti di dipendenza personale (all'inizio su una base del tutto naturale) sono», dice, «le prime forme sociali». Essi coincidono esattamente con le comunità originarie che ben conosciamo, nelle quali lo sviluppo generale della forma del valore è ancora minima e nelle quali, dunque, «tanto maggiore deve essere la forza della comunità che lega insieme gli individui, il rapporto patriarcale». Abbiamo difatti qui «la comunità antica» ma anche quelle forme produttive nelle quali sono ancora predominanti i residui comunitari, quali «il feudalesimo» e «la corporazione». A queste forme sociali seguono quelle che Marx vede caratterizzate dalla «indipendenza personale fondata sulla dipendenza materiale», e cioè quelle sorte sulla base del modo di produzione capitalistico, nel quale i rapporti gerarchici sono ormai interamente sociali, privi di ogni presupposto naturale e dunque “liberi”, sebbene interamente condizionati dalle differenze di classe e dall’esclusione dalla proprietà. Abbiamo, infine, «la libera individualità» e cioè la forma di esistenza della soggettività che dovrà essere consentita dall'organizzazione comunistica della produzione.

Certamente, solo a questo punto si giunge allo «sviluppo universale degli individui». E però è il mondo moderno, borghese e capitalistico lo stadio in cui, tramite l’istituzione di un «sistema di ricambio sociale generale» e di un «sistema di relazioni universali», si costituisce quell’insieme di «bisogni universali e di universali capacità» che è presupposto di un’individualità ricca e tendenzialmente compiuta. Nessuna reale individualità, come individualità realmente sociale, è invece possibile laddove vigano ancora i rapporti di dipendenza personale propri della comunità feudale o addirittura tradizionale. Qui il legame sociale, lungi dall’essere improntato ad una fantomatica spontanea libertà, scevra da ricadute in termini di potere e dominio, dipende al contrario da «un nesso soltanto locale fondato su rapporti naturali di consanguineità o di signoria e servitù» (G1, p. 104 = MEGA II.1.1, p. 94). Un nesso elementare rispetto al quale, senza dubbio, per Marx «è preferibile» quello solo materiale del rapporto di scambio. Del tutto fuori centro risultano, dunque, osservazioni quali quelle di Jean-Luc Nancy, che parla di «protesta sofferta contro la distruzione della comunità» da parte di Marx[21].

Riguardo a questo atteggiamento, non ci sono oscillazioni dal giovane Marx a quello maturo. Leggiamo i Manoscritti economico-filosofici del 1844. Nella sezione sulla rendita fondiaria, Marx descrive il passaggio delle campagne europee dal modo di produzione feudale a quello capitalistico come un processo di capitalistizzazione dell’agricoltura tramite sussunzione formale, che conduce sino alla nascita di una vera e propria “industria agricola” e, dunque, ad una sussunzione reale[22]. Il rapporto squilibrato tra rendita fondiaria e interesse del denaro fa sì che la terra passi nelle mani dei capitalisti, spesso in precedenza semplici affittuari del signore feudale. Ciò costringe la stessa nobiltà ad entrare nel regime di concorrenza e ad adottare forme capitalistiche di gestione della terra. La conseguenza è «la riduzione di ogni differenza tra capitalista e proprietario fondiario»[23], con la trasformazione del secondo nel primo. Cosa avviene con ciò? Certamente, nell’ambito della produzione feudale «esiste ancora l’apparenza di un rapporto tra il possessore e la terra, più intimo di quello implicito in una ricchezza composta semplicemente di beni materiali». Un rapporto tanto stretto che «il fondo acquista la propria individualità insieme col suo signore, è baronale o comitale insieme con lui, ha i propri privilegi, la propria giurisdizione, i propri rapporti politici» e, persino, «dà al signore il nome, come un regno lo dà al suo re». Sebbene in un senso diverso da quanto accade per il contadino, la terra «appare come il corpo inorganico del suo signore» ed ha «un carattere individuale»: ad esso è legata «la storia della sua famiglia, della sua casa, ecc.». Come negare il «lato affettivo» di questo rapporto? Esso è il nucleo dal quale si genera un orizzonte di senso, un mondo: «i costumi, il carattere, ecc. mutano col passar dall’uno all’altro fondo e appaiono unitamente al pezzo di terra». E’ un rapporto emotivo e non uno utilitaristico ciò che lega il signore alla sua terra e ai contadini che fanno parte di essa: è questo il suo «modo d’essere aristocratico».

Ebbene, «Noi non ci uniamo alle lacrime sentimentali che i romantici piangono su questa vicenda», e cioè sulla fine del mondo feudale e dell’aristocrazia, commenta Marx. Infatti, la «venalità della proprietà privata» non è superiore alla «venalità della terra» in quanto tale. Già la proprietà feudale è «terra alienata», «terra resa estranea all’uomo» e a questo opposta «sotto forma di alcuni pochi grandi signori». In essa, «il servo della gleba è un elemento accidentale della terra», posseduto assieme ad essa, e i contadini «sono essi stessi una proprietà», oggetto dell’annullamento più brutale della loro umanità. E allora, «è necessario che questa apparenza venga soppressa», che ogni «gloria romantica» venga distrutta e la proprietà della terra venga assorbita nell’ambito della generale proprietà privata, trasformando il signore in capitalista e il rapporto personale in rapporto economico utilitario. E questo perché solo in tal modo il potere dell’aristocrazia sulla terra e sugli uomini, privo ormai «di ogni valore politico», si mostrerà nella sua verità, svelando il suo nucleo di dominio e rivelandosi per ciò che era, un mero «rapporto economico tra sfruttatore e sfruttato». Solo attraverso la concorrenza, poi, quando «il godimento ozioso dell’altrui sudore di sangue» si rovescia «in un intenso traffico con lo stesso», tale potere sarà depurato da ogni vincolo personale e naturalistico e da quei rapporti feudali che ancora frenano e impacciano il dispiegarsi dell’energia produttiva del lavoro “liberato”. «E’ necessario», insomma, «che appaia pur nella sua forma cinica ciò che costituisce la radice della proprietà fondiaria, lo sporco egoismo», perché solo in tal modo il lavoro cessa di mostrare quel «significato apparentemente sociale»[24] che sembra avere entro i limitati rapporti comunitari, per giungere a quella «indifferenza» del lavoro astratto che lo rende, al tempo stesso, «emancipato». Non ha tutti i torti il capitalista, in questo senso, nell’irridere l’aristocratico Don Chisciotte rinfacciandogli «la rozza e immorale violenza e la servitù della gleba», o «l’avida ricerca di godimenti, l’egoismo, l’interesse personale», e a canzonare «la sua poesia, il suo romanticismo», parlando chiaramente «della bassezza, della crudeltà, della degradazione, della prostituzione, dell’infamia, dell’anarchia, della rivolta, che avevano le loro fucine nei castelli romantici», laddove, invece, la libera industria «ha procurato al popolo la libertà politica, ha spezzato i vincoli della società civile, congiunto fra di loro i mondi, creato il commercio filantropico, la morale pura, la cultura attraente» e ha persino «dato al popolo, invece dei suoi rozzi bisogni, bisogni civili insieme coi mezzi per soddisfarli».

Davvero nessuna «ideologia nostalgica»[25], dunque, in Marx. In generale, il pieno sviluppo dell'individualità presuppone, dunque, il «sistema di scambio sviluppato» (G1, p. 106 = MEGA II.1.1, p. 96), con il completo superamento della ricchezza e del valore d'uso, dell'economia limitata e dei residui comunitari, in conseguenza dei quali i «vincoli di dipendenza personale» e anche «le differenze di sangue» si presentano «come rapporti tra persone», con una fortissima naturalizzazione delle forme di esclusione e discriminazione. Il cammino verso la libera individualità implica il definitivo abbandono di ogni «rapporto preborghese dell'individuo con le condizioni oggettive del lavoro» (G2, p. 113 = MEGA II.1.2, p. 392), anzitutto con le sue «condizioni oggettive naturali». Non a caso, proprio attraverso quel “catastrofico” allargarsi della riproduzione che conduce alla distruzione della comunità, dice Marx, «non si modificano solo le condizioni oggettive» (G2, p. 121 = MEGA II.1.2, p. 398) ma «anche i produttori», perché nell'atto del lavoro essi «estrinsecano nuove qualità, sviluppano e trasformano se stessi attraverso la produzione, creano nuove forze e nuove concezioni, nuovi tipi di relazioni, nuovi bisogni ed un nuovo linguaggio».

Certamente, questo percorso di separazione dell'unità tra il lavoratore e la terra come proprietà mediata dalla comunità coincide interamente con il processo storico di espropriazione del lavoro, processo che lo condurrà a scambiarsi nel mercato capitalistico come semplice forza lavoro, deprivata di ogni qualità personale, di contro alle proprie condizioni, ormai divenute indipendenti nella forma del capitale. E infatti, non dimentichiamolo, Marx - anticipando sinteticamente il discorso poi svolto nelle pagine del Capitale sull’accumulazione originaria - sta qui ricostruendo «la storia genetica» del rapporto di capitale come la storia di questa «separazione» (G2, p. 114 = MEGA II.1.2, p. 393). Si tratta dunque della «separazione di elementi tradizionalmente uniti» (G2, pp. 131-8 = MEGA II.1.2, pp. 405-10), mediante «processi storici di dissoluzione» dei «tradizionali rapporti» comunitari, e cioè «dissoluzione dei rapporti di servitù», «dei rapporti di proprietà fondiaria», «dei rapporti corporativi», «dei rapporti di clientela» e «di prestazione». Un gigantesco «processo di dissoluzione, che trasforma una massa di individui di una nazione, ecc., in salariati dunamei liberi», un processo che, in pratica, «libera da ogni proprietà». Questa espropriazione, però, coincide a sua volta con il tendenziale superamento definitivo di ogni condizionamento “naturale”, di ogni “presupposto” non storico, e cioè di ogni vincolo originario non posto - direttamente o indirettamente - dal lavoro umano e sociale. La comunità originaria, difatti, è non solo una comunità già generatrice di esclusione e conflitto, verso l’interno e verso l’esterno, ma è anzitutto per larga parte ancora «una società di origine naturale» (G2, p. 118 = MEGA II.1.2, p. 396). L'appartenenza ad essa, inoltre, è «condizione naturale della produzione per l'individuo vivente» e le stesse terre occupate sono «condizioni oggettive naturali» (G2, p. 113 = MEGA II.1.2, pp. 392-3), condizioni cioè che per il lavoro umano-sociale non sono «un suo prodotto» ma qualcosa di «preesistente».

La terra, la proprietà e dunque la comunità stessa, sono qui per l'uomo «esistenza naturale esterna a lui e a lui presupposta» (G2, pp. 113-8 = MEGA II.1.2, pp. 392-6). A guardar bene, in effetti, a questo livello primitivo lo stesso soggetto lavoratore, ben lungi dall'aver conquistato una piena individualità, è ancora «individuo naturale», non pienamente umano ma soltanto «un essere naturale». Il fatto che egli trovi nella natura e nella terra il proprio corpo inorganico significa che «egli stesso non è solo il corpo organico» ma è anche «questa natura inorganica in quanto soggetto», e cioè che in qualche modo egli effettivamente è ancora «natura, terra». Le «condizioni originarie della produzione», che «non possono essere originariamente prodotte esse stesse», sono in effetti «condizioni naturali di esistenza». A questo stadio, il soggetto «si riferisce ad una determinata natura» che è «terra, territorio», non solo in quanto realtà economiche ma come «esistenza inorganica di se stesso». In realtà, commenta Marx, addirittura qui «egli esiste bensì in duplice modo», e cioè «soggettivamente in quanto uomo stesso» ma «oggettivamente in queste condizioni naturali inorganiche della sua esistenza», e cioè nella comunità e nella terra. Queste condizioni sono «presupposti appartenenti alla sua individualità» e al tempo stesso «modi di esistenza di questa». Egli dunque è terra, é comunità, perché queste sono sue determinazioni esattamente «così come lo è la sua pelle, i suoi organi sensori» (G2, p. 109 = MEGA II.1.2, p. 390). Persino il signore, e non soltanto il contadino, «appartiene alla terra», «essa lo eredita»[26].

Potentissima e duratura sarà la carica di irradiazione ideologica di questo rapporto ancestrale di cui abbiamo visto qui la struttura materiale. Se leggiamo il Tramonto dell'Occidente, ad esempio, vediamo che un pensatore reazionario come Oswald Spengler, dopo aver definito «l'uomo delle origini» nient'altro che «un animale vagante», individua la genesi dell'umanità compiuta – esattamente all’opposto di Marx - proprio nel sorgere dell’agricoltura, nel sorgere cioè di un rapporto con la terra ancora naturalisticamente definito, in cui «l'uomo stesso diventa una pianta, assume cioè figura di contadino». L'uomo è talmente legato alla terra, così dipendente, da non distinguersene più. L'appropriazione della terra da parte del contadino nel lavoro è celebrata da Spengler precisamente come un farsi terra e farsi pianta. Nel rimpianto reazionario e mitologico di questa situazione premoderna, la terra è davvero divenuta “corpo inorganico”: «si mettono radici nel suolo stesso che si è coltivato» - dice nostalgicamente Spenger - che è così divenuto una parte di noi[27].

L’affermazione della proprietà privata, però, «sviluppa un’energia cosmopolitica, universale, che travolge ogni barriera ed ogni vincolo», sebbene soltanto «per porsi al loro posto come l’unica politica, l’unica universalità, l’unica barriera e l’unico vincolo»[28]. La dissoluzione delle forme comunitarie è quindi un passaggio necessario per il superamento di ogni condizionamento naturale, di ogni residuo oggettivo e soggettivo che non sia esso stesso un risultato storico. E' un passaggio obbligato per la fioritura e la crescita di quella individualità che deve giungere a sapere e produrre se stessa come individualità universale. Questa dissoluzione dissolve certo anche «il singolo individuo nella sua oggettività» (G2, pp. 122-4 = MEGA II.1.2, pp. 398-400), strappandolo all'unità con la terra. Ma così scompare soltanto il «singolo individuo determinato», in quanto «membro di una organizzazione tribale» nella quale l'uomo è «un essere che appartiene alla specie umana, alla tribù, come un animale gregario» o come un indifferente «anello della sua catena». Per questa via, però, si attiva un processo che libera non solo lo sviluppo delle forze produttive in senso tecnico, ma anche quello delle «forze produttive umane», il che implica «la produzione (cioè lo sviluppo) di certe capacità da parte del soggetto» (G2, p. 119 = MEGA II.1.2, p. 396). Comincia solo ora per il soggetto «un processo di trasformazione in senso universale» (G2, p. 124 = MEGA II.1.2, p. 400) nel quale il raggiungimento della piena individualità è un progresso generale, un avanzamento di civiltà che si intreccia costantemente con la crescente tensione verso la conquista di se stesso in quanto membro consapevole del genere umano. E’ lo stesso movimento storico oggettivo, dirà Lukács, che a partire dall'«arretramento delle barriere naturali» realizza il «divenir-uomo» al tempo stesso come lo svilupparsi dell'individualità «in termini di multilateralità sempre più dispiegata» e come «incarnazione oggettiva della genericità», come «integrazione dell''umanità in genere umano»[29].

La strada verso la conquista del concetto universale di uomo coincide dunque con il venir meno di quelle condizioni comunitarie nelle quali le forme di identità e, di conseguenza, i rapporti di inclusione ed esclusione appaiono essi stessi – e non potrebbe essere diversamente – come dei dati di natura. Non a caso, senza il superamento di ogni residuo di unità tradizionale del lavoro con le sue condizioni oggettive non sarebbe stata possibile la fine dell'appropriazione del lavoro nella forma della schiavitù dell’uomo nei confronti di un altro uomo. La schiavitù, spiega Marx, non è infatti nient'altro che quel rapporto di proprietà in cui l'uomo stesso è assimilato alle condizioni inorganiche della produzione e diventa, così, proprietà unita direttamente alla persona di un altro. «Nel rapporto di schiavitù e di servitù della gleba» (G2, pp. 114-9 = MEGA II.1.2, pp. 393-7), dice, «una parte della società viene essa stessa trattata dall'altra come mera condizione inorganica e naturale della propria riproduzione». La schiavitù sorge quando «insieme con la terra viene conquistato anche l'uomo come suo accessorio organico», quando «la tribù straniera assoggettata e conquistata» viene ridotta «al rango delle condizioni inorganiche della riproduzione della tribù conquistatrice». Essa è dunque una variante in qualche modo necessaria della tradizionale formazione sociale comunitaria. Come tale, la «schiavitù» e ancora la «servitù della gleba» si presentano prima o poi in «tutte le comunità e ne divengono persino la base» e solo a partire da ciò esse ne «falsificano e modificano» la struttura originaria, portandola all’inevitabile dissoluzione.

Se seguiamo l'analisi di Marx, dunque, troviamo nella schiavitù il vero prototipo di ogni forma di «despecificazione naturalistica»[30], di negazione della comune appartenenza alla genericità umana. «Il lavoro stesso, tanto nella forma dello schiavo, quanto in quella di servo della gleba», dice Marx, «viene posto come condizione inorganica della produzione». In tal modo lo schiavo, ancor prima di venire assimilato allo strumento di produzione, come accade nella teoria classica della schiavitù presente ad esempio in Aristotele o in Varrone, è naturalizzato, è posto «sullo stesso piano degli altri esseri della natura, accanto al bestiame e come accessorio della terra». E' chiaro, allora, che neanche il concetto della universale partecipazione al genere umano può essere considerato stabilmente raggiunto e fondato, laddove il richiamo ad arcaici residui sociali comunitari legittimi il persistere di forme ideologiche sempre tendenzialmente capaci di una radicale de-umanizzazione e di una ri-naturalizzazione degli esclusi, che ha come risultato la totale «appropriazione della volontà altrui»[31].

 

  1. Il comunismo moderno

Il superamento - economico e politico assieme - della comunità originaria, la sua tendenziale autodistruzione, coincide dunque con lo sviluppo del soggetto umano nella sua natura individuale e nel suo nesso con la genericità come tale. Non c'è nessuna indulgenza da parte di Marx verso queste formazioni economico-sociali arcaiche, perché esse non costituiscono per lui una dimensione mitica e pacificata, in cui la comune proprietà della terra espunge e previene a priori la genesi delle contraddizioni oggettive fra gli interessi umani, del conflitto sociale e delle conseguenti differenziazioni di ceto. Non è dunque ispirandosi ad esse che è possibile elaborare una critica reale della società borghese[32].

Del tutto errata è l’idea che il legame sociale comunitario non conosca la sopraffazione e lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e, di conseguenza, sia libero dai rapporti di subordinazione e dominio operanti nell’ambito della società civile moderna come, in forma organizzata, per tramite dello Stato. Le comunità originarie non rappresentano una vaga e nebulosa età dell'oro dell'umanità ma solo il punto d’avvio di un ininterrotto processo storico senza il quale, al contrario, non c'è nessuna umanità reale. Ecco a cosa si riduce la comunità originaria: «un grado determinato dello sviluppo delle forze produttive dei soggetti che lavorano» (G2, p. 122 = MEGA II.1.2, p. 399). Un grado, oltretutto, ancora limitato e insufficiente a stimolare la piena espansione della capacità umane e che proprio per questa limitatezza si rovescia e genera inevitabilmente l’appropriazione del lavoro altrui nella forma più naturalistica, elementare e brutale della dipendenza personale, sino al limite estremo della naturalizzazione costituito dalla schiavitù. Contrapporre allo scatenamento degli egoismi proprio della società borghese l’idillio di una presunta armonia solidaristica comunitaria – e contrapporre al processo di divisione del lavoro e allo sviluppo delle forze produttive e della tecnica l’idea populista e antimoderna di una altrettanto presunta pienezza originaria dell’uomo “naturale” e non alienato - costituisce dunque una pia illusione. Un’illusione non molto diversa dall’opposizione della “autentica” Gemeinschaft germanica alla artificiosa Gesellschaft anglo-francese nella Kulturkritik tedesca di fine Ottocento e nella successiva Rivoluzione conservatrice. Se la società civile borghese è anche per Marx l’ambito in cui, in piena epoca storica, si scatenano i residui dello stato di natura, la comunità - nella sua inevitabile fondazione naturalistica dell’identità e dei rapporti di inclusione ed esclusione - è il suo necessario presupposto, la sua diretta preparazione. Del tutto fuorviante è, dunque, tentare di contrapporla allo Stato in quanto apparato di dominio organizzato, sulla scorta dell’idea di una mitologica auto-organizzazione solidale - priva di conflitti ed estranea alla sfera del potere - dei soggetti produttori[33].

Certamente, la riconquista dell'unità del lavoro con le sue condizioni oggettive, nella forma della proprietà sociale dei mezzi di produzione, è per Marx il carattere dominante del modo di produzione comunistico che cova nel seno della società borghese. Quell'«altro sistema» (G2, p. 142 = MEGA II.1.2, p. 412) che «deve subentrare al sistema dello scambio privato», dice Marx, farà sì che «il lavoro si riferisca di nuovo alle sue condizioni oggettive come sua proprietà». Ma la complessità razionale e autocontrollata della società comunista nulla ha a che vedere con la primitività indeterminata del “comunismo” originario. Qui la comunità è presupposto incontrollato che, non a caso, lungi dal realizzare l'uguaglianza degli individui, produce – tutt’al contrario di quanto pensano i comunitaristi – i più brutali rapporti di «sovrordinazione e subordinazione naturale e politica» (G1, pp. 99-100 = MEGA II.1.1, p. 91); rapporti, oltretutto, in cui l’individualità non è ancora propriamente sorta. Al contrario, la «libera individualità» comunista non è neanche lontanamente vicina all'uomo-pianta primordiale, ma è qualcosa che si fonda «sullo sviluppo universale degli individui».

L’idea di comunismo si presenta in un primo momento, nella moderna società industriale, come «comunismo ancor rozzo e materiale»[34]. Esso, in questa «sua prima forma», non è altro che «la generalizzazione e il compimento della proprietà privata», che si cerca di estendere a tutto quanto «il rapporto della comunità col mondo delle cose», facendone «proprietà privata generale» di contro a quella particolare. Ma questo comunismo rozzo - che oppone, ad esempio, la «comunanza delle donne» intesa come «proprietà comune» di esse alla «proprietà privata esclusiva» da parte del marito - non è che la conseguenza più diretta della proprietà privata stessa, e cioè «l’avidità» elevata ormai ad «invidia universale», a «tendenza al livellamento»[35]. Al movimento storico dell’espansione della ricchezza e dei bisogni, «il comunista rozzo» e invidioso oppone la «rappresentazione minima», la «misura determinata e limitata». Come tale, questo comunismo è «la negazione astratta dell’intero mondo della cultura e della civiltà», è «il ritorno alla semplicità innaturale dell’uomo povero e senza bisogni», di un uomo «che non solo non è andato oltre la proprietà privata ma non vi è neppure ancora arrivato». Questo comunismo palingenetico, insomma, «nega ovunque la personalità dell’uomo» perché riduce di fatto «il rapporto dell’uomo con l’uomo» all’immediato «rapporto dell’uomo con la natura», fa dell’uomo una mera «determinazione naturale», riducendo «l’essenza umana» a «natura». Per legittimare se stesso, esso «cerca per sé una prova storica» e si richiama esattamente all’esperienza delle diverse forme di comunità originaria di cui abbiamo parlato, a «singole forme storiche antitetiche alla proprietà privata». Ma facendo in tal modo esso, tutt’al contrario, non fa che confutare se stesso, dimostrando la propria parzialità e incapacità a porsi come modello realmente alternativo alla società borghese. Lungi dall’essere la radicale ri-naturalizzazione del rapporto sociale, il comunismo moderno è infatti per Marx «reale appropriazione dell’essenza dell’uomo mediante l’uomo e per l’uomo», «ritorno dell’uomo per sé». Esso è «umanismo», umanesimo integrale, ed è al tempo stesso «naturalismo» (e dunque «la vera risoluzione dell’antagonismo tra la natura e l’uomo») soltanto in quanto «umanismo giunto al proprio compimento». Come tale, esso è dunque la consapevole rielaborazione dell’intero corso della storia umana, è ritorno dell’uomo a se stesso tramite la riappropriazione di «tutta la ricchezza dello svolgimento storico sino ad oggi». Il comunismo come comunismo moderno riconosce e fa proprio «l’intero movimento della storia». In quanto forma di coscienza storico-politica, poi, esso non è altro che «il movimento, compreso e reso cosciente, del suo divenire», come mediazione e superamento di ogni immediatezza. Esso ha persino «colto l’essenza positiva della proprietà privata» e della stessa società borghese, facendone la «base» dell’«intero movimento rivoluzionario», e ha compreso se stesso come il compimento integrale della modernità.

Ogni vincolo naturale con le proprie condizioni oggettive di riproduzione, dunque, deve essere sciolto proprio attraverso l'imporsi generalizzato del valore di scambio affinché tali condizioni, una volta separate dal lavoro, possano da questo essere consapevolmente prodotte e riappropriate. Gli individui nella società comunista attuano la «subordinazione della loro produttività collettiva sociale, quale loro patrimonio sociale» (G1, pp. 99-100 = MEGA II.1.1, p. 91). Questo significa, spiega Marx, «il libero scambio tra individui associati sulla base dell'appropriazione e del controllo comune dei mezzi di produzione». Perché ciò sia possibile, però, è necessario che sia già sorto «un sistema di ricambio sociale generale, un sistema di relazioni universali, di bisogni universali e di universali capacità»: è necessaria, in altre parole, la dissoluzione di ogni residuo comunitario e il pieno dispiegamento della società borghese, compreso lo Stato burocratico moderno che da essa scaturisce. Solo la rottura dell'unità originaria, solo l'espropriazione del lavoro e la sua subordinazione alla nuova forma di proprietà «crea le condizioni» per la riconquista di un'unità ricca, articolata e plurideterminata, perché è solo il «movimento della proprietà privata»[36], come «rivelazione sensibile del movimento di tutta la produzione sino ad oggi» e dunque di tutta la storia umana, a consentire la stessa «realizzazione o realtà dell’uomo». Proprio nel momento in cui sottopone alla critica più radicale l'irrazionalità del sistema della produzione borghese, il comunismo marxiano riconosce dunque la necessità della «dissoluzione storica» (G2, p. 646 = MEGA II.1.2, p. 743) di ogni «comunismo primitivo». Con ciò, esso taglia i ponti con tutti gli «sforzi donchisciotteschi» (G1, p. 101 = MEGA II.1.1, p. 92) di edificare un ordine sociale che non tenga conto dell'irreversibilità del Moderno e si volge piuttosto a rintracciare, «già occultate nella società, così com'è, le condizioni materiali di produzione e i loro corrispondenti rapporti commerciali per una società senza classi».

 

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Prolegomena zur Ontologie des gesellschaftlichen Seins; trad. it., a cura di A.Scarponi, Prolegomeni all'ontologia dell'essere sociale, Guerini e Associati, Milano

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India Cina Russia, cura e trad. di B. Maffi, Il Saggiatore, Milano (la lettera di Marx a Vera Zasulič si trova in MEW, Band 35, Dietz, Berlin 1967; gli abbozzi preparatori e la prefazione alla seconda edizione russa del Manifesto del partito comunista, del 1882, sono in MEW, Band 19, Dietz, Berlin 1962)

Marx, Karl-Engels, Friedrich, 1990

Manifest der Kommunistischen Partei (1848), MEW, Band 4, Dietz, Berlin 1977; trad. it., di P. Togliatti, Manifesto del partito comunista, Rinascita, Roma 1947, poi Editori Riuniti, Roma

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Le partage des voix, Editions Galilée, Paris 1982; trad. it., di A. Folin, La partizione delle voci, Il Poligrafo, Padova

Nancy, Jean-Luc, 1995

La communauté désoeuvrée, Christian Bourgois, Paris 1986, 1990; trad. it., di A. Moscati, La comunità inoperosa, Cronopio, Napoli 1992…

Preve, Costanzo, 1992

L’assalto al cielo. Saggio su marxismo e individualismo, Vangelista, Milano

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Il tempo della ricerca. Saggio sul moderno, il post-moderno e la fine della storia, Vangelista, Milano

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* Da: “Marxismo Oggi”, 2003, n. 1.

[1] Marx-Engels, 1990, p. 5 = MEW, Bd. 4, p. 463. D'ora in poi il Manifesto verrà citato direttamente nel testo, tra parentesi, come MPC, seguiti dal riferimento alla MEW.

[2] E’ una tesi divenuta classica nella storiografia marxista, ma che il lavoro di Arno J. Mayer ci consente oggi di attenuare parzialmente. V. Mayer, 1983, in cui si sostiene la «persistenza dell’Ancien Régime» (inteso come blocco tra l’aristocrazia e la grande borghesia) fino almeno al primo conflitto mondiale.

[3] Lukács, 1981b, p. 770.

[4] Marx-Engels, 1993, p. 55 = MEW, Bd. 3, p. 74.

[5] Marx, 1979, vol. II, p. 142 = MEGA II.1.2, p. 412. D’ora in poi i Grundrisse verranno citati direttamente nel testo, tra parentesi, come G1 e G2, seguiti dal riferimento alla MEGA.

[6] Marx-Engels, 1993, p. 67 = MEW, Bd. 3, p. 62.

[7] Marx-Engels, 1993, p. 55 = MEW, Bd. 3, p. 76. Cfr. Lukács, 1990, p. 65; Lukács, 1981a, p. 246.

[8] Gramsci, 2001, p. 882.

[9] Cfr. Losurdo, 1996b.

[10] In realtà esiste una quarta forma particolare di comunità, la corporazione, intesa come unità del lavoratore con lo strumento di lavoro (G2, p. 125 = MEGA II.1.2, p. 401). Si tratta però di una forma secondaria, di cui non ci occupiamo qui per limiti di spazio. Ricordiamo che già nell’Ideologia tedesca Marx ed Engels avevano accennato al tema delle diverse forme comunitarie, da quella tribale a quella feudale, dal punto di vista dell’evoluzione della proprietà e della divisione del lavoro: cfr. Marx-Engels, 1993, pp. 9-12 = MEW, Bd. 3, pp. 21-25.

[11] Come è noto, del passaggio dalla famiglia originaria, basata sul matrimonio di gruppo, alle prime forme comunitarie organizzate in gentes e fratrie si occuperà più tardi Engels: cfr. Engels, 1950.

[12] Come è noto, Karl A. Wittfogel ricondurrà a questa tipologia della comunità precapitalistica, incentrata sulla prevalenza dei lavori pubblici collettivi, il modo di produzione instaurato in Urss dopo la NEP. v. Wittfogel, 1980; per una discussione, cfr. Catone, 1998, p. 13 sgg.

[13] Cfr. Losurdo, 1997, cap. V, § 1.

[14] E’ un tema centrale nella costruzione della mitologia ottocentesca della “libertà germanica”, ancora ben attivo nella Rivoluzione conservatrice e riecheggiato persino in Heidegger: cfr. Heidegger, 1991, pp. 115 e 116.

[15] Proprio a partire dalla lettura di queste pagine sulla comunità germanica, Jean-Luc Nancy individua in Marx – al contrario di quanto noi qui facciamo - l’indicazione positiva di una comunità «formata da un’articolazione di “particolarità”», di un «essere in comune dell’essere singolare», di contro al progetto “totalitario” di comunità (proprio del comunismo novecentesco come del nazismo) «fondata in un’essenza autonoma che dovrebbe sussistere in se stessa e riassorbire o assumere in sé gli esseri singolari» (Nancy, 1995, p. 54).

[16] Schmitt, 1991, p. 54.

[17] Sombart, 1925, p. 23 sgg.; cfr. Azzarà, 1998a.

[18] Lukács, 1976, p. 168; Lukács, 1981b, p. 741 sgg.; Lukács, 1990, p. 106 sgg.

[19] V. Preve, 1992, p. 223 sgg.; cfr. Preve, 1993.

[20] Cfr. Hegel, 1966, pp. 47-8 e Hegel, 1996, pp. 269-73.

[21] Nancy, 1995, p. 20.

[22] Cfr. come la nostalgia comuntaria stravolge questo tema in Heidegger, 1991b, p. 11 sgg, dove si parla di «industria meccanizzata dell’alimentazione».

[23] Marx, 1968, pp. 62-4 = MEW Erg. I, pp. 505-7.

[24] Marx, 1968, pp. 92-5 = MEW Erg. I, pp. 526-8.

[25] Nancy, 1995, p. 52.

[26] Marx, 1968, p. 62 = MEW Erg. I, p. 505.

[27] Spengler, 1981, pp. 776-7; cfr. Azzarà, 1998b.

[28] Marx, 1968, p. 102 = MEW Erg. I, p. 531.

[29] Lukács, 1990, pp. 10 e 45-6; Lukács, 1976, p. 384.

[30] Cfr. Losurdo, 1996a, p. 63 sgg.

[31] L'importanza del ristabilimento di rapporti schiavistici per la genesi e lo sviluppo dello stesso modo di produzione capitalistico, proprio per quanto riguarda i paesi più avanzati, è nota. Nel mancato rilievo di tale persistenza va visto il limite più grave di questa analisi marxiana. Cfr. Lukács, 1981, p. 160.

[32] Cfr. la celebre critica delle diverse forme di “socialismo” in Marx-Engels 1990 e Marx-Engels 1993. Sulla stringente attualità di questi temi, cfr. Burgio, 1999. Nessuna discontinuità presenta, rispetto all’atteggiamento qui messo in evidenza, la lettera di Marx a Vera Zasulič dell’8 marzo 1881, spesso strumentalmente utilizzata ai fini dell’invenzione di un grottesco Marx “comunitarista”. Intervenendo sulla questione dell’obščina russa, esaltata dai populisti e dai bakuniniani come base economico-sociale per un passaggio diretto della Russia dal feudalesimo in dissoluzione al socialismo, Marx certamente afferma che essa «è il punto di appoggio della rigenerazione sociale in Russia». Egli avverte, però, che affinché ciò acccada è necessario «eliminare le influenze deleterie che l’assalgono da tutte le parti», nonché «assicurarle condizioni normali di sviluppo organico» (Marx-Engels, 1960, p. 237 = MEW, Bd. 35, p. 167). La cautela di queste parole si spiega con l’intenzione di Marx di non sconcertare eccessivamente i suoi interlocutori: l’obščina era infatti guardata con speranza anche dai dirigenti del gruppo protosocialista russo, decisamente ancora immaturi sul piano teorico e politico ma senz’altro più preparati dei loro epigoni attuali. La sua volontaria cripticità si scioglie infatti completamente nelle tormentate bozze preparatorie della lettera (Marx-Engels, 1960, pp. 237-44 = MEW, Bd. 19, pp. 384-406). Qui Marx demolisce la mitologia nostalgica della comune rurale russa. Il suo modello strutturale non è la comunità antica bensì quella germanica, nella quale già abbastanza definito è il «dualismo» tra la proprietà collettiva della terra e il suo uso ormai interamente privato (la terra viene periodicamente assegnata in parcelle ai membri della comunità). Privata è anche la proprietà della casa e della corte rustica, con tutte le possibilità di accumulazione individuale, e di conseguente differenziazione sociale, che ciò comporta. La comune russa è dunque propriamente una «fase di trapasso» dalla comunità originaria alla «formazione secondaria», e cioè «dalla società basata sulla proprietà comune» a quella «basata sulla proprietà privata», nonché «sulla schiavitù e sul servaggio». Già questo basterebbe a chiudere il discorso con i “marxisti comunitaristi”. Marx però aggiunge anche altro. Egli afferma l’assoluta insufficienza dell’obščina, che sconta la necessità di «spogliarsi gradatamente dei suoi caratteri primitivi», dei suoi elementi naturalistici dunque, per compiere un salto di qualità e «svilupparsi» fino a divenire «elemento della produzione collettiva su scala nazionale». Proprio i residui naturalistici della comune, assieme agli influssi dovuti alla diffusione dei metodi capitalistici, che generano conflitto tra i contadini poveri e i kulaki, sono le «le influenze deleterie che l’assalgono da tutte le parti» di cui parla la lettera. Infine, vediamo quali sono le condizioni nelle quali, nonostante tutto ciò che abbiamo detto sinora, la comune può essere un utile strumento di organizzazione sociale. La prima è la «contemporaneità della produzione capitalistica», che potrebbe consentire all’obščina di far proprie «tutte le conquiste positive» del capitalismo senza pagarne lo scotto. La Russia, infatti, non vive «isolata dal mondo moderno» ma nella Modernità - che i panslavisti o i populisti vogliano o meno - è ormai immersa. La seconda condizione è la contemporaneità della «crisi» del capitalismo, ormai «in lotta e con la scienza, e con le masse popolari, e con le stesse forze produttive generate dal suo seno». La contemporaneità, cioè, della lotta di classe consapevolmente organizzata e condotta sulla base dei principi politici del socialismo scientifico. Determinante è dunque l’«ambiente storico» in cui l’obščina si colloca. Solo grazie all’appropriazione delle moderne tecniche produttive capitalistiche essa può porsi all’altezza del «lavoro cooperativo organizzato su vasta scala» e introdurre l’uso delle «macchine», della «coltura meccanica», degli «utensili», degli «ingrassi», dei «metodi agronomici». Ma questa «metamorfosi», che le darà una «pelle nuova», avrà un senso socialmente positivo solo se sarà inquadrata nel contesto di una trasformazione generale della società russa, nel quadro cioè di un processo politico rivoluzionario. «Per salvare la comune russa», insomma, «occorre una Rivoluzione russa», una rivoluzione socialista. A dire il vero, nemmeno questo, forse, potrebbe bastare, senza un collegamento con il più generale movimento rivoluzionario internazionale. Infatti, come Marx precisa nella prefazione alla 2° edizione russa del Manifesto del partito comunista, pubblicata nel 1882, solo «se la rivoluzione russa diverrà il segnale di una rivoluzione proletaria in Occidente, in modo che le due rivoluzioni si completino a vicenda», la comunità rurale «potrà servire come punto di partenza ad uno sviluppo in senso comunistico» (Marx-Engels, 1960, p. 246 = MEW, Bd. 19, pp. 95-96). Rinunciamo qui a citare per esteso le ulteriori precisazioni fornite su questo tema da Engels, dato che la sua immeritata fama di “travisatore” del pensiero marxiano renderebbe tale sforzo inutile. In ogni caso, sulla base di quanto abbiamo visto, ci pare di poter dire che - con buona pace del sogno populista di una rigenerazione comunitaria dalla “barbarie” del Novecento - anche sulla questione dell’obščina la miglior interpretazione dell’autentico pensiero di Marx sia stata, una volta di più, il programma di Lenin.

[33] E’ questa, ci pare, la sostanza della proposta di autori come Marco Revelli e per altri aspetti, nonostante le diverse intenzioni, di Jean-Luc Nancy. Cfr. Revelli, 1997, p. 155 sgg. e la lettura del Welfare State novecentesco in Revelli, 2001, pp. 64-79. Cfr. poi Nancy, 1995, pp. 7 sgg., 19-22, 65 sgg.; Nancy, 1993, pp. 97-8.

[34] Marx, 1968, pp. 108-12 = MEW Erg. I, pp. 534-7.

[35] E’ un Leitmotiv, non del tutto ingiustificato, della critica di Nietzsche al socialismo: cfr. Losurdo, 2002, cap. 8, § 1 sgg.

[36] Marx, 1968, p. 112 = MEW Erg. I, p. 536.

 

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