Francesco Schettino

 

[Ringraziando l’autore per avercelo segnalato, riproponiamo questo testo, pubblicato da “La Contraddizione online”, 2017, n. 24, poiché, pur non condividendone tutte le valutazioni, lo consideriamo un contributo di grande interesse e di estrema attualità a fronte delle persistenti tendenze politiche regressive che accompagnano una crisi economica anch’essa persistente e sempre più chiaramente sistemica.]

 

9 novembre 2016: una data che difficilmente sarà dimenticata negli anni che verranno. Media europei e giornali di tutto il mondo hanno osservato con un malcelato sgomento l’elezione di Donald Trump alla presidenza dello stato capitalista più potente al mondo, gli Usa.

La palese collocazione all’estrema destra del neopresidente – appoggio del Kkk, libri con i discorsi di Hitler sul comodino, come ebbe a dire l’ex moglie – non è stato un elemento sufficiente a permettere a Hillary di divenire la prima donna presidente degli Stati uniti (con il cognome del marito, aggiungiamo noi). Considerata genericamente come la candidata dell’establishment, nonostante il sostegno ricevuto da tutti i settori della “cultura” a stelle-e-strisce (e non solo), la sua sconfitta è stata significativa, sebbene il divario in termini di voti ricevuti l’abbiano vista prevalere per circa 2mln di unità, che non è esattamente una cifra di poco conto. Fiumi di inchiostro sono stati versati e di pacchi di parole sono stati inondati tutti i media (asocial compresi) sostenendo tesi e teorie spesso in evidente bisticcio logico e densi di incoerenze frutto di veline passate dalle diverse cordate del capitale in crescente conflitto. Quel che ci proponiamo in questo articolo è, da parte nostra, dar seguito alle promesse fatte nella nota preliminare che alcuni mesi fa abbiamo pubblicato sul blog della rivista (http://rivistacontraddizione.wordpress.com), tentando di fornire una chiave di lettura di classe per le vicende più recenti. Per questo, è di prioritaria importanza provare a fornire una sorta di radiografia delle patologie del capitale contestualizzando i recenti accadimenti (solo apparentemente) di natura politica all’interno della fase critica che l’imperialismo mondiale sta subendo da mezzo secolo e, in maniera ancor più violenta ormai da un decennio.

Già dalla fine dell’anno 2008, ossia dalle settimane che seguirono il crollo di Lehman Bros., e dunque dai momenti appena successivi all’emersione dell’ultima crisi reale – violenta appendice di quella iniziata già agli inizi della decade ’70 –, in palese controtendenza con l’ottimismo di tanti settori della sinistra di classe, evidenziammo l’assenza di una classe subordinata “per sé”, ossia cosciente del suo ruolo storico, avrebbe potuto generare tendenze del tutto opposte a quelle auspicate, nonostante l’arresto dell’accumulazione a livello mondiale. Non a caso, parlammo più volte della necessità di analizzare correttamente la fase attuale nella sua accezione non rivoluzionaria per poi procedere alla progressiva elaborazione di un programma minimo (in questa ottica va letta la pubblicazione dell’omonimo testo di Gamba e Pala a cura del collettivo della Contraddizione, La Città del sole, Napoli, 2015); il nostro obiettivo consisteva, in sintesi, nell’individuare un percorso che, tenendo adeguatamente conto della fase fortemente sfavorevole alla classe subordinata (a livello mondiale e non solo locale), riuscisse a raccogliere alcuni punti attorno a cui permettere quella accumulazione delle forze residue necessaria, al di là di tanti sparuti volontarismi individuali, alla ripresa di lotte significative. Inutile dire che, nonostante iniziali manifestazioni di interesse, per diverse ragioni – non ultima quella del superiore fascino della praticoneria sul complesso e “noioso” processo analitico della realtà – tale appello sia restato praticamente del tutto inascoltato. Ma, aggiungiamo, non è mai troppo tempo per iniziare un nuovo percorso.

Nel frattempo il capitale mondiale, però, non incontrando opposizioni all’altezza, oltre a quelle sviluppatesi violentemente dall’interno della propria classe, sembra aver revisionato alcuni gangli cardine del sistema, generando dunque un assetto di potere per alcuni versi nuovo, almeno in apparenza, e certamente più adeguato alla fase. Uno dei fenomeni più pericolosi per il capitale, svelatosi nell’ultima drammatica decade, ossia quello della progressiva rarefazione della classe media (quella che Marx chiamava “lower middle class”) e la sua nuova collocazione negli originari ranghi del proletariato al limite della sussistenza è stato gestito sino ad ora, tutto sommato, in maniera non troppo traumatica in ogni parte del mondo dalla classe proprietaria delle condizioni di produzione. Non si tratta un meccanismo molto diverso da quello già illustrato da Marx ed Engels nel Manifesto dei comunisti per cui “Quelle che sono state fino ad ora le piccole classi medie dei piccoli industriali, negozianti e rentiers, degli artigiani e dei contadini proprietari, finiscono per scendere al livello del proletariato; in parte perché il piccolo capitale di cui dispongono non è sufficiente all’esercizio della grande industria e soccombe quindi nella concorrenza coi grandi capitalisti; e in parte perché le loro attitudini e abitudini tecniche perdono di valore in confronto coi nuovi metodi di produzione. Così il proletariato si va reclutando in tutte le classi della popolazione”. Del resto, come ci ha già insegnato la storia, in altre situazioni assimilabili, lo “spodestamento” dell’aristocrazia operaia di certo non si traduce schematicamente in fenomeni rivoluzionari ma, al contrario, spesso determina – se lasciato a sé – svolte altamente conservative o di vera e propria reazione: la genesi del fascismo e del nazismo, con i dovuti distinguo, da questo punto di vista, rappresentano casi esemplari. In altri termini, lo svelamento della legge generale dell’accumulazione che, specie in fasi di crisi, genera ancor più evidentemente “accumulazione di miseria insieme a accumulazione di capitale” (ciò che correntemente viene definita come “polarizzazione”, di classe, e non solo di reddito, aggiungiamo noi) detiene un potenziale straordinario di destabilizzazione, in un senso o nell’altro: e questo la classe dominante lo sa bene.

Da questo punto vista ci sembra opportuno, prima di proseguire nel ragionamento, puntualizzare alcune questioni. In molti ambiti, oramai, anche quelli tradizionalmente più reazionari (Fmi, Bm o anche Vaticano per bocca di Bergoglio, solo per dirne alcuni) il riferimento all’incremento delle disuguaglianze è divenuto un ritornello che viene inserito in ogni dichiarazione pubblica. È ormai innegabile, data la straordinaria diffusione di numeri statistici a livello internazionale, che negli ultimi decenni si sia verificata una forte polarizzazione. Tuttavia, non è di poco di conto qualificare per bene tale questione, considerando la volgarizzazione che viene spesso proposta. Puntare il fuoco dell’analisi esclusivamente su differenze reddituali – cosa prediletta in ambito accademico e politiche nei loro perpetui intrecci – induce inevitabilmente a ridurre la questione a un divario tra ricchi e poveri. La conseguenza più immediata di una analisi che non tiene conto dei rapporti di proprietà, non si esaurisce in una mera disputa terminologica, è la distorsione della definizione e comprensione dei concetti. In altri termini, se l’aumento delle diseguaglianze viene confinato all’interno del recinto dei redditi, automaticamente salari e profitti perdono la loro specificità di classe e vengono comparati solo quantitativamente. Dunque, la lotta di classe viene agilmente sostituita da una innocua “lotta tra percentili di reddito” come propone, non a caso, Piketty (2014) e altri suoi seguaci (tra cui movimenti giovanili, come Occupy Wall Street).

È opinione condivisa che la sparizione, progressiva, della middle class – vero architrave ideologico, e non solo, del capitalismo moderno – sia una questione destabilizzante e, aggiungiamo noi, avrebbe potuto svelare il volto del modo di produzione attuale. Tuttavia, attraverso l’abile utilizzo delle armi più affilate – tra cui anche quelle del razzismo, terrorismo, immigrazione ecc.– il potenziale problema è stato, almeno al momento, parzialmente posto sotto controllo da parte degli organi sovrastrutturali. L’esasperazione della concorrenza tra chi lavora, garantita da un esercito industriale di riserva (ossia i disoccupati e i precari) in esponenziale aumento, ha dunque frammentato ulteriormente la classe lavoratrice in innumerevoli rivoli favorendone la disgregazione politica.

L’emersione del dispotismo fascista – che dai media viene edulcorato ideologicamente da un termine fuori luogo come “populismo” – perfettamente incarnato da Trump, Le Pen, Farage (collega dei 5* in parlamento europeo), Npd nonché da Erdogan, Orban, Duda e, per alcuni versi, da Putin, ha raggiunto, negli ultimi mesi un livello di pervasività mondiale da far pensare che dalla quantità si sia passati alla qualità. Partendo dalla Brexit, passando per l’incresciosa vittoria elettorale di Trump, a cui è seguita la vittoria referendaria di Erdogan (sul filo di lana), e l’affermazione, al momento parziale, del Front National alle elezioni francesi – nonostante Macron – il quadro sembra delinearsi in una maniera sufficientemente chiara. Il modello democratico borghese, declinato sull’alternanza destra/sinistra, che ha sorretto la fase immediatamente successiva alla fine dell’esperienza sovietica sino all’esplosione del bubbone della crisi, non offre probabilmente più le stesse garanzie. L’elevata e persistente mancanza di occupazione – finalmente anche l’Oecd ha dovuto ammettere che il dato normalmente diffuso (9,5%) è sottostimato rispetto alla realtà, raddoppiando dunque le stime – , la povertà e la disuguaglianza crescente hanno svelato l’illusorietà del gioco (fintamente) democratico che viene ideologicamente etichettato con una inconsistente “fine dei partiti tradizionali”. Oramai questi non sono più fenomeni di esclusiva pertinenza dei paesi dominati ma cominciano ad essere questioni che riguardano gran parte delle classi subalterne dei paesi imperialisti che, col tempo, stanno iniziando a perdere visibilmente i connotati di salotti del mondo.

Il sistema del capitale, a causa della crisi di accumulazione perdurante, ha dunque necessità assoluta di gestire in maniera più autoritaria e dispotica il processo complessivo di produzione e circolazione delle merci. Le colonne della parvenza liberale della democrazia borghese, per questo, stanno venendo giù una dopo l’altra, giacché il controllo della classe potenzialmente rivoluzionaria deve essere mantenuto a un livello ben più alto rispetto a prima: le cosiddette riforme costituzionali europee auspicate da JP Morgan, o anche i pacchetti di repressione poliziesca adottati in mezza Europa con l’alibi del terrorismo servono a questo. E, così, la produzione di valore e plusvalore non deve trovare intoppi e soddisfare la voracità dei proprietari del capitale: le cosiddette riforme del mercato del lavoro vanno di pari passo a tale inasprimento. Tuttavia, in quanto parte di un processo, continue contraddizioni che assumono figure più marcate all’interno della spartizione del potere della classe dominante sono generate. Per rimanere sul terreno della battaglia elettorale appena conclusa negli Usa, Trump e Clinton erano rappresentanti di fazioni per alcuni versi opposte, per altre molto prossime, ma comunque appartenenti alla stessa classe, ossia quella del capitale legato al dollaro. Queste contraddizioni tra “fratelli nemici” si sono risolte nella vittoria da parte di quella fazione del capitale che predilige maggiore protezione del mercato locale rispetto all’internazionalismo del capitale più spinto di cui si faceva interprete Hillary – e una contemporanea retrocessione da parte della classe lavoratrice (che in parte ha sostenuto il newyorchese).

Tentando di dare un più profondo sostegno teorico a tutto ciò che, con difficoltà, riusciamo a decriptare dalla realtà, l’intera questione va riportata sul terreno dei rapporti materiali di produzione e dunque su quelli di proprietà. Ciò che sembra si stia verificando in questa fase putrescente dell’imperialismo è l’inversione temporale tra sottomissione formale e quella reale ossia del rapporto tra le figure struttura e sovrastruttura. In generale, nelle fasi più avanzate di ogni modo di produzione, “non si verifica neppure il “salto” di passaggio ai nuovi rapporti sociali di produzione – si tratterebbe a tal punto di una sorta di inversione temporale nel processo storico: in codesto caso il vecchio modo di produzione trascina il proprio carcame in stato di torpore letargico e allucinato in mezzo a una calca di <zombi>, per cercare di continuare a prevalere al servizio dei loro padroni. E, qualora tale ricerca abbia qualche risultato significativo, non sono solo i processi a esso specifici che gli rimangono realmente sottomessi, ma anche i processi innovativi che non riescono ancora a fuoriuscire dal vecchio sistema <coesistente> entro il cui guscio erano stati contraddittoriamente generati” (Gf. Pala, L’ombra senza corpo, Edizioni La Città del Sole, Napoli, in corso di stampa). In altri termini, questo tipo di rovesciamento storico delle due figure (sottomissione reale e formale) genera dialetticamente una realtà come quella esistente in cui alla fase di crisi perdurante e straordinariamente dura si contrappone un pesante inasprimento del controllo e della repressione della classe dominante su quella subordinata. È lo sviluppo stesso del modo di produzione del capitale ad aver generato, specialmente in fasi di maturità avanzata, uno straordinario spostamento in avanti della frontiera tecnologica e innovativa contemporaneamente a un affievolimento proporzionale delle possibilità di accumulazione: dunque, è solo con un cambiamento sensibile del paradigma del potere politico (sovrastruttura) che la classe dominante tenta di arginare i processi innovativi e dunque i nuovi rapporti sociali di produzione (struttura) che nel frattempo tendono a cristallizzarsi nella forma economica contemporanea.

Non è questa certamente la sede in cui analizzare a fondo i primi mesi di gestione del potere da parte del nuovo presidente statunitense. L’imprevedibilità di Trump, dovuta sia alla mancanza di controllo politico da parte del partito repubblicano, che dalla personale disponibilità di fondi illimitati, nonché da una dubbia stabilità psichica (più precisamente definita “schizofrenia” dal fratello nemico Putin, 17.05.2017), è stata a volte affievolita dal parlamento statunitense che ha vanificato alcune delle bandiere della campagna elettorale: sulla costruzione del muro con il Messico e l’abbandono dell’Obama care (assistenza sanitaria diffusa), a esempio, è stato costretto ad una patetica marcia indietro che ne ha pregiudicato fortemente il già limitato prestigio politico di cui godeva.

Tuttavia, quel che più ci interessa, è tentare di qualificare le linee programmatiche di gestione del capitale legato al dollaro che sta iniziando a seguire. Nonostante il suo spessore politico non sia particolarmente elevato, così come la sua capacità di concettualizzazione, in ambito commerciale, solo in pochi casi il suo linguaggio è stato ambiguo o poco diretto (cosa apprezzata prima dell’elezione dalla parte della classe lavoratrice che l’ha votato). Ha, infatti, chiaramente affermato la volontà di proteggere l’industria (manifatturiera o dei servizi) statunitense, limitando quelli che a suo dire sarebbero i frutti della globalizzazione di inizio secolo: disoccupazione dei lavoratori “bianchi” e chiusura delle fabbriche a stelle-e-strisce a causa dell’entrata delle merci a basso prezzo provenienti dall’Asia. Lo slogan “Make America Great Again” stampato sui celebri cappellini rossi utilizzati in campagna elettorale (ovviamente made in Vietnam, come un recente scoop ha mostrato) ha celebrato l’elevazione del protezionismo, condito da una ridicola retorica patriottica, a linea guida della sua amministrazione. La fuoriuscita dal Tpp (Transpacific Partnership) [vedi anche Contraddizione no.149] siglata pressoché immediatamente dopo la sua elezione, ha palesemente mostrato la volontà del capitale da lui impersonato di cercare uno scontro frontale con omologhi asiatici e, ovviamente, in particolare con quello cinese. L’occasione del World Economic Forum di Davos ha permesso una cristallizzazione delle opposte posizioni: infatti, dinanzi alla forte spinta in direzione protezionista di Trump (volgarmente indicata ormai “de-globalizzazione”) si è contrapposta una visione ben diversa di Xi Jinping secondo cui “è vero che la globalizzazione ha creato nuovi problemi, ma questa non è una giustificazione per cancellarla, quanto piuttosto per adattarla. Piaccia o no, l’economia globale è l’enorme oceano dal quale nessuno può tirarsi fuori completamente”.

Il secondo atto di questa partita a scacchi (vedi anche Boorman S.A., Gli scacchi di Mao, 1969, Oxford University Press, NY, Usa) si è giocata a Miami dove, nella cosiddetta “Casa bianca invernale”, nei primi giorni di aprile, si sono incontrati Trump e il presidente cinese. Come era attendibile, i toni si sono molto attenuati anche a causa della crescente tensione con la Corea del Nord e l’inevitabile ruolo da mediatore assunto proprio dalla Rpc. Quale sia stato l’esito del confronto, al di là delle dichiarazioni ad uso e consumo della stampa internazionale “continuiamo a rafforzare l’amicizia”, è ancora poco chiaro. Il fatto che gli unici esiti tangibili siano l’accettazione in Usa di polli, già cotti, provenienti dalla Cina a cui saranno invece inviate materie prime il cui ingresso era stato limitato dalla normativa vigente, non convince. Anzi, si ha quasi l’impressione che ciò abbia la funzione di celare un confronto che ha determinato risultati tutt’altro che buoni. Ma come già detto siamo solo all’inizio della storia che avrà di certo un seguito anche se, come ormai altamente probabile, Trump sarà sostituito attraverso l’impeachment entro la fine del 2018 da un altro esponente repubblicano (Pence, ad esempio) più adeguato a impersonare le linee politiche del proprio partito e dunque della fazione del capitale da cui esso è diretto.

Ciò che sta accadendo anche in America latina è d’altronde profondamente simile e in linea con tutto ciò: in poco più di due anni, il subcontinente ha cambiato volto politico, presentando un golpe in Brasile, dove Temer, fidato consigliere vicepresidente dalla stessa Dilma Rousseff, ha preso illegalmente il potere – per quanto, al momento in cui concludiamo questo articolo, sia anche lui sia messo alle corde per una chiara questione di corruzione e dunque da una più che probabile procedura di impeachment; l’Argentina sta scontando il potere reazionario del berlusconiano Macri, che sta rapidamente capovolgendo i timidi avanzamenti delle gestioni Kirchner. Infine in Venezuela – nonostante le contraddizioni interne al potere di Maduro – si stanno verificando gli accadimenti più gravi giacché l’imperialismo sta tentando in ogni maniera di provocare il governo in carica in modo da giustificare un intervento militare “esterno” che, al momento, è considerato – dai burattinai del capitale legato al dollaro, e non solo – essere l’unico modo per capovolgere la gestione chavista della repubblica bolivariana.

Protezionismo o libero mercato sono dunque tragicamente le parole attorno a cui si attorcigliano opinioni in ambito politico ed economico. Persino Pierluigi Bersani, in una delle poche uscite lucide, è riuscito recentemente a riassumere la questione sostenendo pubblicamente che se agli inizi del decennio passato l’agenda politica era focalizzata sulla “globalizzazione”, oggi il protezionismo è divenuto un’opzione che va di moda. Peccato, però, che non abbia spiegato che ciò sia dovuto principalmente al fatto che, in fase di crisi perdurante come quella attuale la tendenza a proteggersi (appunto!) sia una naturale e vana – a causa dell’inestricabile groviglio delle filiere produttive mondiali – velleità di molti capitali, ossia una manifestazione dell’inasprimento del conflitto intraclassista e delle sue contraddizioni. La Brexit deve essere letta in questa ottica: non è un caso che una parte del capitale britannico (e anche internazionale) abbia tentato di evitare il problema sia con l’attentato preventivo alla parlamentare laburista britannica sia, successivamente, provando più volte a sovvertire l’esito referendario. Come si sa, però, entrambi i tentativi non sono andati a buon fine e dunque dopo alcuni mesi è stata formalmente richiesta l’apertura della procedura di uscita dal mercato comune europeo del Regno unito. Sui social networks sono subito girate molte notizie in cui si riportavano dati di ottime performance economiche della città di Londra con lo scopo di voler avvalorare i vantaggi della Brexit. A scanso di equivoci, è importante smascherare questa disinformazione, giacché solo a distanza di qualche mese dalla fine del processo di negoziazione (che durerà non meno di due anni) si potranno valutare i primi effetti. Ciò che per ora si può chiaramente vedere è che, il capitale britannico, allontanato dal partner tedesco – con cui i flussi di merci e capitali erano di straordinaria importanza – si è trovato, volente o nolente, a dover saldare ancora di più la secolare alleanza con quello legato al dollaro.

Dunque, se è normale che la classe dominante inietti nel dibattito politico concetti come isolazionismo, razzismo, patriottismo e ritorno a valute ed economie nazionali, ciò che stupisce è il fatto che parte della sinistra (anche di classe) stia cadendo in questo tranello, spendendo importantissime energie per sostenere la fuoriuscita dall’Unione europea o dalla valuta unica (per un approfondimento si veda N/euro-fobia - La Contraddizione no.147). Sostenere che “la rottura con Euro, Ue e Nato non è solo costituente di una posizione politica, ma un obiettivo reale che bisogna avere il coraggio di dichiarare non solo necessario, ma possibile” oppure che “se un popolo rompe con Euro, Ue e Nato, altri popoli imporranno scelte analoghe. Non esistono Euro e Ue senza l’Italia, salterebbe tutta la baracca per tutti. E sarebbe un grande fatto positivo. La rottura è riconquista di democrazia, potere popolare, eguaglianza sociale, ovunque si avvii poi si diffonderà” [Sedici tesi per l’assemblea nazionale della Piattaforma Sociale Eurostop, Contropiano, 23 gennaio 2017], significa, da una parte, non comprendere sin in fondo lo stato degli attuali rapporti di forza che, proprio perché fortemente sbilanciati verso chi domina, indurrebbero a ragionare più materialmente sull’elaborazione di un programma minimo (non massimo, come quello proposto da tanti pur validi compagni); dall’altro, implica fare il giuoco delle borghesie locali che attraverso un protezionismo di ritorno vorrebbero serrare i ranghi nel conflitto interimperialistico che a tutti i livelli si sta svolgendo. Già Marx il 9 gennaio 1848, all’Associazione democratica di Bruxelles, avvertiva sul rischio di scivolare su un’analisi di questo tipo: “in generale ai nostri giorni il sistema protezionista è conservatore, mentre il sistema del libero scambio è distruttivo. Esso dissolve le antiche nazionalità e spinge all’estremo l’antagonismo fra la borghesia e il proletariato. In una parola, il sistema della libertà di commercio affretta la rivoluzione sociale. È solamente in questo senso rivoluzionario, signori, che io voto in favore del libero scambio” (K Marx, Discorso sul libero scambio).

L’inversione concettuale e temporale (sotto un profilo logico) di sottomissione reale con quella formale è dunque il processo contraddittorio attraverso cui è possibile comprendere l’attuale forma dispotica di gestione del potere borghese. L’anno 2016, nonostante le parole di straordinario ottimismo di Mario Draghi, è stato l’anno peggiore di questo millennio in termini di accumulazione, secondo il Fmi. Il rallentamento, relativo, della Cina sta inevitabilmente condizionando l’andamento dell’economia mondiale: e al contempo una immensa bolla speculativa, gonfiata anche dall’effetto cripto-valute – il cui valore di borsa è stato pompato in meno di dieci anni di più del 100.000%![1]), nonché dagli sconsiderati alleggerimenti quantitativi (quantitative easing) delle banche centrali di tutto il mondo, aleggia sulle teste di ogni rappresentante della classe dominante, che tenta di spostare un po’ più in là – sia a livello spaziale che temporale – l’inevitabile esplosione. Dinanzi a ciò, serrare i ranghi diviene cruciale così come aumentare il controllo sulla classe potenzialmente rivoluzionaria, per quanto le contraddizioni interne alla classe proprietaria non permetta che questo processo sia privo di ostacoli.

Fino a qualche anno fa, la socialdemocrazia europea (o americana) garantiva, col falso giuoco di alternanza con la destra liberale, gli affari dell’imperialismo: ora sembra che queste forme non siano più adeguate ai rapporti materiali e un nuovo paradigma sovrastrutturale si sta progressivamente consolidando, prefigurando, nei decenni che verranno, un livello di repressione (non solo fisica, ma soprattutto nell’uso della forza-lavoro) sempre più importante. La classe subalterna è ben lungi, come detto, dal riconoscere il proprio ruolo storico ma, probabilmente ancora non tutto quanto è perduto. Bisogna avere la forza e l’umiltà di riconoscere la sconfitta storica che i comunisti hanno subito e che in gran parte è dovuta alla scarsa e frammentaria conoscenza del patrimonio teorico ed ideologico che gli autori del socialismo scientifico ci hanno tramandato: in altri termini, è necessario ora più che mai (ri)cominciare a fare lotta teorica. Proiettarsi inoltre nella “(ri)fon­dazione di un nuovo (vecchio) partito”, è cosa quanto mai velleitaria e soggettivistica ed è stata ben resa dalla celebre imitazione di Bertinotti proposta da Corrado Guzzanti[2]. La costruzione di un “movimento politico organizzato” che abbia come discriminante politica (non ideologica) il “programma minimo” diviene altresì l’unica via percorribile: ovvero “un partito, come organizzazione di parte, adeguata alla fase, del soggetto politico portatore della strategia ricompresa all’interno del programma minimo. Il partito che divenga tale in un processo che è posto e non presupposto: con un programma che non sia scritto con le parole d’ordine ma sia fatto dai lavoratori stessi con le loro lotte” (Gamba e Pala, Il programma minimo, Edizioni La Città del Sole, Napoli, 2015).

 

[1] Per un approfondimento si veda anche La Contraddizione, 145 e 146.

[2] https://www.youtube.com/watch?v=3IrgWBA7pA0

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