Daniele Burgio, Massimo Leoni, Roberto Sidoli*

Persino la statunitense Central Intelligence Agency, non sospettabile sicuramente di simpatie per la Cina, ha ormai ammesso che il prodotto interno lordo cinese ha superato quello statunitense a partire dal 2015, usando (a modo suo, certo, ossia in modo parziale) il criterio della parità del potere d’acquisto: tale dato di fatto esplosivo emerge con chiarezza dalle interessanti pubblicazioni annuali della CIA, ossia il CIA World Factbook del 2015 e del 2016, con le loro informazioni che riguardano il confronto tra l’economia cinese e quella statunitense, non utilizzando il prodotto interno lordo nominale e puramente monetario ma invece uno strumento analitico più raffinato e soprattutto corrispondente alla realtà contemporanea.

Il criterio della parità del potere d’acquisto (PPA) è stato introdotto dopo il 1945 dagli economisti sotto l’egida delle organizzazioni internazionali, al fine di calcolare e confrontare il prodotto interno lordo delle diverse formazioni statali, tenendo conto della differenza esistente tra il potere d’acquisto reale nelle diverse nazioni e astraendo invece dalle eventuali fluttuazioni nel tasso di cambio.

Quindi il prodotto interno lordo di un paese, attraverso l’utilizzo del PPA, viene di regola convertito in dollari internazionali tenendo conto della diversità nei poteri d’acquisto nazionali, differenziandosi a volte – come nel caso cinese e indiano – in modo molto sensibile dal prodotto interno nominale invece espresso da determinati paesi.[1]

Ora, se si prende in esame il World Factbook della CIA per il 2016, alla voce “country comparison-GDP (purchasing power parity)” emerge con chiarezza come la centrale di spionaggio di Langley abbia calcolato, utilizzando a modo suo il criterio della parità del potere d’acquisto, che:

-         la Cina nel 2016 risultava indiscutibilmente prima in tale graduatoria mondiale, con un prodotto interno lordo (non nominale, ma acquisito mediante l’uso del PPA) equivalente a 21.290 miliardi di dollari;

-         sempre nel 2016 gli Stati Uniti esprimevano invece un prodotto interno lordo (PPA) pari a 18.570 miliardi di dollari.[2]

Prodotto interno lordo della Cina nel 2016 uguale a 21.290 miliardi di dollari, impiegando il metodo PPA usato dalla CIA.

Prodotto interno lordo degli Stati Uniti nel 2016 uguale a 18.570 miliardi di dollari, sempre con il metodo PPA utilizzato dalla CIA.

Siamo quindi in presenza indiscutibile di un prodotto interno lordo cinese che già nel 2016 superava di più del 10 percento, di più di un decimo quello statunitense: del 15 percento e di quasi un sesto, per essere più precisi, mentre un gap quasi analogo tra Pechino e Washington emerge anche prendendo in esame i dati forniti dalla CIA sulla stessa questione per l’anno 2015.[3]

Il sensibile differenziale di potenza tra i rispettivi prodotti interni lordi (PIL) di Pechino e di Washington sta inoltre aumentando a vista d’occhio a favore della Cina, vista l’asimmetria nel tasso annuale di crescita del PIL delle due nazioni in via d’esame.

Se infatti nel 2017 il PIL cinese è cresciuto del 6,9 percento rispetto all’anno precedente, l’economia statunitense l’anno scorso ha visto invece un tasso di crescita pari solo al 3 percento: facciamo ora qualche facile calcolo, non tenendo conto delle fluttuazioni (del resto molto modeste) nel tasso di cambio tra yuan e dollari.

Il PIL cinese nel 2017, sempre utilizzando il criterio della parità del potere d’acquisto proposto dalla CIA, è aumentato dai 21.290 miliardi di dollari del 2016 fino ai 22.752 miliardi di dollari del 2017 (21.290 + 6,9% di 21.290).

Invece il PIL statunitense è passato dai sopracitati 18,570 miliardi di dollari del 2016 ai 19.127 miliardi di dollari (18.570 + 3% di 18.570).

In estrema sintesi:

PIL cinese del 2017 = 22.752 miliardi di dollari.

PIL degli USA nel 2017 = 19.127 miliardi di dollari.

Il differenziale, e la distanza tra i prodotti interni lordi di Pechino e Washington, sta via via crescendo in modo più che evidente, come si può notare con facilità dal semplice e banale calcolo proposto poco sopra.

Non vogliamo annoiare i lettori con altri aridi conti ma possiamo subito sottolineare che, mantenendo invariato nel prossimo quinquennio i sopracitati tassi di incremento del PIL cinese e americano, per il 2017 la potenza economica reale cinese supererebbe di circa il 50 percento, ossia sorpasserebbe di circa la metà quella invece espressa dagli Stati Uniti in soli altri quattro anni e già alla fine del 2021, sempre usando i dati della CIA e la sua applicazione del criterio della parità del potere d’acquisto.

Si tratta di calcoli effettuati esclusivamente dalla CIA di Langley, si potrebbe obiettare: quindi forse di operazioni mentali arbitrarie e scorrette.

Errore, grave sbaglio, notevole abbaglio teorico-concreto.

Fin dal 2014 un’altra struttura di intelligence a egemonia occidentale, ossia la Banca Mondiale in una delle sue sezioni di ricerca, aveva infatti rilasciato uno studio nel quale si riconosceva che la Cina sarebbe diventata la prima economia al mondo già nell’anno ancora in corso. Alla fine di aprile del 2014 proprio l’autorevole – nei circoli occidentali, certo – quotidiano britannico Financial Times aveva pubblicato un rapporto dell’International Comparison Program della Banca Mondiale, nel quale si evidenziava come il sorpasso economico di Pechino sugli Stati Uniti, previsto in precedenza per il 2019, sarebbe invece avvenuto con cinque anni di anticipo.[4]

Banca Mondiale e 2014, CIA e 2015: persino due dei più saldi strumenti operativi e delle migliori menti collettive dell’imperialismo occidentale hanno quindi ammesso e riconosciuto, tra l’altro, prima di gran parte della sinistra occidentale, un fenomeno economico-sociale certo di non poco conto.

A questo punto entriamo più nel concreto, ossia nell’analisi dei settori produttivi nei quali si sostanzia e si cristallizza la nuova superiorità cinese su scala mondiale in campo produttivo e logistico.

Si può prendere il via dal settore automobilistico nel quale inaspettatamente il gigante asiatico ha superato da tempo come produttore/consumatore il vecchio e stanco ex-numero uno statunitense.

La ragione del sorpasso cinese sugli USA in questo campo risulta subito chiara e comprensibile: se nel 2005 nel mercato cinese erano state vendute meno di cinque milioni di autovetture, il loro numero era salito in soli undici anni alla quota di 23,6 milioni di veicoli nel 2016, pari al doppio del mercato statunitense, mentre il numero di veicoli commerciali venduti all’interno del gigante asiatico risultava ormai equivalente a quattro milioni e mezzo di unità. [5]

Un discorso analogo va effettuato anche per il segmento emergente delle auto elettriche: come è stato notato anche da osservatori non sospetti di simpatie verso Pechino, sulle 771.000 autovetture elettriche prodotte al mondo nel 2016 ben 507.000, ossia più della metà del totale, erano state prodotte e immatricolate in terra cinese.

«Al Salone dell’auto di Ginevra le auto elettriche e ibride sono le vere protagoniste. I numeri dell’auto elettrica in Cina sono già molto consistenti. Pechino è già oggi il più vasto mercato al mondo per i veicoli elettrici davanti a Stati Uniti ed Europa. Il governo cinese persegue da almeno due decenni un ambizioso piano nazionale per coniugare lo sviluppo economico con il rispetto dell’ambiente. La lotta all’inquinamento è diventato uno dei pilastri del patto sociale tra popolazione e governanti e i veicoli elettrici hanno cominciato, così, a imporsi sulle strade della megalopoli cinesi congestionate dal traffico. Nella sola Pechino, nel 2016, erano attive quasi mille colonnine per la ricarica delle batterie e la Commissione nazionale per le riforme vuole arrivare a 12 mila stazioni per ricaricare 5 milioni di auto elettriche entro il 2020».[6]

Tali risultati non cadono certo dal cielo, avrebbe potuto notare Mao Zedong, ma derivano invece da precise scelte di politica economica: non è un caso che all’inizio del 2017 il governo cinese abbia fissato delle scadenze molto precise al fine di incentivare e stimolare il processo di crescita della produzione e vendita delle auto ibride ed elettriche, la cui quota sul giro di affari globale dovrà arrivare almeno all’8% nel 2018 per passare poi al 12% del 2020 e al 20% del 2025.[7]

La Cina vanta ormai da molto tempo un primato indiscutibile su scala mondiale anche nel processo di produzione di altri importanti beni di consumo, a partire dai settori dei computer e dei cellulari ormai monopolizzati da tempo da parte del gigante asiatico.

Secondo uno studio accurato dell’insospettabile – di simpatie per Pechino, ovviamente – Commissione Europea relativa all’anno 2016, la Cina infatti produceva nell’anno preso in esame:

-         Il 28% delle automobili del mondo, ossia quasi un veicolo su tre;

-         Il 90% di tutti i cellulari;

-         L’80% di tutti i computer, e cioè quattro su cinque;

-         L’80% di tutti i condizionatori del pianeta;

-         Il 60% di tutti i televisori assemblati sul nostro pianeta, ovvero più della metà totale;

-         Il 50% dei  frigoriferi fabbricati su scala globale;

-         Più del 40% delle navi costruite nel 2016 sulla terra.[8]

Sono dati impressionanti che attestano l’egemonia indiscutibile di Pechino all’interno del processo mondiale di produzione dei mezzi di consumo, che trova come pietra di paragone solo quello goduto dagli Stati Uniti tra il 1944 e il 1960: ma anche rispetto al marxiano settore A, ossia al segmento della produzione di mezzi di produzione, la supremazia di Pechino si rivela molto solida e multilaterale.

La Cina da un paio di decenni si è ormai realmente trasformata nella “fabbrica del mondo”; e sempre lo studio sopracitato della Commissione Europea ha stabilito con estrema chiarezza come quasi la metà, quasi il 50% dell’acciaio prodotto su scala planetaria sia stato prodotto in Cina durante l’anno 2016, testimoniando il semi-monopolio di quest’ultima anche all’interno di questo settore economico ancora dotato di un certo peso specifico, seppur declinante.[9]

Per quanto riguarda invece la massa globale di energia consumata all’interno della dinamica produttiva, la Cina è diventata fin dal 2012 il principale consumatore di energia, come venne rilevato anche da Francesco Tamburini nel febbraio del 2013 in un suo interessante articolo su Il Fatto Quotidiano, su cui torneremo tra poco.[10]

E sul fronte dell’energia pulita, delle fonti energetiche rinnovabili?

Anche in questo segmento produttivo, tra l’altro di valore strategico e in continua espansione, la musica non cambia e suona sempre un ritmo cinese.

Infatti il gigante asiatico è diventato nel 2016 il primo produttore di energia fotovoltaica del mondo, con 77,42 gigawatt di potenza installata: nel solo 2016 la Cina era riuscita a creare ben 35,54 gigawatt di energia e quindi quasi la metà del totale, puntando tra l’altro nel triennio 2017-2019 a installare strutture per la produzione di altri 110 gigawatt.[11]

Un primato mondiale analogo è stato raggiunto dalla Cina anche rispetto alla potenza eolica installata, ed equivalente nel 2016 a 145 gigawatt, mentre in campo idroelettrico essa ha superato gli USA fin dal 2009 grazie alla gigantesca diga delle Tre Gole, a pieno regime, divenuta in grado di produrre annualmente 22,5 gigawatt rappresentando di gran lunga l’impianto energetico più potente al mondo.[12]

Non sorprende, viste queste premesse, come ormai da alcuni anni la Cina sia diventata il principale produttore ed esportatore di pannelli solari su scala planetaria, raggiungendo un semi-monopolio anche in questo particolare anello del processo produttivo globale.

La superiorità cinese risulta altresì indiscutibile anche nel complesso “cemento/case”, ossia nella produzione di materie prime a scopo abitativo e nel correlato processo di urbanizzazione: dando per assodato da molto tempo il primato di Pechino anche nella produzione di cemento e degli articoli legati al settore abitativo (rubinetterie, bagni, ecc.), vogliamo focalizzare l’attenzione invece sul secondo lato della connessione dialettica sopracitata.

Come ha notato giustamente il ricercatore Giuliano Marrucci, nel suo eccellente libro intitolato “Cemento Rosso”, uno dei fenomeni socioproduttivi più rilevanti su scala planetaria durante gli ultimi quattro decenni è stato il rapido ma pianificato e controllato spostamento di oltre 500 milioni di esseri umani dalle campagne alle città, verificatosi in Cina a partire dal 1978 e creando via via il più ampio e veloce processo di urbanizzazione della storia umana.[13]

Ancora nel 1978 e all’inizio della lunga stagione di riforme economiche introdotte da Deng Xiaoping e dal partito comunista cinese, la Cina si trovava nella situazione sgradevole di paese agricolo: circa l’80% della popolazione e quattro cinesi su cinque risultavano infatti in quell’anno ancora insediati nelle aree rurali, mentre i cinesi che invece vivevano a quel tempo in città erano appena 172 milioni e solo il 20% della popolazione totale.

Meno di quarant’anni dopo e nel 2016, il numero di cinesi residenti nelle città era invece salito a 770 milioni di persone, circa il 56% della popolazione del gigante asiatico in meno di quattro decenni più di 500 milioni di cinesi si sono dunque spostati dalle campagne creando un processo di urbanizzazione senza precedenti: per dare un termine di confronto stiamo parlando di una massa di esseri umani pari a circa nove volte all’attuale popolazione italiana, tanto che il risultato finale è che oggi delle dieci città al mondo con maggior numero di abitanti ben cinque sono cinesi, e in tutto il paese asiatico ormai si trovano cento città con oltre un milione di abitanti, ossia come o più di Milano.

Giuliano Marrucci ha sottolineato, in modo lucido e corrispondente alla verità storica, che se la Cina in termini di reddito pro-capite ha raggiunto il livello delle egemonie di medio-basso livello solo attorno al 2005, «in termini di infrastrutture urbane questo livello era già stato raggiunto dieci anni prima. A partire dalla rete di metropolitane, che entro il 2020 sarà presente in 40 città, e che con i suoi 7000 chilometri di estensione sarà 5 volte più grande di quella statunitense. Una straordinaria capacità di investimento resa possibile dal fatto che in Cina non esiste proprietà privata dei terreni. Tutti i terreni sono di proprietà pubblica e vengono dati in concessione per periodi limitati ai costruttori, che se li aggiudicano nell’ambito di agguerritissime aste pubbliche. Sono proprio gli introiti di queste aste che finanziano ormai l’80% delle attività delle amministrazioni locali, e che permettono di alzare continuamente il livello delle infrastrutture.

E grazie all’impetuoso boom economico, nonostante la gigantesca pressione demografica che ha riguardato in particolar modo le città principali, lo spazio residenziale a disposizione di ogni cittadino urbano è passato da meno di 4 metri quadrati negli anni ’80 ai 35 metri quadrati attuali.

Ecco come si spiega il fatto che nel solo biennio che va dal 2011 al 2013 la Cina ha consumato una volta e mezzo il cemento che gli Stati Uniti hanno impiegato durante tutto il Ventesimo secolo».[14]

In estrema sintesi la Cina è diventata il più grande costruttore-architetto del pianeta, e non solo la “fabbrica del mondo”.

Anche nelle principali aree produttive nelle quali Pechino è rimasta indietro rispetto ai paesi capitalistici più avanzati, a partire ovvia-mente dagli Stati Uniti, si sta assistendo da alcuni anni a una formidabile e ben pianificata rincorsa della Cina (prevalentemente) socialista rispetto ad alcuni settori dell’hi-tech.

Tralasciando per il momento il settore dell’automazione e della robotica, che analizzeremo a fondo in un prossimo capitolo, primo esempio concreto della particolare “rincorsa” produttiva attuata dal gigante asiatico nell’ultimo quinquennio è quello della produzione degli strategici chip, di semiconduttori.

Come ha notato Manolo De Agostini nel novembre del 2015, Pechino in quell’anno aveva programmato di investire nel medio termine una pioggia di miliardi per diventare una superpotenza nel chip. «La Cina cerca di entrare con forza nel settore tecnologico con ingenti investimenti nel settore di semiconduttori.»

È perciò molto interessante che Tsingihua Unigroup, un conglomerato tecnologico statale che fa capo alla Tsingihua University, voglia investire qualcosa come 47 miliardi di dollari nei prossimi cinque anni per «costruire il terzo più grande produttore di chip al mondo dopo Intel e Samsung. A dirlo Zhao Weiguo, presidente dell’azienda, in un’intervista con l’agenzia Reuters.»[15]

Un’altra rincorsa della Cina in campo economico ha per oggetto invece il settore aeronautico civile, in precedenza appaltato alle principali imprese aeree statunitensi ed europee: e non è un caso che nel maggio del 2017 sia diventato operativo, dopo lunghi anni di progettazione e ricerca, l’aereo C 919, ossia il primo aereo commerciale prodotto autonomamente nel gigantesco paese asiatico.

L’avanzato velivolo C 919, dal costo più basso rispetto a quelli venduti da Boeing e Airbus, viene spinto da due motori del tipo CFM Leap 1C e può ospitare da 158 a 168 passeggeri in una configurazione standard da due classi, essendo in grado di percorre-re distanze comprese tra i 4 mila e i 5.600 chilometri: fino ad oggi ha ricevuto 570 ordini da 23 compagnie, quasi tutte asiatiche e cinesi in particolare.[16]

Il particolare processo di inseguimento cinese può essere altresì analizzato anche attraverso la gigantesca espansione da parte di Pechino nel settore delle batterie per auto elettriche, nel quale fino a pochi anni fa erano completamente egemoni gli americani e la Tesla di Elon Musk. Il giornale Il Fatto Quotidiano, collocato saldamente su posizioni anticomuniste, a tal proposito ha notato come la Cina stia convogliando iniziative «per costituire un autenti-co impero di accumulatori di ultima e prossima generazione. Un vero e proprio maremoto di energia “in scatola”, pronta effettiva-mente a travolgere la concorrenza. Quantomeno sulla carta.

Alla fine di giugno del 2017 le aziende cinesi avevano i piani per ulteriori fabbriche di accumulatori di ultima tecnologia, per una capacità produttiva complessiva superiore ai 120 gigawattora l’anno entro il 2021, secondo un rapporto da fonte interna dell’agenzia (Bloomberg Intelligence) pubblicato questa settimana.

Una quantità enorme, sufficiente ad esempio a equipaggiare di batterie, ogni anno, addirittura 1,5 milioni di veicoli Tesla Model S (che impiegano quelle più grandi) o ben 13,7 milioni di veicoli ibridi Toyota Prius Plug-In. Al confronto, quando sarà completato nel 2018, la famosa Gigafactory di Tesla riuscirà a produrre celle accumulatrici per una capacità massima entro i 35 gigawattora ogni anno».[17]

A questo punto possiamo quasi sentire già le voci dei soliti avvocati del diavolo, più o meno in buona fede: “D’accordo, state citando fatti reali, ma tutti questi miracoli produttivi si basano sui salari da fame delle tute blu cinesi”.

Si tratta di una volgare menzogna che è stata smentita per l’enne-sima volta e in modo inconfutabile da un istituto di ricerca come l’Euromonitor International, non certo accusabili per simpatie comuniste e/o filocinesi.

Cosa contiene tale ricerca, rispetto alla sorte degli operai cinesi del Ventunesimo secolo?

Un dato eclatante come la triplicazione del salario degli operai cinesi dal 2005 al 2016, l’aumento di tre volte degli stipendi nominali percepiti dalle tute blu cinesi negli undici anni compresi tra il 2005 e il 2016.

Nel 2016 il salario medio orario degli operai manifatturieri in Cina risultava infatti pari a euro 3,60, con un incremento enorme rispetto all’1,20 euro all’ora del 2005, superando tra l’altro quello dei loro colleghi brasiliani e messicani e avvicinandosi rapidamente a quello delle tute blu greche e portoghesi.

Pertanto la Cina, considerata uno dei luoghi di maggiore sfruttamento del pianeta secondo molti sindacalisti occidentali, risulta invece quello che più di tutti registra continui aumenti salariali. La ricerca di Euromonitor International dimostra infatti come la retribuzione per un’ora di lavoro in Cina sia superiore a quella di tutti i paesi dell’America latina (tranne il Cile) ed è pari al 70% di quella dei paesi più deboli dell’area dell’euro (quali Portogallo e Grecia); si tratta di ricerche che tengono in considerazione i dati ufficiali dell’Organizzazione internazionale per il lavoro (ILO) e l’inflazione, ma che tuttavia non prendono in considerazione le diversità del costo della vita nei vari paesi esaminati.[18]

Se si vuole una controprova, un’indagine condotta dall’insospettabile banca svizzera Credit Suisse e pubblicata nel gennaio del 2013 ha rivelato come il salario medio mensile dei trentenni cinesi, a parità di potere d’acquisto, fosse superiore di quello dei loro coetanei italiani.

Passiamo ora al processo di analisi di altri importanti segmenti produttivi nei quali la Cina Popolare ha acquisito un ruolo egemonico, nel corso degli ultimi anni.

Va innanzitutto evidenziato come, contrariamente al senso comune che vede i cinesi come semplici imitatori delle conquiste del libero mondo occidentale, il gigante asiatico sia di gran lunga il primo innovatore e il “genio creativo” tra i paesi del mondo, specialmente in settori come le telecomunicazioni, l’informatica e la tecnologia medica, raggiungendo da solo la quota di un terzo delle richieste di nuovi brevetti su scala mondiale nel corso del 2015.

Tale fenomeno sorprendente ma indiscutibile viene certificato tra gli altri dal “World Intellectual Property Indicators – 2016”, l’annuale rapporto dell’Organizzazione mondiale per la proprietà intellettuale (WIPO), che assegna alla Cina il ruolo di paese all’avanguardia con la bellezza di 1.010.406 richieste di nuovi brevetti, nel 2015: in pratica un terzo di tutte le richieste mondiali. «Questi numeri sono davvero straordinari per la Cina – ha dichiarato il direttore generale della WIPO, Francis Gurry – È la prima volta in assoluto al mondo che un ufficio brevetti riceve più di un milione di richieste. In tutti i paesi, si riscontra un crescente interesse a proteggere la proprietà intellettuale che riflette la sua importanza in un’economia della conoscenza propria della globalizzazione.

L’Agenzia delle Nazioni Unite che si occupa della protezione dei diritti di proprietà intellettuale ha registrato 2,9 milioni domande di nuovi brevetti, con un incremento del 7,8 per cento rispetto al 2014, e la Cina, sotto l’impulso degli incentivi governativi, è nettamente in testa, seguita da Stati Uniti (526.296) e Giappone (454.285).

Per quanto riguarda i settori innovativi a maggior tasso di sviluppo, in evidenza ci sono tecnologia informatica (7,9% del totale), macchine elettriche (7,3%) e comunicazione digitale (4,9%): e anche nelle domande per nuovi marchi si è assistito a un significativo balzo in avanti della Cina che primeggia anche in questa classifica, con 2,83 milioni domande di registrazione sui 6 milioni e poco oltre di richieste in tutto il mondo.»[19]

Anche rispetto ai rapporti di forza planetari creatasi all’interno del campo del commercio internazionale la Cina ha ormai accumulato, a partire dal 2013, una superiorità abbastanza sensibile rispetto al numero due e al concorrente statunitense.

Nell’articolo sopracitato del febbraio 2013, Francesco Tamburini ha ammesso che nel 2012 la Cina aveva superato gli Stati Uniti, diventando la prima potenza commerciale del mondo.

«Mentre Washington perde un primato che deteneva dalla fine della Seconda guerra mondiale, Pechino diventa il primo partner commerciale di molti Paesi europei, tra cui la Germania. Entro il 2020, secondo l’analista Jim O’Neill di Goldman Sachs Group, le esportazioni tedesche in Cina saranno il doppio rispetto a quelle dirette in Francia.

Il totale delle importazioni ed esportazioni americane nel 2012, secondo i dati pubblicati dal dipartimento del Commercio, ammonta a 3.820 miliardi di dollari, contro i 3.870 miliardi riportati da Pechino. Gli Stati Uniti perdono così un primato che detenevano dalla fine della Seconda guerra mondiale.

La battaglia tra le due superpotenze mondiali, come sempre, porta a chiare conseguenze anche in Europa. Pechino sta infatti diventando il primo partner commerciale di molti Paesi europei, tra cui la Germania. Entro il 2020, secondo l’analista Jim O’Neill di Goldman Sachs Group, le esportazioni tedesche in Cina saranno il doppio rispetto a quelle dirette in Francia. “Per molti Paesi in tutto il mondo la Cina sta diventando rapidamente il partner commerciale più importante”, ha spiegato O’Neill a Bloomberg, sottolineando che andando avanti di questo passo sempre più paesi europei privilegeranno una partnership con Pechino, snobbando le nazioni più vicine.»[20]

E la correlazione di potenza su scala mondiale in campo bancario? Almeno in questo settore gli Stati Uniti hanno forse mantenuto il loro precedente primato su scala planetaria?

No, non esattamente.

Stando infatti a un rapporto dell’insospettabile istituto Mediobanca, elaborato alla metà del 2017, nel 2016 si ormai assistito al sorpasso cinese anche nel campo bancario come ha dovuto riconoscere con tristezza persino Il Sole 24 Ore, il quotidiano di Confindustria.

Infatti al primo posto della classifica mondiale delle banche, in termini di redditività, si è ormai installata la statale e cinese ICBC (Industrial and Commercial Bank of China), scalzando bruscamente dal primato la statunitense JP Morgan; al terzo posto della classifica di Mediobanca si trova un altro istituto finanziario pubblico di Pechino, ossia la China Construction Bank, seguita da un'altra banca di Pechino, l’Agricultural Bank of China; se al quinto posto della classifica in esame risulta ancora occupato dalla statunitense BOFA, al sesto spunta invece la cinesissima e statale Bank of China.[21]

In questo campo di analisi spicca inoltre un altro dato illuminante, fornito dall’insospettabile società Brand Finance all’inizio del 2017: sempre nel 2016 i marchi delle banche statali cinesi avevano superato per la prima volta in valore e reputazione quelli americani, ancora di proprietà privata anche se salvati nel 2008/2009 dai soldi pubblici e della regola del capitalismo di stato, per cui vige “la privatizzazione dei profitti e la socializzazione delle perdite”.

Secondo l’analisi di Brand Finance, «principale società mondiale di valutazione del marchio (maggiore cespite intangibile delle imprese), la banca col brand più ricco è l’Industrial and Commercial Bank of China: 47,8 miliardi di dollari (Icbc, +32% su 2016, il 20% della capitalizzazione complessiva) che supera l’americana Wells Fargo (41,6 miliardi, -6%) marcata stretta da China Construction Bank (41,3 miliardi, +17%). Usa e Cina si alternano fino all’ottavo posto: JP Morgan Chase, Bank of China, Bank of America, Agricultural Bank of China, Citi. Se 20 anni fa sui primi 100 marchi la Cina era lo 0,2% del valore complessivo, oggi batte gli States 24% a 23%. La Gran Bretagna valeva il 16%, oggi il 6, la Francia il 5% oggi il 4, l’Italia l’1%.

Brand Finance valuta su tre criteri: investimenti diretti o indiretti sul marchio (pubblicità, personale, ricerca e sviluppo); ritorno di immagine presso clienti e stakeholder in genere (tramite sondaggio); volume d’affari. Le banche cinesi hanno una reputazione che quelle occidentali «possono solo sognare». Questi istituti hanno vissuto marginalmente la bufera finanziaria del 2008, hanno una platea di (fiduciosi) clienti e potenziali tali proporzionale alla crescita del benessere nel Paese, su impulso del governo sono al centro di grandi investimenti, domestici e non.»[22]

Altri record logistici e produttivi di un certo spessore, attualmente detenuto dalla Cina sono costituiti da:

-     parco solare di Longyangxia, inaugurato nel 2017 è il più grande del mondo, con quattro milioni di pannelli solari che soddisfano i bisogni energetici di circa 200.000 famiglie;[23]

-     il più grande impianto solare galleggiante, completato nel gennaio 2017 e realizzato nella provincia di Anhui;

-     il ponte più alto del mondo, ossia il Beipanjiang Bridge, alto 565 metri e inaugurato nel dicembre del 2016;

-     la ferrovia ad alta velocità più estesa del pianeta, ossia la Pechino-Canton di 2298 chilometri;

-     il palazzo più grande, e cioè il Century Global Center di Chengdu nel quale potrebbe entrare quattro volte la basilica di San Pietro;

-     l'aeroporto più alto della terra (in Sichuan) e la più elevata ferrovia, in Tibet;[24]

-     sei dei dieci grattaceli più alti esistenti sul nostro pianeta all'inizio del 2018 si trovano in Cina;

-     il ponte più lungo del mondo è quello che collega Hong Kong e l'isola di Macao per una lunghezza totale di 55 chilometri, che è stato terminato nel luglio del 2017.

A questo punto si può passare al processo di focalizzazione sui rapporti di forza creatisi nel decisivo settore della tecno-scienza, che riserva altre sorprese per il lettore occidentale e altre delusioni politiche per il variegato fronte anticomunista che opera tuttora su scala planetaria.

 

 

[1] “USA contro Cina: qual è la prima economia del mondo?”, 1 settembre 2017, in www.risparmiamocelo.it

[2] Central Intelligence Agency, “The World Factbook”, 2016, voce “Country comparison – GDP (Purchasing Power parity)

[3] “USA contro Cina…” op. cit.

[4] “La Cina prima economia al mondo già nel 2014”, 30 aprile 2014, in www.rainews.it

[5] “Un bilancio del mercato cinese dell’auto nel 2016”, 24 gennaio 2017, in www.alvolante.it

[6] “Il futuro è delle auto elettriche e la Cina è in prima fila”, www.linkiesta.it

[7] M. Ecchelli, “Auto elettriche, la Cina è leader nel mondo”, 18 ottobre 2017,in www.omniaauto.it

[8] “La Cina produce il 90% dei cellulari, l’80% dei computer”, 31 ottobre 2017, in www.truenumbers.it

[9] “La Cina produce il 90% dei …”, op. cit.

[10] F. Tamburini, “La Cina supera gli Stati Uniti, ora è la prima potenza commerciale del mondo”, 10 febbraio 2013, in www.ilfattoquotidiano.it

[11] “Cina primo produttore di energia solare al mondo nel 2016”, 6 febbraio 2017, in www.ansa.it

[12] “La rivoluzione delle energie rinnovabili in Cina”, in www.eniday.com; “Idroelettrico: la Cina il primo produttore mondiale”, 16 gennaio 2012, in www.rinnovabili.it

[13] G. Marrucci, “Cemento Rosso”, ed. Mimesis

[14] “Cemento Rosso a Lo Quarter: come la Cina ha trasferito 500 milioni di persone dalle campagne alle città”, 17 giugno 2016

[15] M. De Agostini, “Cina: pioggia di miliardi per diventare una superpotenza nei chip”, 16 novembre 2015, in www.tiomshw.com

[16] L. Cillis, “Spicca il volo il C 919, primo aereo commerciale cinese”, 5 maggio 2017, la Repubblica

[17] A. Savasini, “Cina, in rampa di lancio le mega fabbriche di batterie. E Elon Musk trema”, 30 giugno 2017, in Il Fatto Quotidiano

[18] “In dieci anni i salari cinesi sono triplicati. Ora la Cina è paragonabile al Portogallo”, 28 febbraio 2017, in www.sinistra.ch

[19] “Innovazione e marchi, la Cina prima nel mondo”, 11 giugno 2017, in www.centonove.it

[20] F. Tamburini, “La Cina supera gli Stati Uniti…”, op cit.

[21] A. Fontano, “Banche globali, sorpasso della cinese ICBC su JP. Morgan”, 13 luglio 2017, Il Sole 24 Ore

[22] A. Quarati, “Banche, il marchio cinese vale più di quello USA”, 1 febbraio 2017, in www.themeditelegraph.com

[23] "Funziona a pieno regime il parco fotovoltaico più grande del mondo, in Cina in www.forces.it

[24] G. Santevecchi, "In Cina il tunnel più lungo del mondo, 123Km", 15 febbraio 2014, Corriere della Sera

 

* Capitolo primo del volume Piaccia o no: il Dragone scavalca l’America. Il sorpasso cinese sugli Stati Uniti, di Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli; il libro è pubblicato dalla casa editrice Aurora, (consultabile per intero in www.robertosidoli.net, nella sezione “Pubblicazioni”.

 

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