Prima di farci sopraffare emotivamente dagli orrori delle guerre, ormai senza confini degli interessi in atto come pure dei tempi delle loro durate, cerchiamo di riflettere sulla natura da cui hanno origine, sull’effettiva pacificazione che ne dovrebbe conseguire, sulle rispettive soluzioni possibili. La ripubblicazione di analisi effettuate nel lontano 1989, sulla rivista La Contraddizione, mostra non solo il persistente e datato obiettivo genocida da parte israeliana nei confronti della popolazione palestinese, ma offre anche un apparato categoriale con cui leggere la dialettica guerra/pace, entro le contraddizioni reali.

 

L’attualità di tali contraddizioni impone ora il coraggio di prenderne atto, con la priorità di una consapevolezza che non si accontenta di scivolare sul desiderio individualistico di un pacifismo imbelle, né di parteggiare con i belligeranti per appartenenze o ideologizzazioni indotte da capitali più o meno nascosti. Si prova così a contrastare, con la diffusione di massa di ogni strumento disponibile, una deriva democratica che a livello internazionale si sta praticando, quale necessità di questo sistema economico di rapinare con la forza un plusvalore che non riesce più a estorcere per via economico-giuridica.

Carla Filosa

“Come poi questa lotta venga sostenuta; che cosa in essa la virtù esperimenti; se con il sacrificio da lei sostenuto il corso del mondo soccomba e la virtù trionfi ― ciò deve decidersi dalla natura delle armi che gli avversari impugnano. Ché le armi non son nulla di diverso dall’essenza dei combattenti medesimi, essenza che compare reciprocamente soltanto per essi due. Così le loro armi si son già rivelate da ciò che in questa battaglia è in sé presente” (G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito).

.           La lotta di classe non c’è più. Ossia: c’è ma non si vede. Non si vuol far vedere. Giacché a condurla è la borghesia. Ogni antagonismo classista è occultato. La lotta di classe è stata rimossa. (Nei numeri scorsi abbiamo sollevato la questione. Ciabatti, Macchioro, Sassi, hanno messo il dito e affondato il coltello nella piaga).

Ma la piaga è ancora più vasta e molto più profonda. Non solo l’antagonismo e la lotta di alasse sono caduti in desuetudine ― nella cosa e nella parola. La tendenza in auge si prova a far sparire ogni forma di antagonismo e di lotta, in quanto tali. Questo è il punto. E su questo punto conviene richiamare l’attenzione. È una questione che segna le sorti del comunismo. Essa è in se stessa strettamente correlata alla cosiddetta “crisi del marxismo”. Ovverosia, come noi preferiamo dire, all’aggressione violenta contro il comunismo e il marxismo. Aggressione, codesta, che non proviene solo dall’esterno. È anche un tarlo annidato tra molti di coloro che ― una volta, prima dell’atto di dolore e di pentimento ― dicevano di curarsi amorevolmente delle magnifiche sorti, e progressive, della rivoluzione comunista e dei suoi fondamenti scientifici.

.           Bella prospettiva, questa! Non c’è da stupirsi che la lotta di classe non appaia più. Ma qui ormai non si tratta di una determinazione originaria, bensì di una conseguenza. Semplicemente, non può manifestarsi lotta di classe, qualora sia la classe in quanto tale ― la cosa, il concetto e la parola ― a essere arbitrariamente e maliziosamente cancellata dal contesto dominante e dal vocabolario vigente. Cancellata insieme ad altre realtà connesse: lo sfruttamento, l’imperialismo, la crisi, la rivoluzione, il comunismo, e via rimuovendo con la forza delle parole che penetrano le masse.

Al suo posto, al loro posto, subentrano altri concetti e determinazioni, nuovi ma vecchi. Cose e parole resuscitate dall’oltretomba della rigatteria interclassista. Ah! l’“interesse nazionale” ― superiore, naturalmente. Già Marx ― in conclusione della sua critica del capitale ― mostrava come non vi fosse nulla di più stupido e sbagliato, “una falsa astrazione”, del rappresentare l’economia nazionale di una società “organizzata capitalisticamente, come un corpo collettivo che lavora unicamente per i bisogni nazionali”. Ma questo insegnamento non è servito a nulla. Di tale erroneità e stupidità, i Lama e i Napolitano, о il “tre volte santo Berlinguer”, per non dir dei crassi ochetti, hanno fatto le loro bandiere. Se ne sono serviti per denunciare agli occhi del proletariato stesso quanto grande fosse la “cattiveria” di Marx ― vecchio brontolone fegatoso dell’ottocento, costituzionalmente incapace di comprendere la modernità o, forse, la post-modernità. A tal punto che alcuni di costoro si sentono debitori nei confronti suoi, e del suo nome, ancora solo di un monumento ― anzi, di una lapide.

Il superiore interesse nazionale, dicevamo. Sotto il suo vasto mantello sacrificale si celano, una dietro l’altra, responsabilità, compatibilità, solidarietà. Peggio delle stesse utopiche parole d’ordine antico-borghesi: chi si ricorda di libertà, uguaglianza, fraternità (e Bentham)? Craxi, forse, che impersonando la parte del perfetto idiota (= semplice cittadino inesperto di cose pubbliche), le ha scelte ― con l’effigie della frigia Marianna ― per la tessera del Psi 1989 (o del 1789? non ricordiamo bene: che socialisti, quei borghesi francesi!). Engels e Marx ― fin dall’epoca del loro antico manifesto ― denunciavano come reazionario, senza mezzi termini, il socialismo borghese e piccolo-borghese, “mezza geremiade e mezza pasquinata”. Era già quello di allora il socialismo conservatore di coloro che “vogliono le condizioni di vita della società moderna senza le lotte e i pericoli”, “senza gli elementi che la rivoluzionano e la dissolvono. Vogliono la borghesia senza il proletariato”. Il lato buono senza il “lato cattivo”. Dopo centoquarant’anni, nulla di nuovo sotto il sol dell’avvenire.

Con quali altre “parole” si convincano le masse lavoratrici a raggiungere siffatti superiori obiettivi, ognun lo sa. Partecipazione, concertazione, relazioni industriali (moderne ed efficienti, naturalmente), fino a volontariato, pluralismo e pacifismo (che non ha nulla a che spartire, quest’ultimo, con le reali aspirazioni alla pace, come ha chiaramente messo in luce Paolo Rizzante, nell’ultimo editoriale di “Ideologia proletaria”, dicembre 1988). Insomma, con quelle e altre parole, siamo buttati nel mezzo dell’orgia del neo-corporativismo, sulla cui denuncia Ciabatti ha insistito, senza esitazioni, in tutti i numeri di “La Contraddizione”.

Ecco, dunque, che ci riaccostiamo al nocciolo del problema. Si rimuovono le classi e la lotta tra le classi, e di lì si va oltre. L’intera società civile è rappresentata in termini “contrattualistici” e post-contrattualistici. Il “contratto sociale” ― caricatura rousseauiana, in una versione debole e post-moderna ― non prevede antagonismi, se non per anomalie, non tollera conflitti, se non per malizia. La concezione di una società in sé non conflittuale è riproposta alle masse come eternizzazione del modo di produzione capitalistico ― ovviamente post-industriale, pluralista e comunicativo. Il conflitto reale, però, è ineliminabile. Allora le classi dominanti sono costrette a occultarlo. Da un lato, ne fanno un loro monopolio, per quegli aspetti che contano, per la contraddizione principale. Dall’altro, per le contraddizioni secondarie, lo lasciano scorrere in differenti rivoli poco impetuosi, о comunque controllabili, parziali e circoscritti. Svelare questo duplice travisamento, connettere i due momenti e impugnare la contraddizione, è compito urgente.

.           Ogni forma di antagonismo sembra scomparsa. Vogliamo dire: sembra essere fatta sparire dai sistemi sociali in quanto tali. Ovverosia, essa è obliterata rispetto alla sua qualità di forma immanente, intrinseca e necessaria, ai sistemi stessi e al loro divenire. Il divenire medesimo è ignorato dalla metafisica del senso comune. Dunque, ogni forma determinata di antagonismo è rabbassata a mera insorgenza esteriore di conflittualità. Il sillogismo borghese parte dalla inevitabile constatazione empirica dei conflitti reali. Dunque, i conflitti ci sono. Pertanto, sono possibili. Ma, proprio in quanto possibili, sono non necessari, conseguenza di errori. Probabilmente, sono frutto di errori di comportamento delle parti sociali che li accendono, per incuria о per malizia. Come tali, sono eliminabili. Gli stessi protagonisti del conflitto ― gli antagonisti maliziosi del Sistema ― possono dunque essere eliminati. Il linguaggio del senso comune integra tali tautologie mal poste.

Il giornalismo di massa è la più adeguata e compiuta rappresentazione di codesto linguaggio. Ciò accade ormai anche quando il senso del discorso vorrebbe essere diverso. La notizia dell’ennesima uccisione di palestinesi da parte dell’esercito sionista nei territori occupati è chiara. Netta è anche l’attribuzione di responsabilità all’esercito israeliano, da parte dello stesso cronista. Ma il resoconto titola: “La guerra dei sassi fa altri morti”. La verità è travisata, la responsabilità è resa impersonale e capovolta. L’opinione delle masse è sviata. Il senso comune è soddisfatto. È la “guerra” che “fa” i morti. La guerra è “cattiva”, ma può essere evitata. Basta appellarsi, forse, agli uomini di buona volontà. (Come ormai preferisce fare, in altre occasioni, anche - per noi compianto - Goffredo Fofi). L’importante, qui, è che la contraddizione sia esorcizzata, l’antagonismo eliminato. E, con questo, siano eliminati gli antagonisti scomodi!

Il riscontro pratico è ancor più generale. A esempio: la guerra. E la pace. Riprendiamo solo un momento la recente giusta critica del pacifismo borghese, dianzi menzionata. La preponderanza attuale degli appelli interclassisti a una pace astratta spinge a coglierne solo gli aspetti più marginali e spettacolari. Quella posizione è caratterizzata da un irrazionalismo di fondo. Giustamente codesto movimento è stato chiamato “pacifismo fondamentalista”. Esso è affiancato da un “ecologismo dogmatico”, altrettanto incapace di esprimere alternative reali e pratiche. Giacché, da un lato, entrambi riducono la reale e intrinseca portata antagonistica del movimento rispetto al sistema di potere. Anzi, quest’ultimo utilizza proprio l’irrazionalismo del pacifismo, per ricercare la composizione delle contraddizioni sociali. Almeno finché ciò gli consente di dissimulare l’antagonismo immanente. Dall’altro lato, appunto, tale dissimulazione è possibile finché l’irrazionalismo del pacifismo borghese ignora la “mediazione”. Sulla determinazione di “mediazione” occorrerà tornare. Qui essa rappresenta innanzitutto due qualità. La prima, quella della politica, è rifiutata proprio in nome del radicalismo fondamentalista. Ma la “politica” esprime precisamente quella forma di antagonismo che è una contraddizione immanente al sistema sociale. Nondimeno, c’è una seconda mediazione che il pacifismo universalistico tende a rimuovere. Come tale, anch’essa mediazione è squisitamente antagonistica. È la guerra stessa, come opposto della pace. Il comunismo non vuole la guerra. Ma sa che per avere la pace occorre passare attraverso la guerra scatenata dall’imperialismo. Non rifiuta la guerra di classe. Il pacifismo astratto, al contrario, nega la contraddizione, l’antagonismo, la lotta: così disarma le masse.

Attraverso siffatta ideale pacificazione universalistica vengono fatte cadere le contrapposizioni tra forme politiche inconciliabili, sistemi sociali opposti, modi di produzione antitetici, concezioni della storia e formulazioni teoriche escludentisi. Da Marx a Mao, passando per Engels e Lenin, fu stabilito che la concezione materialistica della storia non potesse sopportare confusioni con quella idealistica. La medesima osservazione doveva valere per ogni teoria materialistico-dialettica rispetto alle filosofie idealistico-metafisiche. Il modo di produzione capitalistico deve perire per dar vita al modo di produzione socialista, e poi alla comunità dei produttori. A chi si richiama a forme politiche della transizione socialista, più о meno “reale”, non è consentito dimenticarne le peculiarità e annullarne le contrapposizioni di contro alle forme politiche della società civile borghese.

Chi oggi esaminasse alcuni risvolti pseudo-teorici della perestrojka gorbacioviana (“Berlinguer aveva ragione” ― hanno riconosciuto i russi!), a mo’ d’esempio, vanamente cercherebbe di rintracciarvi codeste peculiarità e contrapposizioni. Non si tratta qui di evidenziare una critica globale al nuovo corso sovietico: non serve e sarebbe inopportuna. Ma c’è un sintomo che la dice lunga: ogni antagonismo sarà proibito. All’interno, lo sviluppo storico della società non ritiene di far più leva sulle contraddizioni e sulla lotta di classe (contro tutti gli insegnamenti scientifici del marxismo). Ma quel che è più, all’esterno, il sistema sociale dei soviet, о quel che resta di esso (quale che sia il livello cui oggi esso è stato rabbassato), nel concetto stesso non è più posto in forma antagonistica al sistema sociale del capitale (imperialistico). Si può dare “differenza” di intenti, di obiettivi, di percorsi. Ma nessun antagonismo immanente sarà dato!

Gli esempi però sono poca cosa, tanti sono quelli che si possono trovare.

.               Il problema generale è comprendere l’immanenza della lotta. L’antagonismo, la collisione, il conflitto, sono proprietà immanenti a ogni sistema sociale ― sue categorie teoriche intrinseche. Avvertiva Marx ― già nella critica a Proudhon ― che ogni formazione economico-sociale, se la si giudica correttamente, deve essere considerata come determinata da un modo di produzione fondato sull’antagonismo. Ciò che occorre mostrare è come la ricchezza, le forze produttive del lavoro, le trasformazioni sociali, si sviluppino entro codesto antagonismo. Ed è ciò che ancora oggi gli ideologi sicofanti e gli intellettuali dominanti evitano accuratamente di mostrare, per soddisfare servilmente il potere (e il loro proprio tornaconto). Ancora Marx osservava che, quanto più l’antagonismo viene alla luce, tanto più i rappresentanti teorici della borghesia entrano in conflitto tra loro e con le loro teorie.

Tuttavia, non è necessario farsi soccorrere da Marx per comprendere l’immanenza della lotta. Si sa, il marxismo sta con il “lato cattivo” della società. La furia dissimulatrice delle concezioni borghesi è tale da aggredire anche gli insuperati insegnamenti hegeliani: la dialettica è “scandalo e orrore” per la borghesia, come diceva Marx. Per tale via il pensiero dominante persegue la sua vendetta su Hegel, il critico del formalismo kantiano. La caricatura di quest’ultima concezione ― condita con qualche dose di irrazionalismo ― fornisce al potere materia prima per esorcizzare ogni antagonismo intrinseco.

Già, perché fu proprio Hegel a non avere dubbi circa il fatto che il dominio è qualcosa di qualitativo che implica contesa e lotta. Ma siffatta formulazione del potere medesimo poteva tornare comoda, se mai lo fu, alla borghesia in ascesa. Non, di certo, nella sua discesa. Dunque, per essa è questione impellente il celarla, falsificarla, travisarla, irriderla. È nella lotta primigenia che il “signore” mostra l’essere come potenza che domina, e che pesa sull’altro individuo a lui opposto, il “servo”. Ma è il servo che, col lavoro, si rapporta alla cosa e, trasformandola, la media per il signore. L’indipendenza del servo è la sua dipendenza dal signore. Ma codesto è appunto un rapporto antagonistico. Attraverso tale antagonismo, e attraverso la paura del signore, inizia a svilupparsi la sapienza e la coscienza del servo, come verità della coscienza del signore. La serietà dell’azione ― avverte Hegel ― nasce in generale solo da contraddizioni che spingono a superare e a vincere l’uno о l’altro dei lati. La mancanza di azione e di movimento, viceversa, caratterizzano la quiete, che è assenza di situazione.

Ora, nella rappresentazione che ne dà il potere, la contraddizione che genera l’azione, e la sua stessa serietà, è rimossa. Giacché la contraddizione ― ogni contraddizione ― è qui, in questa società borghese, l’espressione del dominio capitalistico. Dominio che pesa sui produttori e ne viola la libertà. Sulla violazione, appunto, si fonda la collisione. Questa segue alla lotta tra gli opposti e contiene i presupposti e gli inizi per un’azione. Tutto ciò è nascosto dal potere, dai suoi ideologi e dallo stesso senso comune, formato dalla comunicazione di massa.

Il sedicente senso comune, о buon senso ― nota ancora Hegel ― rigetta l’inseparabilità stessa degli opposti (prima ancora della loro necessaria lotta, dunque). Ciò avviene perché questa determinazione teorica fondamentale è confusa per il fatto che la coscienza comune porta in sé qualcosa di concreto, sovrapponendolo nella maniera e nel momento sbagliato a quella determinazione teorica. Certo, non v’è dubbio che la concretezza abbia il suo peso e che su di essa il cosiddetto senso comune riesca a separare empiricamente elementi opposti, tra di loro e rispetto alla loro totalità. Ma è proprio codesta confusione che va criticata sulla base della ragione e della riflessione teorica. Si potrebbe d’altronde invitare quel sedicente buon senso a scoprire un solo esempio in cui gli opposti si trovino separati. Col grande umorismo di cui era capace, Hegel fece notare come perfino in dio, che è l’infinito, la sua qualità ― cioè la creazione, l’attività, ecc. ― contiene la determinazione del negativo, che consiste nella produzione di un altro. Provatevi a dire ai nostri babbei che anche il loro dio è contraddizione e lotta!! Dianzi, a proposito della critica alla separazione borghese di pace e guerra, è stato notato il rifiuto fondamentalista della “mediazione”. È appena il caso di rammentare che la mediazione esprime il rapporto della forza all’interno della totalità contraddittoria. È il riferimento all’altro, l’opposto. È il risultato della sua negazione nella lotta. Non è certo la pura e semplice composizione pacifica dei contrasti, come l’intendono le anime belle del cosiddetto senso comune.

.           L’incomprensione delle contraddizioni conduce alle differenze. Vediamo ora come questa incomprensione sia affatto generale. Essa coinvolge l’intero arcobaleno dei movimenti “sghembi” (così come li chiama con asimmetrico amore Lidia Menapace, e come ne critica l’allegra confusione Costanzo Preve). Codesti movimenti, al di là delle parole impiegate impropriamente, non sono contraddittori. Anziché su contraddizioni immanenti, essi sono articolati appunto su “differenze” più naturalistiche che sociali ― pacifismo fondamentalista e ecologismo dogmatico, femminismo separatista e integralismo religioso, radicalismo di etnie e razze, e via “differenziando”. Allora è della massima importanza comprendere ciò che distingue una “contraddizione” da una “differenza”. Giacché, riposando sulla suddetta confusione, l’antagonismo e la lotta, ancorché possibili, non appaiono più come necessità. Le antitesi ― come ironizza Marx contro Proudhon ― diventano antidoti. Talché l’incomprensione in parola travolge non solo quei movimenti sghembi, ma altresì i loro ideologi e i teorici che li sostengono e difendono ― anche “a sinistra”. Di che?

Questi teorici illuminati ― moderni eredi del socialismo di Dühring ― ripropongono una “teoria della violenza” altrui, cui contrapporre la propria non-violenza. Sono i profeti disarmati dell’opposizione inessenziale e “casual”, dell’antagonismo “firmato”, della lotta “prêt-à-porter”. Questi teorici ― per dirla con la critica di Marx alla miseria della filosofia ― pensano di combattere seriamente la pratica borghese e sono più borghesi degli altri. Essi rappresentano quella tendenza umanitaria e filantropica che, per mettersi la coscienza a posto, vuole alleviare i contrasti. Ma, appunto, nega la necessità dell’antagonismo. Vuole realizzare la teoria, per quel tanto che è distinta dalla pratica e che non contiene antagonismi. Perciò fa astrazione dalle contraddizioni che si incontrano a ogni momento nella pratica reale.

Mesi fa, su “La Contraddizione”, accennammo incidentalmente alla trasposizione della contraddizione in differenza. L’occasione fu offerta l’otto marzo da un inopportuno intervento di Natta sulla questione femminile. Talché ci provammo a immaginare l’insofferenza critica non solo di Marx ma di Hegel medesimo, a fronte di tanto superficiale conformismo post-moderno. Ora è bene riprendere quell’esempio, generalizzandolo. Dappoiché non riguarda solo il femminismo, come detto, ma tutto il variopinto coacervo di sghemberie alla moda. Tanto per aggiungere esempio a esempio, basti pensare alla rappresentazione mistificata che la comunicazione di massa confeziona per i conflitti internazionali. Non è solo essa, tuttavia, che mira a togliere l’immanenza delle forme capitalistiche dell’antagonismo sul mercato mondiale. Da più parti si accreditano, così, le tesi delle, praticamente inevitabili ma teoricamente evitabili, differenze di religione, di etnie, di ideologie ― dal Golfo Persico all’Afghanistan, dal Libano alla Palestina, dall’Irlanda all’Euzkadi, ecc. (Essendo scomparso, per ora, il matriarcato ci è stato momentaneamente risparmiata la rappresentazione di guerre sessiste! Il loro ambito conflittuale, non bellico, è perciò circoscritto alla “guerra” quotidiana nell’ambito della società e della famiglia). Scendendo più giù in esemplificazioni quotidiane si aggiungono alla casistica sghemba i conflitti per le mense scolastiche e aziendali (laddove c’è purtuttavia qualcosa di intrinsecamente strutturale), le beghe di quartiere per il traffico e il commercio, le risse di rione, fino alla violenza negli stadi. Cosicché il sedicente senso comune è soddisfatto di potersi crogiolare nel riconoscimento dell’immediatezza della quotidianità.

È facile vedere, per chi sa e vuole vedere, quanto tale sensazione della vita quotidiana sia distante, antitetica, rispetto alla comprensione scientifica della relazionalità sociale. Marx stesso ne parla, a proposito del travisamento che, nel modo di produzione capitalistico, fa trasporre l’oggettivazione in alienazione. Anche i migliori rappresentanti della critica intellettuale rimangono impigliati in quel mondo dell’apparenza da essi criticamente dissolta. Cadono nelle contraddizioni non risolte, espresse dalle idee quotidiane degli agenti effettivi della produzione. Marx definisce simile atteggiamento una vera e propria “religione della vita quotidiana”. In tempi più recenti, Lukàcs ha ripreso la critica all’immediatezza della quotidianità. Non basta certo “democratizzarla”, questa vita quotidiana! Ovverosia: una effettiva democratizzazione diverrebbe tale soltanto allorché si capisse che “questa” vita quotidiana va liberata dalle scorie dell’immediatezza del senso comune. La dialettica di questa contraddittorietà tra la vita quotidiana da un lato, e la scienza e l’arte dall’altro ― sostiene Lukàcs ― è sempre una dialettica storico-sociale. Per arrivare a una interpretazione scientifica della realtà occorre dunque criticare il senso comune e abbandonare il terreno immediato della vita quotidiana.

Il mancato superamento dialettico dell’immediatezza conduce a una duplice trappola. Prima, sotto la spinta del “ritorno al privato”, ci sono caduti i marxisti culinari, eclettici e approssimativi, stanchi di un impegno teorico-politico superiore alla loro storia, alle loro forze e ai loro desideri. Poi, proprio costoro, pentitisi dei loro trascorsi pseudo-marxisti, oggi usano siffatta quotidianità del senso comune come trappola polemica contro il marxismo stesso, di contro all’oggettività rivoluzionaria comunista.

Veniamo al dunque, al rapporto gerarchico tra contraddizione (immanenza dell’antagonismo e della lotta) e differenza (accidentalità e non necessità del conflitto). Che tutte le cose siano diverse tra loro è una proposizione superflua ― avverte Hegel nella sua inoppugnabile logica ― poiché nel plurale di cose sta immediatamente la pluralità e l’affatto indeterminata diversità. La diversità come tale nella sua astrazione è dapprima indifferente rispetto all’eguaglianza e ineguaglianza. Il differente sussiste come un diverso reciprocamente indifferente, perché è identico con sé. È quello che è, appunto, soltanto nel suo opposto, l’identità.

Può essere interessante individuare a questo proposito, per inciso, l’inveramento pratico e la genesi politica delle sghemberie differenzialiste. C’era una volta il ‘68, che ora si è capovolto nell’89. (Noi aspettiamo con fiducia che le postmoderne virtù cabalistiche siano capaci almeno di invertire il prossimo ‘92 nel pregresso ‘29). Comunque, restiamo all’oggi. Il sessantotto ha generato gli orfani dell’egualitarismo, quelli che allora rivendicavano l’uguaglianza sociale come meta da conquistare con le lotte. Chiuse malamente codeste lotte, costoro oggi ― nel bicentenario del trionfo borghese ― pongono l’uguaglianza naturale tra gli individui liberi e affratellati. Se non andiamo errati, è biblico l’insegnamento secondo cui gli esseri umani, ancorché differenti tra loro, nascono tutti uguali. Sono tutte “creature del signore”. Insomma, saremmo tutti uguali, “dalla scimmia ... fino a Goethe!”, come osservava Engels. Ossia, saremmo tutti qualitativamente identici: e dunque tutti differenti. La “presa d’atto” delle differenze naturali diviene l’espressione debole attuale dell’egualitarismo. L’egualitarismo si trasmuta in differenzialismo, in un afflato biblico universalistico. Nell’indifferenza delle differenze non è necessario l’antagonismo: ognuno per sé e dio per tutti. La diversità reale è astrattamente riguardata come uguale potenzialità e indifferente identità.

Cosicché è l’identità che si rompe in lei stessa in diversità, perché, come assoluta differenza in se stessa, si presenta come il suo proprio negativo. La differenza non è, perciò, riferimento a altro fuori di lei. È la negatività di se stessa, la differenza non da un altro, ma di sé da se stessa. Non implica alcun passaggio, alcun movimento, alcuna collisione. È quel nulla che viene detto col parlare identico. Talché, neppure l’opposizione, che è bensì possibile, comporta in quanto determinazione reale la necessità dell’antagonismo. I suoi momenti sono determinati l’uno mediante l’altro e si escludono reciprocamente.

.           Solo nella contraddizione cade giù l’indipendenza. Sono infatti i due poli opposti ― il positivo e il negativo ― che costituiscono l’esser posto dell’indipendenza. Ciascuna delle determinazioni opposte, nel porsi, si toglie e pone il suo contrario. Così, la determinazione della totalità, che riflette l’antagonismo e la lotta reali, è la contraddizione. Conclude Hegel, dunque, che le prime determinazioni riflessive ― l’identità, la diversità e l’opposizione ― si raccolgono in quella determinazione in cui esse trapassano come nella loro verità, cioè la contraddizione.

Epperò non si tratta di ignorare le “differenze”: sarebbe sciocco. Ma è ancora più sciocco e superficiale fermarsi alla considerazione superflua, immediata e tautologica, di cotali differenze ― all’identità costituita dalla semplice differenza riferita a se stessa e non a un altro. L’unica via è sviluppare le differenze in questione fino alla contraddizione. Si tratta di raddrizzarne le forme sghembe e secondarie, e porle in ordine di subordinazione gerarchica alla contraddizione principale, la contraddizione di classe del modo capitalistico di produzione.

Questa ricerca di gerarchia è proprio ciò che evitano di fare gli intellettuali illuminati sottomessi all’ordine costituito del sapere borghese. Se sotto altri riguardi è di gran rilievo distinguere tra un razionalismo materialistico e uno formalistico, e tra questi e le tardive riscoperte irrazionalistiche, a nulla giova tale specificazione per la questione qui dibattuta. Tutte le tendenze moderne e post-moderne ― fino alle più pure e formali ultime espressioni di un neo-kantismo falsamente materialistico ― arrivano al massimo a stabilire “strutture” о “sistemi complessi”, dove albergano interdipendenze anodine, circolarità inespressive e concausalità prive di concetto. I più eruditi rappresentanti di tali tendenze deboli sembra quasi che giungano a sfiorare le affermazioni della metafisica sulla reciproca dipendenza degli elementi di un insieme: secondo cui, se venisse distrutto un granello di polvere, rovinerebbe l’universo intero!

Non sanno che altro dire. All’eclettismo accompagnano un sincretismo agnostico. L’importante per loro è esorcizzare la necessità della lotta, e al più concentrare la loro coscienza infelice sulla casualità dei “differenti” conflitti. E comunicarla, come surrogato dell’azione. Il divenire delle forme sociali, le trasformazioni e il progresso della storia, sembrano non riguardarli direttamente. Non possono riguardarli, in quanto tali. Tutto il loro interesse è rivolto al progresso tecnico-scientifico, che è una parte importantissima della storia sociale dei modi di produzione, ma non la esaurisce di certo, né la spiega. Si fa un gran caso di siffatti fermenti intellettuali della modernità e post-modernità. Ma, in ultima analisi, scopo di tutto questo vasto dibattito politico-intellettualistico è l’attacco al marxismo. Sotto questo riguardo, la nauseante ricorrente proposizione del tema della cosiddetta “crisi del marxismo” può ricevere una critica forte. Gli intellettuali organici alla borghesia, con il sostegno servile di uno stuolo di teorici pentiti, cercano così di prendersi gioco dei “marxisti in crisi”.

Semmai, sono proprio le saccenti affermazioni di quei servi sciocchi dell’ideologia dominante a richiedere una verifica. La loro pallida aspirazione all’armonia sociale ― о alla “differenziazione” casuale dei conflitti, il che è lo stesso ― è ipocrita о stupida. È divertente come codesti eruditi stiano decenni indietro rispetto alle percezioni satiriche dei nostri migliori comici d’annata: dal Fo del “tutti uniti, tutti insieme ... scusi ma quello non è il padrone?”, al Villaggio-Fantozzi-Hyde del “cari padroni, siete troppo buoni ― speriamo che giunga la settimana lunga”, all’Altan-Cipputi del “la lotta di classe è roba d’altri tempi ― sarà meglio avvisare l’Agnelli, che non continui all’oscuro di tutto”.

Il marxismo, come scienza critica e pratica dell’antagonismo e della lotta, non ha motivo di crisi. È occultato nel pensiero dal sapere dominante, e nella prassi dalla comunicazione di massa. Con un po’ di umorismo, ironizziamo sui “Tui” pensierosi e sconvolti. Con un po’ di odio, critichiamo praticamente i centri del potere imperialistico. Mettiamo ordine alle contraddizioni in cui far trapassare le differenze. Sveliamo il marxismo come teoria degli antagonismi e pratica delle lotte.

Gianfranco Pala

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