Marco Paciotti *

 

Lo sbocco imperialista del modo di produzione capitalistico in crisi, cui è connaturato un latente stato di tensione nei rapporti internazionali tra Stati in competizione tra loro per la conquista di sempre più vaste fette di mercato, è parte integrante del patrimonio teorico del comunismo sin dal celebre scritto di Lenin Imperialismo fase suprema del capitalismo, pubblicato nel 1917. Ebbene l’analisi e la critica dell’imperialismo e la lotta per la pace risultano di scottante attualità per chi intenda osservare con sguardo attento la politica internazionale.

Fondamentale allo sviluppo e all’aggiornamento di questi concetti risulta l’analisi dei vari progetti di pace perpetua, che Domenico Losurdo ha delineato in Un mondo senza guerre. Dalle promesse del passato alle tragedie del presente, pubblicato da Carocci nel 2016, testo che ci restituisce un saggio del metodo di Losurdo, sempre volto a calare le elaborazioni teorico-concettuali nel contesto storico-politico che in ultima istanza le determina.

Nel tracciare la storia del tema l’autore non ravvisa una logica binaria e manichea che vede contrapporsi ideali di guerra contro ideali di pace; il conflitto è bensì tra diversi ideali di pace che si confrontano in una dialettica complessa. Essi non vanno posti tutti sullo stesso piano: il principale discrimine riguarda il rapporto con il concetto di universalità, dobbiamo chiederci: essi puntano a una sua estensione oppure a un rimpicciolimento e in definitiva una negazione dell’universalismo?

Punto iniziale della trattazione è il Kant che invoca la “ewiger Friede”, la pace perpetua; ma non è tanto questo il merito del pensatore tedesco quanto quello di essere stato appunto il primo a intendere l’instaurazione della pace definitiva in senso universalistico. È in virtù di questa attenzione che Kant denuncia esplicitamente nei suoi testi la schiavitù come atto di guerra permanente, con l’occhio rivolto ai popoli assoggettati dalle potenze colonialiste come la Gran Bretagna, che diventa bersaglio polemico privilegiato di Kant. Egli dimostra così di aver appreso la lezione fornita dalla Rivoluzione francese – ricordiamo che il testo di Kant è del 1795 – che con la Convenzione giacobina riconosce e sancisce l’abolizione della schiavitù a Santo Domingo-Haiti, conquistata dalla grande sollevazione anti-coloniale guidata da Toissant-Louverture. Inoltre, va sottolineato che Kant distingue espressamente l’ordinamento cosmopolitico da lui immaginato in vista della pace perpetua da ogni progetto di “monarchia universale” che in nome di una pace permanente – una “immerwaehrender Friede” – schiacci sotto il suo dominio altre nazionalità in posizione subalterna (1). Così rimarrebbe deluso chi volesse leggere Kant nell’ottica di una legittimazione delle successive guerre di espansione condotte dalla Francia napoleonica.

È con Fichte che assistiamo a un’ulteriore problematizzazione della questione. In un primo momento egli imputa il flagello delle guerre agli ordinamenti assolutistici degli Stati monarchici, seguendo un leitmotiv caro alla propaganda bonapartista che lo utilizza per giustificare l’espansionismo napoleonico nell’ottica dell’esportazione dei nuovi rapporti politici instaurati dalla Rivoluzione. Sia detto per inciso, questa è una teoria che può essere messa in relazione, prendendo a riferimento un altro contesto rivoluzionario, con il Trockij che, in polemica con Stalin e la dottrina del socialismo in un solo paese, letta come tradimento dell’internazionalismo marxista, propugna una rivoluzione permanente che si ponga l’obiettivo di esportare nuovi rapporti sociali e politici in tutta Europa. Non a caso molti teorici neoconservatori americani provengono da una militanza trotskista dalla quale probabilmente desumono questo tema pur mutandone i termini in una propagazione delle forme politiche liberal-democratiche. Ma rinviando per approfondimenti sul tema all’altro importante testo di Losurdo dedicato alla “leggenda nera” di Stalin (2) e tornando a Fichte, notiamo come quest’ultimo sia capace di mutare prospettiva allorché l’esercito napoleonico sottopone la Prussia a un regime di occupazione militare. A questo punto Fichte, superate le iniziali esitazioni, si fa portavoce del movimento di liberazione nazionale e sviluppa una teoria della rivoluzione nazionale che è al tempo stesso “guerra di popolo”, chiamando alla mobilitazione generale delle masse oppresse e gettando così un ponte verso le rivoluzioni anticoloniali del Novecento (3).

Da parte sua Hegel può tenere conto di tutti questi sviluppi nel tracciare un bilancio critico della rivoluzione francese che vada oltre l’entusiastica adesione di alcuni filosofi del suo tempo. Hegel da un lato si guarda bene dal liquidare tout court la rivoluzione francese, che continua a descrivere nelle Lezioni di filosofia della storia come una “splendida aurora” (4). Dall’altro lato egli sa riconoscere che la Francia è giunta infine alla negazione della pace perpetua allorché ha preteso di incarnare fini e principi generali non preoccupandosi di schiacciare con la forza “sotto tali principi tutti i diritti e le situazioni particolari” (La costituzione della Germania) (5).

All’equilibrio dialettico del filosofo di Stoccarda possiamo contrapporre l’opposizione frontale della Santa Alleanza e dei suoi ideologi. Pure la Santa Alleanza non rinuncia a declinare altrimenti un proprio ideale di pace perpetua, secondo il quale è giusto e anzi necessario intervenire in ogni contesto nel quale soffino venti rivoluzionari, considerati i veri responsabili delle minacce allo stato di pace. Gli stessi sovrani delle potenze riunite nella Santa Alleanza dichiarano esplicitamente di ritenersi investiti di una missione universale nel nome dell’unica vera sovranità, la sovranità di Dio, che trascende ovviamente la mondanità dei confini nazionali. È dunque una universalità non mediata dalla peculiarità nazionali quella a cui guarda l’ideologia della Santa Alleanza, che infatti interviene in Spagna per rovesciare il nuovo ordinamento costituzionale nato dalla sollevazione del colonnello Riego. Non solo, nell’opera di Novalis Die Christenheit oder Europa, da tradurre con “La cristianità ovvero l’Europa”, si rintraccia nella rottura dell’unità cristiana medievale l’origine della guerra (6). Dunque, se da un lato l’ideologia della Santa Alleanza guarda con nostalgia ad un’epoca passata mitizzata e trasfigurata, da un altro lato restringe il campo dell’universalità ai confini dell’Europa intesa come Res Publica Christiana.

Anche per criticare alla Santa Alleanza risulta più che mai calzante l’insegnamento di Hegel secondo cui l’universale è autentico solo nella misura in cui sa “abbraccia(re) in sè la ricchezza del particolare” (7). Ricade dunque in una forma di universalismo immediato ed esaltato chi esige di esportare la restaurazione così come la rivoluzione, universalismo che maschera una forma di empirismo assoluto, nei termini di Hegel, allorchè si conferisce il crisma dell’universalità ad interessi che sono in realtà prettamente particolari ed esclusivi.

Quella hegeliana è una lezione che viene filtrata nel marxismo. Senza Hegel noi leggiamo un “Marx dimidiato” – così Losurdo definisce il Marx anti-hegeliano di Della Volpe e Colletti nel libro sul “marxismo occidentale” (8). Nelle opere di Marx scorgiamo la medesima attenzione riservata da Hegel alla concezione dell’uomo quale Gattungswesen, quale ente generico universale. Alla stessa espansione dei commerci, sulla quale si fonda un’altra concezione di pace perpetua in senso conservatore di cui dirò a breve, Marx riconosce una componente progressiva nella misura in cui essa costituisce un momento della formazione del concetto di genere umano quale ente universale, oltre che una tensione positiva verso l’immane sviluppo delle forze produttive. Da un altro verso, tuttavia, Marx denuncia a chiare lettere la mercificazione e la de-umanizzazione dei popoli sottoposti al dominio coloniale, fenomeno strettamente connesso all’avanzata dei mercati capitalistici. Con gli occhi rivolti all’India, allora colonia britannica, Marx afferma – cito -: “La profonda ipocrisia, l’intrinseca barbarie della civiltà borghese ci stanno dinanzi senza veli, non appena dalle grandi metropoli, dove esse prendono forme rispettabili, volgiamo gli occhi alle colonie, dove vanno in giro ignude” (9).

È una questione, quella coloniale, che viene tagliata fuori dalle riflessioni di quegli autori liberali che elaborano il proprio ideale di pace perpetua: autori quali Benjamin Constant, Thomas Jefferson, e i positivisti Comte e Spencer, o George Washington, che sintetizza questa concezione nel riflettere sull’influenza che il commercio può esercitare sulle formazioni sociali scrivendo: “[…] penso che l’umanità potrebbe stringere legami fraterni come in una grande famiglia. Mi abbandono a un’idea tenera e forse entusiastica: come il mondo è diventato evidentemente meno barbaro che nel passato, così il suo miglioramento potrebbe ulteriormente svilupparsi; le nazioni stanno diventando più umane nella loro politica, i motivi di ambizione e le cause di ostilità stanno ogni giorno diminuendo; infine, non è troppo remoto il periodo in cui i benefici di un commercio liberale e libero prenderanno il posto, nel complesso, delle devastazioni e degli orrori della guerra” (10). Secondo Constant l’estensione globalizzata delle relazioni commerciali aveva già provocato perfino la sparizione dei confini nazionali facendo impallidire l’angusto orizzonte nazionale tipico delle classi meno abbienti, quelle classi che – vorrei aggiungere – ovviamente non disponevano di capitali da far circolare in giro per il mondo. Dunque, secondo questi autori ben lungi dalle “tristi e prosaiche” rivoluzioni era il commercio lo strumento adatto a liberare l’umanità dal fardello delle imprese belliche. Totalmente dimenticate erano le tragedie che le potenze imperialiste stavano producendo ovunque a partire dalle pratiche genocide messe in atto contro i nativi americani dalla nazione commerciale per eccellenza, gli Stati Uniti, nella loro espansione a Ovest. Possiamo citare anche a titolo di esempio i circa dieci milioni di indiani uccisi dalle forze coloniali britanniche durante la repressione della rivolta dei Sepoys (11). E seppure siamo costretti ad ammettere un sia pur timido ripensamento della questione coloniale successivamente in Comte e Spencer, per tracciare un bilancio critico il più possibile esaustivo non possiamo dimenticare che lo spirito di rapina connaturato al modo di produzione capitalistico non scarica la sua aggressività esclusivamente sui popoli cosiddetti “non civili”, bensì la stessa gara coloniale mette in rotta di collisione le borghesie dei vari paesi capitalisti, tanto che – afferma Marx in una pagina del Capitale – alle guerre coloniali si interseca “la guerra commerciale delle nazioni europee”. È uno scenario ampiamente confermato dalla serie di scontri e di conflitti che vede fronteggiarsi le due nazioni commerciali per eccellenza, Stati Uniti e Gran Bretagna, lungo tutto il corso dell’Ottocento, scontri durante i quali non di rado leggiamo autori eletti al pantheon liberale invocare perfino l’annientamento definitivo dell’avversario. E lo scenario tracciato da Marx è ribadito con forza dal socialista francese Jean Jaurès alla vigilia dello scoppio della prima guerra mondiale, poco prima di essere egli stesso assassinato: “Il capitalismo – afferma Jaurès - porta in sé la guerra come la nube la tempesta” (12). Successivamente è Lenin, dirigente dell’unico partito socialdemocratico che non vota a favore dei crediti di guerra, a farsi carico dell’idea che non è possibile realizzare un mondo di pace definitiva senza sradicare le strutture economiche che rendono vantaggioso il ricorso alla guerra. Al contempo egli chiama alla sollevazione gli “schiavi delle colonie”, spingendo Oswald Spengler a dichiarare che la Russia ha gettato via la sua maschera bianca ripudiando la sua appartenenza alla civiltà occidentale e ricadendo nel mondo dei “barbari” (13). Al contrario il rivoluzionario cinese Mao Tse Tung si pone alla guida della sollevazione dei popoli coloniali allorquando, desumendo da Rousseau la parola d’ordine della “guerra alla guerra”, dichiara che: “La guerra, questo mostro che porta gli uomini a massacrarsi gli uni con gli altri, finirà con l’essere eliminata dallo sviluppo della società umana, e in un futuro non molto lontano. Ma per eliminarla vi è un solo mezzo: opporre la guerra alla guerra, opporre la guerra rivoluzionaria alla guerra controrivoluzionaria” (14). In questo programma giacciono le radici del grande processo di apprendimento – non neghiamolo pur tortuoso e accidentato - che ha condotto la Cina, al tempo della dichiarazione di Mao reduce dal secolo delle umiliazioni e invasa dall’imperialismo giapponese, a divenire oggi la seconda potenza economica mondiale dopo aver tratto dalla soglia di povertà assoluta centinaia di milioni di donne, uomini e bambini.

Ma al partito di Lenin si contrappone lungo tutto il corso della guerra fredda il partito di Wilson. I 14 punti presentati dal presidente americano alla conferenza di pace nel 1919 sono informati dall’idea che solo l’estensione a tutti i paesi di istituzioni liberaldemocratiche possa determinare la fine della guerra in quanto tale. Alla base di questo teorema vi è in primis un errore di carattere storico: abbiamo prima menzionato le numerose occasioni di conflitto anche molto aspro tra Stati Uniti e Gran Bretagna, culle del liberalismo. In secondo luogo, individuiamo qui un errore teorico nell’inversione del rapporto di causa-effetto tra dittatura e guerra: Wilson mette sul conto di regimi dittatoriali e assolutistici le cause dello scoppio della prima guerra mondiale e in generale di ogni guerra; epperò – è costretto ad ammettere un certo Kissinger – Germania e Austria-Ungheria erano dotate di istituzioni non meno rappresentative delle potenze dell’Intesa, le quali semmai annoveravano tra gli alleati il regime autocratico della Russia zarista (15). Inoltre, come lucidamente previsto da Keynes, il quale non esita a definire Wilson letteralmente un “impostore” (16), le clausole estremamente vessatorie imposte dalle potenze vincitrici alla Germania sconfitta avrebbero creato il terreno favorevole all’affermazione di Hitler e del nazional-socialismo, quindi sono semmai le conseguenze della guerra a favorire l’affermazione di regimi dittatoriali. Infine, l’ideale apparentemente universalistico di affermazione della democrazia va in Wilson di pari passo con l’accettazione della dottrina Monroe, che altro non è se non una limitazione della sovranità democratica dei paesi del continente americano ad opera degli Usa, che si arrogano in quel contesto un indiscusso potere imperiale. Anche qui siamo in presenza di un universalismo che schiaccia le peculiarità nazionali negando sé stesso. Dati tali presupposti, non dobbiamo sorprenderci dunque se gli Stati Uniti si descrivono come “nazione eletta da Dio”, “unica nazione indispensabile”, investita del “manifest Destiny” di svolgere una funzione di poliziotto o meglio sceriffo internazionale contro i cosiddetti “stati canaglia”, contro i quali sarebbe lecito perfino l’attacco preventivo. In virtù dell’indiscusso strapotere multimediale che accompagna quello militare gli Stati Uniti hanno tentato di legittimare agli occhi della comunità internazionale, attraverso il crasso ossimoro delle “guerre umanitarie” gli interventi contro Panama nel 1989, Iraq durante la prima e la seconda guerra del Golfo, Jugoslavia nel 1999, Afghanistan nel 2001, Libia e Siria negli anni dell’amministrazione Obama, la maggior parte delle quali condotte nonostante il voto contrario del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Guerre definite da numerosi analisti non sospettabili di simpatie radicali come “neocoloniali”, contro nemici di volta in volta etichettati unilateralmente come “dittature sanguinarie”. Così come nell’occhio del mirino sono stati posti paesi come Corea del Nord e Iran, costretti ad un ingente sforzo economico per tentare di assicurarsi un’efficiente difesa militare da tale onnipresente “poliziotto internazionale”. Attualmente – avverte un autore difficilmente catalogabile come sovversivo come Sergio Romano – l’obiettivo strategico dell’amministrazione americana è quello di ritagliarsi la possibilità di un primo attacco senza subire ritorsioni, ciò che attribuirebbe agli Usa un illimitato potere discrezionale sulla vita o la morte di milioni di persone (17). Ricordando Lord Acton, celebre autore liberale che affermava: “Il potere tende a corrompere, il potere assoluto corrompe in modo assoluto” (18), è in conclusione lecito domandarsi: come lottare contro una tale minaccia?

Negli anni si è assistito alle risposte più disparate: molti hanno creduto di abbattere il flagello delle guerre agitando l’ideale dell’ahimsa, della non-violenza gandhiana, dimenticando che nel corso della prima guerra mondiale lo stesso Gandhi arruolava centinaia di migliaia di indiani al servizio dell’esercito britannico, con l’obiettivo di guadagnarsi la benevolenza dell’Impero e una cooptazione nel “popolo dei signori” a danno delle molte minoranze presenti sul territorio indiano; altri hanno ritenuto di rifugiarsi nel mito di una società civile contrapposta alla società politica, società civile presunta come aliena da ogni aggressività e ontologicamente incline alla pace e alla tranquillità. Eppure, già Eisenhower all’inizio degli anni ’60 evidenzia il ruolo di spinta svolto dalle imprese private dell’industria degli armamenti nei confronti dell’amministrazione americana (19). Pensiamo inoltre all’impiego dei contractors, di vere e proprie truppe di mercenari, o alle agenzie di stampa private che inventano di sana pianta notizie al fine di screditare questo o quel capo di stato. Sembra allora necessario cercare altrove le risposte alle minacce del presente.

A tal fine, preme anzitutto ricordare che Domenico Losurdo ha espressamente definito più nobili quegli ideali di pace perpetua carichi di sincero pathos universalistico. Pur implacabile nella critica all’universalismo immediato e astratto che altro non è se non mascheramento di ambizioni imperialiste, per Losurdo dobbiamo guardarci bene dal cadere in una forma di particolarismo reattivo. Al contrario egli ci invita a lottare contro ciò che definisce in termini hegeliani “empirismo assoluto” in favore di un autentico universalismo, che si concreta nel rispetto delle peculiarità nazionali. Traducendo tale proposito in progetto politico: è più che mai indispensabile oggi lottare per la democratizzazione dei rapporti internazionali, non negando le individualità nazionali bensì rivendicando la pari dignità di esse e dei loro diritti. Solo depurando il marxismo del messianismo riflesso dalla teoria dell’estinzione dello stato, nella via tracciata peraltro dagli stessi Marx, Engels e Lenin critici severi dell’anarchismo, e riconoscendo che le realtà statali esisteranno ancora per lungo tempo, beninteso che esse non sono identità naturalisticamente fissate e immutabili bensì in quanto prodotti storici sono soggetti a sviluppi difficilmente prevedibili: Losurdo fa esplicito riferimento anche alle aggregazioni sovra-nazionali o inter-nazionali (20). Solo con tali presupposti il marxismo può essere in grado di scendere dal sacro cielo degli ideali e di superare la prova del realismo politico, facendo evolvere il proprio progetto di pace perpetua, parafrasando il titolo di un celebre testo di Engels, “dall’utopia alla scienza”.

 

Note

 

* Relazione al convegno “Domenico Losurdo, teorico del conflitto e dell’emancipazione” (Roma, 1° dicembre 2018)

 

(1) Kant, Gesammelte Schriften, Reiner, Berlin 1900, vol.8, p.121, cit. in D. Losurdo, Un mondo senza guerre, Carocci, Roma 2016, p.32.

(2) Losurdo, Stalin. Storia e critica di una leggenda nera, Carocci, Roma 2008.

(3) Losurdo, (2016), pp.117-127.

(4) W.F. Hegel, Vorlesungen über der Philosophie der Weltgeschichte, Meiner, Leipzig 1919-1920, p.926, cit. in Losurdo (2016), p.140.

(5) W.F. Hegel, Werke in zwanzig Bände, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1969-79, vol.I, pp.565-566, cit. in Losurdo (2016), p.142.

(6) Novalis, Die Christenheit oder Europa, in Werke, Tagebücher und Briefe, Hanser, München 1978, vol.2, pp.731-750.

(7) W.F. Hegel, (1969-79), vol.5, p.54, in D. Losurdo, (2016), p. 147.

(8) Losurdo, Il marxismo occidentale, Laterza, Roma-Bari 2017, pp. 56-59.

(9) Marx – F.Engels, Werke, Dietz, Berlin 1955-89, vol.9, p.225, cit. in D.Losurdo (2016), p.190.

(10) Washington, A Collection, Liberty Fund, Indianapolis 1988, cit. in D. Losurdo (2016), p.156.

(11) Losurdo, (2016), p.175.

(12) Ivi, pp.191-194.

(13) Spengler, Jahre der Entscheidung, Beck, München 1933, p.150, cit. in D. Losurdo (2016), p.327.

(14) Mao Zedong, Opere scelte, Edizioni in lingue estere, Pechino 1969-1975, cit. in D. Losurdo (2016), p.200.

(15) Kissinger, Diplomacy, Simon & Schuster, New York 1994, cit. in D. Losurdo (2016), pp.195-196.

(16) Losurdo, (2016), pp.231-232.

(17) Romano, Il declino dell’impero americano, Longanesi, Milano 2014, p.29, cit. in D. Losurdo (2016), p. 305.

(18) Losurdo, (2016), p.318.

(19) Ivi, p.337.

(20) Ivi, pp. 344-345.

 

 

 

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