Mariella Cataldo
Siamo convinti che per analizzare il massacro in corso in queste settimane a Gaza, occorra tornare a guardare alla questione palestinese con una prospettiva storica. Per dare un contributo in tal senso, riproponiamo un saggio di Mariella Cataldo, pubblicato nel n. 24 (giugno 1991) della rivista “La Contraddizione”. Ringraziamo Carla Filosa per la segnalazione.
“Rocce e spine non producono vita e se la vita viene ficcataa forza nelle fessure di un piano roccioso e spinosola si costringe a trasformarsi in rocce e spine.La vita non può sottomettersi nonostante tutta la brutalità,la cattiveria e la perfidia umane, perché riesplode sempreverso l’alto, ai lati, dal basso,per quanto oggi possa sembrare sottomessa.E se pure la costringono a pietrificarsi,non c’è dubbio che un giorno gli esploderà in faccia”(Glabra Ibrahim Glabra, poeta palestinese)IL SIONISMO
Nascita e ideologia
Il movimento sionista nasce alla fine del secolo scorso (Congresso di Basilea del 1897) “nel bagliore degli incendi provocati dai pogròm russi del 1882 e nel tumulto dell’affare Dreyfus” (Abraham Léon, La concezione materialista della questione ebraica). Esso deve al giornalista viennese Theodor Herzl il fondamento teorico, l’organizzazione, così come una “diplomazia”. Quattro ipotesi sono alla base dell’edificio costruito da Herzl:
- l’esistenza di un popolo ebraico;
- l’impossibilità della sua assimilazione da parte della società nella quale si è velocemente disperso;
- Il suo diritto alla “Terra promessa”;
- l’inesistenza su questa terra di un altro popolo che abbia anch’esso i suoi diritti ( A. Gresh - D. Vldal).
Il sionismo si fonda dunque sul mito messianico del ritorno alla “terra promessa”. Come osserva Walter Laqueur (Storia del sionismo) “Il sionismo ha elaborato un’ideologia, ma le sue pretese ‘scientifiche’ sono inevitabilmente poco convincenti”:
- Il dibattito sul concetto stesso di ebreo rimane aperto: eccetto la religione, a cui non tutti sono fedeli e che non basta senza dubbio a caratterizzare un popolo, quali saranno i criteri unificatori di questa realtà nazionale? Razziali? Territoriali? Linguistici?
- La questione dell’assimilazione nei paesi europei e americani è ugualmente controversa: interrotta brutalmente dall’ondata antiebraica della fine del secolo scorso, poi dall’olocausto, essa non si era per questo affermata nettamente; si è addirittura rafforzata all’indomani dello sterminio nazista di 6 milioni di ebrei. Nel 1985 gli ebrei nel mondo erano tra i 16 e i 18 milioni, di cui circa 3,5 in Israele, da 6 a 6,5 milioni in Nord America, 0,5 in America Latina, circa 3 in URSS, 0,5 in Francia e altrettanti in Gran Bretagna; 35.000 in Italia.
- Il riferimento al testo sacro (la Bibbia) di una religione (in un territorio in cui se ne sono diffuse altre, quali il cristianesimo e l’islamismo) non può legittimare la pretesa unilaterale alla Palestina. Così come non può farlo il riferimento a una occupazione (su 12 altre) di questa terra. Infatti i regni ebraici fondati in Palestina verso il 1000 a. C. erano caduti sotto i successivi assalti degli Assiri, dei Babilonesi e dei Romani. Quando viene soffocata la rivolta di Bar Kokhba, nel 135 d.C., è il segnale della partenza per la maggioranza delle popolazioni ebraiche. Una piccola minoranza risiede a Gerusalemme, Safed, Tiberiade e Hebron: nonostante i pellegrini che erano ritornati, e soprattutto gli esiliati della penisola Iberica, alla fine del XV secolo, la comunità ebraica di Palestina non conterà che una decina di migliaia di anime all’inizio del XIX secolo. Gli altri formano in tutto il mondo la diaspora ( Gresh-Vidal).
- La pretesa sionista sulla Palestina escludeva un altro popolo, i palestinesi, di cui si ignorava perfino l’esistenza. Molti degli ebrei di Russia e Polonia che erano stati invogliati a dirigersi verso la Palestina credevano si trattasse di una terra disabitata о quasi e furono turbati nell’accorgersi del contrario. In una lettera a Herzl un leader ebreo scrisse: “Ma allora noi commettiamo un’ingiustizia!”.
“Le sofferenze ebraiche possono forse giustificare l’aspirazione di certi ebrei a formare uno Stato indipendente. Ma questo non può apparire per gli arabi una ragione sufficiente perché questo Stato si formi a loro spese” (Maxime Rodinson). I palestinesi infatti non ebbero nulla a che vedere con le persecuzioni antiebraiche.
Diffusione e sviluppo
“Al I Congresso sionista, tenutosi a Basilea nel settembre del 1897, Theodor Herzl ... parlò del futuro Stato ebraico, che si sarebbe costituito entro 50 anni, ne illustrò la struttura e il modo per realizzarlo. Il sionismo venne contrapposto alle tendenze all’integrazione che erano state fino allora dominanti soprattutto nelle comunità ebraiche dell’Europa Occidentale, in concomitanza con l’estensione dei diritti democratici e dell’uguaglianza tra i cittadini. Si costituirono una Banca nazionale ebraica (1898) e un Fondo nazionale ebraico per sfruttare razionalmente le terre acquistate in Palestina. Qualsiasi altra soluzione ― come per esempio quella dell’Inglese Joseph Chamberlain, di concedere una parte dell’Uganda agli Ebrei ― fu decisamente respinta (1903 - VI Congresso sionista)” (cfr. Enciclopedia storica Zanichelli).
Lo sviluppo del sionismo dipende anche in gran parte dal modo in cui intendono usarlo le potenze del tempo: la Russia degli zar per frenare il contagio rivoluzionario (i cui capi sono di origine ebraica); la Germania, i cui dirigenti sperano di sbarazzarsi di una comunità ebraica numerosa e influente; il sultano ottomano, che cerca di riempire le sue casse vuote; ma, soprattutto, la più grande potenza coloniale dei tempo, la Gran Bretagna, per radicarsi sempre più nel Medio Oriente e proteggere Suez.
L’Inghilterra resterà il principale alleato dei sionisti, anche se la sua preoccupazione di non compromettersi agli occhi degli arabi (che ha usato nel corso della I guerra mondiale contro l’Impero Ottomano, promettendo, senza concederla, l’autodeterminazione) rende a volte difficile quest’alleanza (gli inglesi ― che dal 1922 hanno il mandato della Società delie Nazioni sulla Palestina ― pubblicano alcuni “libri bianchi”, nel 1922, nel 1930, nel 1938, per limitare l’immigrazione ebraica in Palestina). Ma la base economico-politica di questa alleanza è abbastanza solida: proteggendo il canale di Suez, “l’Inghilterra ― esclamerà Chaim Weizmann ― avrà una barriera solida, e noi avremo un paese”. Il ruolo, affidato al sionismo, di difesa degli interessi coloniali e imperialistici appare evidente nella guerra del 1956 scatenata da Francia, Inghilterra e Israele contro l’Egitto di Nasser che aveva nazionalizzato il canale di Suez.
Per gli USA, che ereditano gli interessi dell’Imperialismo inglese, Israele continuerà a svolgere questa funzione di controllo degli interessi del capitalismo occidentale In Medio Oriente, anche se tale alleanza non è esente da contraddizioni, nel momento in cui la superpotenza USA punta a legare a sé le petromonarchie.
LA DICHIARAZIONE BALFOUR
Un dirigente sionista, H. Samuel, nel 1914, aveva cercato di ottenere il consenso di E. Gray, ministro degli affari esteri britannico, alla nascita dello Stato ebraico: esso sarebbe stato un valido alleato britannico vicino al canale di Suez e avrebbe ostacolato la nascita di uno Stato arabo indipendente in Siria e Iraq. Sul momento gli inglesi nicchiarono. Ma quando nel 1916 la guerra sembrava essere in fase di stallo per gli eserciti dell’Intesa, Lloyd George, allora primo ministro, giocò una carta in favore dei sionisti, convinto che gli ebrei americani avrebbero fatto pressione sul governo Usa perché intervenisse in guerra a fianco dell’Intesa. Furono avviate trattative tra il comitato sionista e la Gran Bretagna. Gli ebrei accettarono il protettorato britannico ed ebbero in cambio la promessa che sarebbe stata facilitata l’emigrazione di ebrei in Palestina. Il progetto incontrò l’opposizione dei francesi, che alla fine cedettero, visto che la posta in gioco era l’ingresso degli Usa a fianco dell’Intesa. Alla fine delle trattative gli inglesi formalizzarono la dichiarazione Balfour (nuovo ministro degli affari esteri britannico) sotto forma di lettera. Eccone il testo:
Ministero degli Affari Esteri, Londra 2.11.1917
Caro Lord Rotschild,
Sono molto lieto di inviarle da parte del governo di Sua Maestà la seguente dichiarazione di simpatia per le aspirazioni degli ebrei sionisti, che è stata sottoposta ed approvata dal Gabinetto.
Il Governo di Sua Maestà vede con simpatia lo stabilirsi in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico ed userà i suoi migliori uffici per facilitare il conseguimento di questo obiettivo, essendo chiaramente comprensibile che nulla sarà fatto che possa pregiudicare i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche esistenti in Palestina о i diritti e gli statuti politici che gli ebrei godono in ogni altro paese.
Le sarò grato se porterà questa dichiarazione a conoscenza della federazione sionista.
Sinceramente vostro
Arthur James Balfour
Non tutti gli ebrei inglesi erano favorevoli alla dichiarazione e ciò provocò una scissione tra le loro file. Questi ebrei dissidenti volevano fare della Palestina un centro spirituale per ebrei e si opponevano alla creazione di uno Stato ebraico. Interessante è l’opposizione alla dichiarazione Balfour del ministro degli affari dell’India, Montagu, ebreo, che diceva;
- l’ebraismo è una religione; gli ebrei sono persone appartenenti a diverse nazionalità che professano la religione ebraica come i cristiani e i musulmani, che sono uniti da un’unica religione, ma sono di diverse nazionalità;
- gli ebrei perciò non sono un popolo in senso politico, per cui la Palestina non può essere un focolare nazionale ebraico.
Egli usava dire che gli ebrei della Gran Bretagna non erano ebrei inglesi, ma inglesi ebrei.
Le conseguenze che traeva erano queste:
- il sionismo non rappresenta tutti gli ebrei della diaspora, perché molti di essi si oppongono al sionismo come movimento politico razziale aggressivo;
- il principio dell’autodeterminazione deve restare l’elemento principale per l’avvenire dei popoli; le popolazioni della Palestina, tuttavia, non sono state interpellate sulla scelta del loro destino;
- la dichiarazione Balfour è una violazione della promessa di libertà fatta agli arabi, del diritto all’autodeterminazione garantito da tutte le convenzioni e patti internazionali.
Dal punto di vista strettamente giuridico, inoltre, la Gran Bretagna non aveva il diritto di fare tale dichiarazione, perché nel 1917 la Palestina era ancora sotto dominio ottomano e non britannico: veniva violata la norma secondo cui “пето dat quod non habet”.
A quella data gli ebrei non superavano il 9% della popolazione della Palestina: 60.000 abitanti su 670.000.
Con questa dichiarazione comincia la tragedia del popolo palestinese, che, secondo Bertrand Russell, “consiste nel fatto che il loro paese è stato dato da una potenza straniera ad un altro popolo per crearvi un nuovo Stato”.
LO STATO DI ISRAELE
Formazione dello Stato
Le prime famiglie che arrivarono in Palestina alla fine dell’800 non avevano neppure sentito parlare di sionismo. Venivano dalla Russia, sfuggivano ai pogròm ed erano influenzate da un vago socialismo. Il popolo ebraico, pensavano, doveva redimersi dal peso di una tradizione che lo vedeva esclusivamente commerciante e usuraio. Doveva riacquistare il contatto con la terra, la capacità di ottenerne, lavorando e soffrendo, i frutti. Il lavoro doveva essere svolto in comune: nacque allora l’idea del kibbutz, una specie di azienda agricola collettiva. Nessuno dei nuovi emigranti pensava invece di fondare qui uno Stato. Gli arrivi comunque erano scarsi. Aumentarono quando ricchi uomini d’affari ebrei, europei e americani si consociarono per favorire l’emigrazione in Palestina, fornendo a chi decidesse di andarvi i soldi del viaggio e i mezzi necessari per iniziare una propria attività. (Ciò si potrebbe configurare come l’avvio di una colonizzazione di tipo capitalistico ad opera di un pool di capitali Internazionali).
Nel 1890 gli ebrei di recente arrivo in Palestina erano 8.000 (circa 65.000 vi abitavano da tempo immemorabile in pacifica simbiosi con i palestinesi); diventarono 85.000 nel 1914, mezzo milione intorno al 1930. All’inizio l’immigrazione non presentò particolari problemi: c’era spazio per tutti. Col tempo però, e con l’aumentare del numero degli ebrei immigrati, i problemi sorsero, e si acutizzarono gravemente. I nuovi venuti acquistavano le terre migliori dai grandi latifondisti arabi che vivevano in città, e ne cacciavano poi i contadini per sostituirsi ad essi. Cercavano di escludere gli arabi dal mercato del lavoro: datori di lavoro ebrei potevano assumere solo lavoratori ebrei.
La massiccia immigrazione di ebrei dotati di sia pur modesti capitali, nonché del ricco patrimonio di esperienza tecnica e scientifica dei paesi da cui provenivano, in un paese povero, abitato da una popolazione dedita ancora a forme primitive di economia agricola e pastorale, modificò il precedente equilibrio della regione, aprendo contraddizioni che erano non solo di carattere nazionale, ma anche economico-sociale. Così I buoni rapporti iniziali si ruppero rapidamente.
Già nel 1929 vi sono scontri tra palestinesi ed ebrei; nel 1936 l’Alto comitato arabo proclama uno sciopero contro l’immigrazione ebraica. La risposta all’acuirsi di queste contraddizioni fu l’affermarsi ― nonostante la proposta, negli anni Trenta, di un illustre esponente ebraico, il filosofo Martin Buber, di costituire una comunità binazionale, giudeo-araba ― di una linea “dura” che si riassumeva nel proposito di cacciare i 700.000 palestinesi oltre il Giordano.
Alle grandi potenze imperialistiche, d’altronde, arride l’idea di un paese di cultura occidentale, quasi un pezzo d’Europa in Medio Oriente, capace di svolgere il ruolo di spina nel fianco di quel mondo arabo che il petrolio rendeva sempre più ricco di preziose attrattive.
La costituzione statuale di Israele
Viene formata una Knesset, assemblea costituente legislativa e si approvano alcune leggi fondamentali, ma non una Costituzione nel senso stretto del termine. Nel 1948-49, infatti, il leader laburista Ben Gurion cede alle pressioni dei capi religiosi e rinuncia a dare una Costituzione. La sola legge a cui un ebreo deve ubbidire, spiegavano i religiosi, è la legge divina. In tal modo dalle leggi fondamentali dello Stato di Israele emerge ― come del resto era sempre stato sostenuto dai teorici del sionismo ― che soltanto i cittadini di stirpe e religione ebraica godono della pienezza dei diritti in Israele, mentre quanto rimaneva della popolazione palestinese originaria è relegato in una situazione subalterna insuperabile (cfr. Enciclopedia storica Zanichelli).
Nel 1950 viene promulgata una legge considerata fondamentale: la legge del ritorno, in base a cui ogni ebreo ha diritto di entrare in Israele come oleh (colui che sale, cioè che torna). Ad ogni ebreo è concessa automaticamente la cittadinanza israeliana, anche se non rinuncia a quella di origine. Non è ammesso invece il ritorno dei palestinesi che nel ‘48 abbandonarono terra e case. La minoranza palestinese rimasta in Israele ebbe la cittadinanza, ma di seconda classe. Venne dispensata dal servizio di leva (è sempre pericoloso concedere agli oppressi l’uso delle armi ...), sottoposta a regime militare col pretesto che viveva in zone di frontiera: permessi per potersi spostare da una zona all’altra, carte d’identità speciali. Per le terre, sempre sotto l’ombrello di misure per la sicurezza militare, si andò a confische di massa con indennizzi in denaro. L’Onu ha calcolato che solo con le confische i palestinesi hanno perduto il 40-50% della loro terra.
La vita personale degli israeliani ― status ebraico, matrimonio, divorzio, eredità ― dipende esclusivamente dai tribunali rabbinici. “Vi è un’impossibilità giuridica ― spiega il giurista israeliano Claudio Klein ― a contrarre in Israele matrimonio tra un ebreo e un non ebreo”. I rabbini hanno il controllo dell’istruzione religiosa nelle scuole pubbliche, oltre che il finanziamento per il proprio sistema di istruzione.
Dal 1981, con la destra al potere, s’impone un’applicazione più rigida da parte degli organismi statali delle regole religiose (riposo del sabato ― chabat, codice alimentare religioso ― cacherut). Gli ultraortodossi religiosi hanno chiesto negli ultimi tempi anche la revisione della legge su “chi è ebreo”, che è a fondamento dell’attribuzione della nazionalità israeliana. “E così gli israeliani, che per il 25% si proclamavano distaccati da qualsiasi pratica religiosa e per il 45% laici, benché osservanti di qualche tradizione, subiscono una specie di teocrazia tra le più retrograde del suo genere” (cfr. Gresh-Vidal).
Struttura economica di Israele oggi
Israele conta circa 4,5 milioni di abitanti ― 3,8 milioni di ebrei, 700.000 palestinesi ― e copre all’interno delle sue frontiere, precedenti la Guerra dei sei giorni (1967), dette linea verde, 21.000 kmq. Ad essi più tardi si aggiungono i territori annessi: il Golan siriano (2.000 kmq), Gerusalemme; e i territori occupati: la Cisgiordania (5.440 kmq), la striscia di Gaza (330 kmq), in cui vivono oltre un milione di palestinesi; e la striscia detta di sicurezza a sud del Libano (850 kmq).
Se da poco più di 700.000 abitanti nel 1948 la popolazione ebraica è passata a quasi 3.800.000 nel 1988, la crescita dipende molto dall’organizzazione dell’immigrazione (aliya), mediante la quale, in 40 anni, circa 1.800.000 immigranti si sono sistemati in Israele, anche se ne sono ripartiti dai 300.000 ai 500.000.
Il Prodotto Interno lordo supera oggi i 35 mila miliardi di lire, pari a un reddito medio annuo a persona di circa 8 milioni. Le esportazioni sono mediamente di 9 mila miliardi di lire e le importazioni di circa 13 mmd (con un disavanzo commerciale, quindi, di 4 mmd), pur nell’ambito di una politica che spinge all’esportazione, limitando il consumo interno. Va osservato che la maggior parte dei traffici di importazione e esportazione riguarda le armi e i diamanti [a quest’ultimo proposito si pensi che il valore annuo del solo traffico di diamanti ― nella triangolazione con Belgio e Sud Africa ― raggiunge i 3 mmd: la contropartita dei diamanti grezzi sudafricani è costituita perlopiù, appunto, dalle armi, su cui finora era in vigore il formale embargo occidentale verso il Sud Africa; con la sua rimozione è probabile che tutto questo settore di traffici ne risentirà significativamente]. A parte i due paesi appena citati per il traffico specifico armi-diamanti, la maggior parte dell’interscambio estero (un quarto del totale) avviene con gli Usa; seguono la Gran Bretagna (per poco meno di un decimo), la Germania, l’Olanda, la Francia e la Svizzera.
Il debito estero di Israele ha superato i 25 mmd (di lire), raggiungendo così l’80% del prodotto annuo. Un tale debito, che in buona parte è verso gli Usa, si registra nonostante i considerevoli versamenti che continuano ad essere fatti dalla diaspora per lo sviluppo di Israele; a parte gli oltre mille miliardi versati dalla Germania a titolo di “indennizzo”, vanno considerati i circa 60 mmd di “aiuti” del governo Usa. Quest’ultimo sembra essere un aspetto decisivo: nei tempi più recenti gli Usa hanno dato al governo di Israele poco meno di 4 mmd l’anno (pari a circa un milione di lire per israeliano) in “aiuti” economici e soprattutto militari.
L’agricoltura, il cui successo dipende dall’applicazione di tecniche ultramoderne, è uno dei settori di punta dell’economia di Israele, ma fornisce appena il 10% dell’esportazione, e attraversa comunque un declino storico tipico del settore, nel modo di produzione capitalistico. Essa è organizzata nelle seguenti forme:
- proprietà collettiva della terra con un sistema di comuni (kibuzim) in cui lavora circa il 30% della popolazione ebraica contadina (e circa il 3% degli israeliani in generale)
- cooperative (moshavim)
- proprietà privata.
Kibuz e cooperative assicurano insieme circa il 70% della produzione agricola. Tuttavia, con lo sviluppo di Israele come potenza capitalistica e pedina rilevante nel sistema dell’imperialismo mondiale, con lo sfruttamento massiccio del palestinesi del territori occupati, all’originale ideale socialisteggiante dei kibuzim si va sostituendo una realtà di speculazione fondiaria che batte tutti i record: molte colonie agricole sono oggi sull’orlo del fallimento. I palestinesi dei territori occupati ― come osserva E. Said (dell’Università di New York) ― forniscono in misura crescente la forza-lavoro per le imprese agricole ed edili israeliane, per la semplice ragione che sono costretti a lavorare in condizioni di bassi salari e garanzie sociali inesistenti (tali da essere rifiutate persino dagli ebrei russi di nuova immigrazione).
L’industria importa materie prime (il paese non ha petrolio, ma fosfati e potassio) ed esporta prodotti con alto valore aggiunto (diamanti, elettronica, armi, prodotti chimici). L’elemento decisivo che ha strutturato l’economia, la vita sociale e politica, la cultura, e, naturalmente, il settore difesa e armamenti è stato lo scontro ininterrotto con gli arabi e i palestinesi, ruolo affidato a Israele fin dalla sua fondazione dal potere imperialistico (con momenti di acutissima tensione e guerra: 1948, 1956, 1967, 1973, 1982, 1988-90 - cfr. cronologia). Ciò ha acuito tutte le contraddizioni interne di questo Stato e ne ha originate di nuove. Un terzo del prodotto nazionale lordo è riservato agli armamenti e al “mantenimento dell’ordine” nei territori occupati. Per non ridurre drasticamente le spese per gli armamenti, il governo ― soprattutto dopo la vittoria della destra, Likud, nel 1977 ― si è impegnato a fronteggiare la crisi che colpiva l’economia israeliana, come tutte le economie occidentali, sulla strada delle restrizioni monetarie e delle ristrutturazioni che impongono austerità per i salariati e drastici tagli nei bilanci dei servizi pubblici, il tutto in un contesto di crescenti privatizzazioni [sulla base di un piano commissionato alla Boston Corporation] offerte anche a stranieri (purché ebrei). Solo così la disastrosa situazione economica, che aveva toccato un tasso di inflazione di quasi il 500% nei 1984, ha potuto parzialmente riprendersi (oggi l’aumento dei prezzi è “solo” del 20%). La qualità dell’istruzione peggiora, il sistema sanitario si trova sull’orlo del crollo, i trasporti sono disorganizzati; il potere d’acquisto continua a diminuire.
Nonostante ciò la crisi mondiale del settore bellico ― a seguito della fine della cosiddetta guerra fredda, della distensione internazionale, e della conseguente presa di assunzione diretta, e non più delegata, dell’intero settore da parte Usa ― colpisce alcuni comparti di rilievo, come le telecomunicazioni Tadiran (del gruppo Koor). Queste circostanze, unite alla ricordata “normalizzazione” internazionale nei confronti del Sud Africa [con cui recentemente Israele aveva impostato una collaborazione su missili nucleari, non gradita agli Usa], hanno creato una tensione e un contenzioso crescente con gli stessi americani. Il mancato accoglimento della richiesta israeliana alla Ibm per ottenere un supercomputer per la tecnologia missilistica, così come la negazione da parte del comando supremo Usa di informazioni telematiche strategiche in occasione dell’ultima guerra del golfo, sono la conferma del deterioramento dei rapporti tra padroni americani e rappresentanti governativi israeliani. Non a caso la lobby sionista americana appoggia più il potere Usa che non il governo di Israele, come ha dato a vedere l’anno scorso in occasione della visita di Shamir in Usa.
Contraddizioni di classe ed etniche
In questo quadro generale di crisi economica e politica, la disoccupazione supera ― secondo dati ufficiali ― il 9%. Il Koor, il principale trust dell’organizzazione sindacale Histradut, licenzia migliaia di operai e vende le sue filiali per evitare il fallimento. (Ciò nonostante il governo israeliano punta con ogni mezzo ad incentivare l’immigrazione di ebrei sovietici). Oltre mezzo milione di israeliani vivono, secondo le statistiche, al di sotto della soglia di povertà (cfr. Gresh-Vidal). La linea di separazione tra persone agiate e quelle senza denaro corrisponde largamente alla demarcazione tra ebrei occidentali (Ashkenazi) ed ebrei orientali (Sefarditi). Maggioritari nella popolazione israeliana dopo gli anni ’50, gli ebrei originari dai paesi arabi accrescono ― con i palestinesi che vivono nello Stato di Israele ― la massa dei poveri, dei disoccupati, degli analfabeti e dei delinquenti. Contrariamente alle previsioni queste discriminazioni si riproducono, anche se attenuate, di generazione in generazione, con ripercussioni politiche che i dirigenti laburisti (di estrazione Ashkenazi), al potere dal 1948, non avevano previsto: per punirli di oltre un decennio di ingiustizie, gli ebrei orientali sono stati favorevoli al partito di destra Likud (le elezioni del novembre 1988 danno li 53% all’estrema destra e ai partiti religiosi). (cfr. Gresh-Vidal).
Abbiamo dunque una situazione in cui alle contraddizioni economico-sociali dello Stato di Israele (crisi economica, disoccupazione, polarizzazione di ricchezza e miseria) si tenta di rispondere con una classica ricetta di destra: scaricandole all’esterno, proponendo una politica coloniale di annessione di nuovi territori. La prospettiva, non più soltanto della destra estrema, ma del Likud stesso, è quella dell’annessione dei territori occupati dal 1967 di Cisgiordania e Gaza con relativa espulsione e deportazione delle popolazioni palestinesi.
Al tempo stesso lo Stato israeliano diviene sempre più repressivo al suo interno non solo contro i palestinesi che lottano per l’autodeterminazione (oltre 1000 morti e decine di migliaia di feriti in tre anni di Intifada), ma anche contro quelle minoranze ebraiche che si oppongono alla politica del governo: Vanunu, ingegnere atomico preso e imprigionato in cella di segregazione per aver “rivelato” che Israele produceva e immagazzinava bombe atomiche; militanti pacifisti condannati per il “crimine” di dialogo con l’Olp; giornalisti preoccupati della verità sulla Cisgiordania e Gaza gettati in prigione e malmenati sotto l’accusa di “tradimento”; pubblicazioni e centri pacifisti imbavagliati.
La tendenza dello Stato israeliano è verso una crescente militarizzazione. L’esercito in senso ampio assorbe, come detto, circa un terzo del Pil, la metà della ricerca-sviluppo, la metà delle importazioni, ma pure una parte crescente delle esportazioni [si ricordi l’esempio del Sud Africa, e altri casi analoghi di triangolazione]. Al primo posto nel bilancio, prima potenza economica (dopo il sindacato) e primo degli esportatori, l’esercito costituisce anche una grande potenza ideologica, la sua rete d’istruzione si avvantaggia del tempo straordinario di cui dispone per “formare” i giovani israeliani.
CRONOLOGIA ESSENZIALE
La terra di Palestina è collocata in una sorta di ideale crocevia che collega tra loro tre continenti: Asia, Africa, Europa. Gli avi dei palestinesi erano: Amoriti, Cananei, Aramiti, Arabi.
3500 a.C. ondata migratoria di Semiti dalla penisola araba verso Egitto, Mesopotamia, Palestina
2500 a.C. migrazione cananea verso la Palestina
Dopo il 2000 a.C. nasce lo Stato cananeo di Palestina
1200 a.C. gli Ebrei guidati da Mosè, cacciati dall’Egitto, vanno ad est del mar Morto; sotto Giosuè conquistano lo Stato cananeo.
1020 a.C. Saul fonda il regno ebraico in Palestina e a est del Giordano. Succedono Davide e Salomone. Il regno dura 100 anni, fino al 923 a.C. Si dividerà poi in regno di Israele e regno di Giudea
722 a.C. fine del regno di Israele per mano degli Assiri
586 a.C. i Babilonesi pongono fine al regno degli ebrei in Palestina.
538 a.C. invasione del Persiani
331 a.C. invasione di Alessandro Magno
64 a.C. invasione dei Romani
636 d.C. invasione araba della Palestina e arabizzazione del territorio
1099 occupazione di Gerusalemme da parte dei Crociati
1187 Saladino vince i Crociati e libera Gerusalemme e la maggior parte della Palestina
- Palestina è sotto il dominio dei Turchi Ottomani
- I Congresso del movimento sionista a Basilea
1898 Costituzione della Banca nazionale ebraica
1903 VI Congresso sionista: viene respinta qualsiasi altra soluzione alla questione ebraica che non sia quella della fondazione di uno Stato in Palestina
1917 partecipazione palestinese alla prima guerra mondiale a fianco delle forze dell’Intesa (Francia, Inghilterra) contro i Turchi. La promessa inglese ai palestinesi è l’indipendenza che non venne mai concessa.
- - novembre - dichiarazione Balfour [vedi documento]
1918 Dopo la Rivoluzione d’Ottobre il governo sovietico divulga gli accordi segreti intervenuti (1916) tra Francia Inghilterra e Russia zarista per la spartizione del Medio Oriente; tali accordi prevedevano un’amministrazione britannica su Iraq e Transgiordania, un’amministrazione francese sul Libano e un’amministrazione internazionale per la Palestina. Ciò indigna moltissimo gli Arabi che si sentono traditi.
1922 Il Consiglio della Società delle Nazioni sancisce il mandato britannico sulla Palestina [mandato in diritto internazionale è un istituto usato dopo la prima guerra mondiale, quando si trattò di decidere la sorte delle ex colonie tedesche e turche. Si assegnava a uno Stato mandatario il compito di reggere uno dei territori suddetti fino a che i suoi abitanti non fossero stati ritenuti in grado di autogovernarsi]
1929 sommosse arabe contro l’immigrazione ebraica e la dichiarazione Balfour: a Hebron la comunità ebraica viene sterminata e la sinagoga distrutta
1924-1931 L’immigrazione ebraica conosce un riflusso: su 100 immigrati 29 se ne vanno dopo pochi mesi; nel ‘27 il saldo è negativo: 3.000 arrivati e 5.000 partiti
1930 Un “libro bianco” di lord Passfield annuncia restrizioni all’immigrazione ebraica
1936 In aprile viene formato l’“Alto Comitato Arabo”, che proclama uno sciopero generale per protestare contro l’immigrazione ebraica. Altre sommosse si susseguono fino ad agosto. Tutti i capi palestinesi vengono esiliati dalla commissione d’inchiesta inviata dal governo britannico
1937 Nel suo rapporto questa commissione propone la spartizione della Palestina e la formazione di uno Stato ebraico che copra una superficie di 5.000 kmq
1938 Un altro “libro bianco inglese” comunica l’impossibilità di applicare la soluzione della spartizione
- Il governo britannico attraverso il “libro bianco” sostiene tra l’altro che:
̶ è nato un focolare nazionale ebraico
̶ è pericoloso ampliarlo ulteriormente contro la volontà degli Arabi
̶ si deve porre fine alle immigrazioni ebraiche e alla vendita di terreni e si deve dare amministrazione autonoma ai legittimi proprietari del paese entro i 5 anni.
L’agenzia ebraica rifiuta i principi del “libro bianco” e intraprende una lotta contro la politica britannica attraverso organizzazioni terroristiche e paramilitari
1939 Inizia la II guerra mondiale. L’Inghilterra rimanda tutte le decisioni sulla Palestina alla Società delle Nazioni
1940 Promulgata in febbraio una legge fondiaria che vieta agli immigranti l’acquisto di terre palestinesi. Come contromisura l’Agenzia ebraica organizza l’immigrazione illegale. Nel frattempo contro gli inglesi in Palestina viene scatenato li terrorismo sionista dell’Irgum zwai leumi (Organizzazione militare nazionale), tra i cui dirigenti vi è Menahem Begin; nasce il Lehi (Combattenti per la libertà di Israele), più noto come banda Stern (tra i cui responsabili vi è Shamir), e la Haganah, organizzazione paramilitare
1942 Conferenza dell’Organizzazione sionista mondiale a Baltimora; si chiede un’immigrazione illimitata, la costituzione di uno Stato ebraico su tutta la Palestina, la creazione di un esercito ebraico e l’annullamento del “Libro Bianco”
1945 La popolazione in Palestina è di circa 1.280.000 palestinesi e 554.000 ebrei immigrati
1946 La neocostituita commissione anglo-americana d’inchiesta presenta il suo rapporto. Si propone il rilascio di 100.000 certificati di immigrazione in Palestina per gli ebrei vittime del nazismo. Attentato della banda Stern contro l’albergo Re David a Gerusalemme, quartier generale dell’esercito britannico
1947 L’Onu decide la spartizione del paese (dal 1936 al 1947 vi sono stati diversi altri progetti di spartizione) in 3 zone: 2 Stati, uno ebraico e l’altro arabo e l’internazionalizzazione di Gerusalemme. Il piano passa con 33 sì (tra cui Usa, Urss, Francia), 13 no e 10 astensioni (tra cui la Gran Bretagna). A dicembre, al Cairo, i capi di Stato arabi decidono di impegnarsi in una lotta armata contro la realizzazione del piano Onu. Il bilancio complessivo delle sollevazioni palestinesi sotto il mandato britannico (1917-1948) è pesante: 50.000 vittime.
1948 10 aprile: il villaggio di Deir Yassin è raso al suolo dalla banda Stern: 260 morti. Attacchi terroristici sionisti si hanno anche in altri villaggi: a Nasr al-Din, Aln el Zeitouneh, al-Bina, al-Bassa, Safsaf
14.5.1948 Un giorno prima della scadenza del mandato britannico sulla Palestina Israele si proclama Stato. Gli eserciti arabi (Egitto, Siria, Iraq, Giordania e Libano) invadono Israele. Dietro suggerimento di alcuni capi della Lega araba e atterriti dal terrorismo israeliano oltre 750.000 palestinesi lasciano le loro case e le loro terre. Nel frattempo l’Onu invia in Palestina una commissione guidata dal conte Bernadotte di Svezia. Nel suo rapporto raccomanda all’Onu di imporre alcuni aggiustamenti territoriali ai confini, di studiare un qualche meccanismo per limitare l’immigrazione ebraica, ma, soprattutto, di proclamare chiaro e forte il diritto dei profughi al ritorno alle loro case. Prima ancora che terminasse la sua missione Bernadotte viene assassinato dalla banda Stern (17.9), perché il suo rapporto viene considerato contrario agli interessi sionisti. Israele vince il conflitto, estendendo il proprio territorio dai 14.100 kmq (56% della Palestina) del piano di spartizione Onu a 20.700 kmq (78%), ivi compresa la maggior parte di Gerusalemme. Una parte dei palestinesi rimasti è deportata nei paesi arabi vicini. Il diritto dei profughi a ritornare nelle loro case è riconosciuto da una risoluzione dell’Onu, nel dicembre, ma non dal governo di Israele, secondo il quale la decisione dell’Onu avrebbe potuto alterare il carattere ebraico dello Stato. Israele forma la Knesset, assemblea costituente legislativa, nominando il primo presidente Chaim Welzmann, e vota le leggi fondamentali (Israele non ha una Costituzione)
1949 firmata la pace con Egitto, Libano, Giordania, Siria. L’11.5 Israele viene ammesso all’Onu. Il 9.12 Gerusalemme è dichiarata zona internazionale. Ciò che rimane della Palestina sarà annesso alla Transgiordania, tranne la striscia territoriale di Gaza
1950 L’Onu crea l’Unrwa per affrontare il problema dei profughi palestinesi, mentre, nel giro di due anni, sono venuti a stabilirsi in Israele, 510.000 nuovi immigrati ebrei. I palestinesi sono stati in questo modo largamente sostituiti
1952-55 Incidenti di frontiera e incursioni israeliane negli Stati vicini, con centinaia di vittime
1956 guerra di Suez. Israele, dopo la nazionalizzazione del canale da parte di Nasser, invade ― insieme con Francia e Inghilterra ― l’Egitto. L’Onu impone il cessate il fuoco e l’evacuazione del Sinai da parte di Israele. I caschi blu presidiano i confini
1959 viene costituita l’organizzazione di “feddayin” Al Fatah (La Conquista) da quelli che diventeranno più tardi i leaders della resistenza palestinese: Yasser Arafat e Abu Jihad (quest’ultimo assassinato qualche anno fa dal Mossad, i servizi segreti israeliani)
1964 Nasce l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp). Viene stilata la carte nazionale palestinese
1965 Al Fatah, organizzazione ancora clandestina, si appresta a lanciare i primi commandos contro l’occupazione israeliana
1967 “Guerra dei sei giorni” (5-11 giugno) Israele attacca Egitto, Siria e Giordania, occupando il settore di Gaza, le alture siriane del Golan e il Sinai. 410.000 profughi palestinesi del versante orientale della Giordania vengono espulsi dalla Cisgiordania e Gaza oltre che dal Golan e dal Sinai. Gerusalemme, “città santa”, sede delle tre grandi religioni monoteistiche (cristiana ebraica e musulmana), che dall’Onu era stata dichiarata nel 1947 città internazionale, viene occupata dagli ebrei anche nella parte est araba. Il 22.11 il consiglio di sicurezza dell’Onu vota la delibera con cui si ordina ad Israele di sgomberare i territori occupati. Tale delibera, così come le successive, non viene rispettata da Israele.
1968 Dal 1948, in 20 anni, l’immigrazione ebraica in Palestina è passata da 750.000 a 2.500.000 circa. La questione palestinese viene rimossa nei discorsi dei governanti di Israele. Golda Meir dice: non c’è nulla che possa essere chiamato palestinese, essi non sono mai esistiti
1969 V Congresso del Consiglio nazionale palestinese; Arafat, leader di Al Fatah, è nominato presidente dell’‘OLP
1967-70 Il numero delle operazioni dei commandos palestinesi contro Israele si moltiplica: dalle 12 operazioni al mese del 1967 si passa alle 279 del 1970
1970 “Settembre nero” - il re Hussein di Giordania, resosi conto di aver perduto il controllo delle formazioni armate palestinesi presenti sul suo territorio, compie un massacro di palestinesi (circa 8.000).
Le organizzazioni palestinesi si dirigono verso il Libano
1971 Nasce il gruppo “Settembre nero”, col quale la guerriglia palestinese fa un salto di qualità, decidendo di colpire tutti coloro, in qualsiasi parte si trovino, aiutano Israele
1972 Attentato di Monaco organizzato da Settembre nero contro gli atleti israeliani partecipanti alle olimpiadi
1972-1990 Il Mossad, l’organizzazione dei servizi segreti israeliani, elimina dappertutto nel mondo i dirigenti palestinesi
1973 Guerra del Kippur о del Ramadan ― Egitto e Siria abbattono le difese israeliane lungo ii canale di Suez e il Golan; il cessate il fuoco è nel 1974; si ritorna allo status quo
1974 Vertice arabo di Rabat: Hussein di Giordania rinuncia al mandato per negoziare in nome degli abitanti della Cisgiordania: unico rappresentante dei palestinesi viene riconosciuto l’Olp. A novembre l’assemblea generale dell’Onu riconosce all’unanimità ― eccetto Israele e Usa ― I diritti del popolo palestinese all’autodeterminazione, all’indipendenza e alla sovranità nazionale. 105 paesi dell’assemblea generale dell’Onu riconoscono l’Olp come osservatore
1975 Inizia la guerra civile del Libano: un camion di palestinesi viene attaccato dai falangisti, partito di destra diretto da Pierre Gemayel. In cinque anni si conteranno 90.000 morti
1976 I falangisti libanesi attaccano, con la connivenza dei siriani di Assad, il campo di Tall el Zatar: 1600 morti, 4.000 feriti
1977 Dichiarazione congiunta sovietico-americana tesa a trovare una soluzione definitiva al conflitto in Medio-Oriente. La dichiarazione chiede ad Arabi e Palestinesi di fare la pace con Israele e riconoscerlo come Stato, in cambio del ritiro israeliano dai territori occupati nel 1967. Israele rifiuta.
1978 Camp David - l’Egitto riconosce lo Stato di Israele
1979 Firmata la pace tra Egitto e Israele. Il governo israeliano guidato da Begin continua però a circondare di colonie ebree le città arabe più importanti in Cisgiordania e Gaza
1980 Comincia la resistenza delle popolazioni palestinesi nei territori di Cisgiordania e Gaza. Israele risponde con la repressione e intensifica la politica degli insediamenti
1982 Israele Invade il Libano (la cosiddetta operazione Pace in Galilea), con l’obiettivo di spazzare via i combattenti palestinesi dal Libano. Beirut e il quartiere generale palestinese sono bombardati da terra e da mare. I 15.000 uomini dell’Olp resistono per 86 giorni all’attacco israeliano che provoca 25.000 morti, in prevalenza donne, vecchi e bambini. Comincia una nuova diaspora palestinese verso la Siria, l’Europa, il nord del Libano, Sudan, Yemen, Algeria. Arafat lascia Beirut, con destinazione Tunisi, dove viene trasferito il quartier generale dell’Olp. Ma i 24.000 rimasti inermi nei campi profughi (Sabra, Chatila, Borje), sguarniti dai combattenti palestinesi, vengono attaccati dalle milizie falangiste e truppe libanesi alleate con gli israeliani: è un ulteriore massacro di 1.500 persone. Reagan propone un piano di pace che prevede il ritiro delle truppe israeliane dai territori occupati nel 1967 con la prospettiva di un autogoverno dei palestinesi di Cisgiordania e Gaza in associazione con la Giordania. Nega la creazione di uno Stato palestinese
1985 Arafat incontra a Tunisi una delegazione israeliana della sinistra (tra cui lo scrittore Uri Avnery). Si giunge ad un’intesa sulla necessità di una Conferenza internazionale di pace sotto l’egida dell’Onu. A fine settembre, dopo l’uccisione di tre agenti israeliani, Israele bombarda a Tunisi il quartier generale dell’Olp, distruggendone la sede e uccidendo 150 persone
1987 A maggio si tiene ad Algeri il Consiglio nazionale palestinese; l’Olp si riunifica, Arafat viene rieletto presidente. In agosto il viceministro della difesa israeliano Michael Dekel propone alla Knesset la deportazione dei palestinesi di Cisgiordania e Gaza.
8.12.1987 - Comincia a Gaza l’lntifada (letteralmente “scossone”) contro l’occupazione israeliana: le popolazioni di Cisgiordania e Gaza mettono in atto una rivolta di massa e generalizzata. “La sola cosa sorprendente, a proposito di questa rivolta, è che non sia esplosa prima” (T. L. Friedmann, The Gerusalem Post, 14.1.1988). Le sassaiole cui facevano ricorso i ragazzini per dimostrare contro i soldati israeliani diventano l’arma dei palestinesi dei territori occupati. La primavera 1987 era stata contrassegnata già da alcune crisi: scioperi della fame da parte di detenuti politici palestinesi, chiusura di università, tra cui quella di Bir Zeit, arresto di Feisal Husseini. In Israele prima dell’intifada le forze di polizia hanno usato due tipi di gas lacrimogeno. Quello più usato è il CN (o anche BN con formula chimica omega-cloro- aceto-fenone). Dopo l’intifada sono state usate bombe lacrimogene di tipo CS (formula chimica ortobenzilidene malonite). Queste bombe sono mortali, specie se lanciate in aree chiuse. Non esiste antidoto a questo veleno che agisce sull’apparato respiratorio, nelle cellule sanguigne, nei tessuti adiposi, sulle membrane mucose. Agisce sulle donne incinte e sui feti provocandone la morte. Un bossolo raccolto dagli abitanti sul teatro di scontro nella seconda settimana di gennaio portava l’iscrizione made in USA 1988 e specificava che il gas contenuto in esso era molto pericoloso e non doveva essere utilizzato in luoghi chiusi. “Non avrei mai immaginato, neppure nei miei sogni più neri, che noi ebrei potessimo fare ad un altro popolo quello che i tedeschi hanno fatto a noi” (Yedioth Aharonoth 15.2.1988, Le monde diplomatique).
1988 Continua la rivolta palestinese. “Non è terrorismo, non sono disordini, non è sovversione e non è una sommossa, è un popolo che si leva in piedi”, scrive Yzhar Smilanski, scrittore del partito laburista. La rappresaglia israeliana è violentissima: i soldati israeliani spezzano appositamente e sistematicamente le ossa degli arti a migliaia di giovani palestinesi.
26.2.1988 Un filmato della Cbs americana mostra quattro soldati israeliani che spezzano le braccia a due palestinesi; fa il giro del mondo provocando indignazione. “Signore, cresciuto con il ritornello “dov’erano i buoni tedeschi quando tutto questo succedeva? oggi, pongo la domanda: dove sono i buoni ebrei?” (Robert Littel, in The Jerusalem Post, 9.2.1988). Il 28 marzo i territori occupati sono dichiarati dal governo Rabin “zona militare chiusa”. “Israel Aschiema, il grande Israele non potrà mai essere il paese del popolo di Israele senza che sia esercitata una oppressione su altri” (Alain Campiotti, “Israele di fronte alla rivolta interna: la follia del settimo giorno”, L’Hebdo, 21.1.1988). Israele come misura contro l’Intifada usa “sigillare” case о demolirle con l’esplosivo. Questo è un “regolamento d’emergenza” inglese che risale al 1945 e che Israele continua ad applicare dopo 43 anni. Gli israeliani dilatano molto la nozione di “sicurezza” nell’ambito delle ordinanze militari, violando sempre le restrizioni poste alle potenze occupanti dall’art. 64 della quarta Convenzione di Ginevra. Includono nelle “attività terroristiche ostili” le scritte sui muri, il cantare canzoni patriottiche, il possesso della letteratura politica, lo spiegamento della bandiera palestinese, il segno V fatto con l’indice e il medio della mano, l’uso dei colori palestinesi nel vestire, le dichiarazioni di contenuto politico fatte davanti a gruppi di più di dieci persone. Nella sinistra israeliana ci sono anche persone che solidarizzano coi palestinesi. Oltre ai gruppi di Peace now e a Time for peace è da citare YESH-GWULL (“C’è un limite”), associazione degli obiettori di coscienza della guerra del Libano. H. Jak Geiger, esponente dei “medici per i diritti umani”, riferendosi alla repressione israeliana parla di “un’epidemia incontrollata dell’esercito e della polizia”, sottolineando che non si tratta di “deviazioni”, ma di “norme” (Conferenza stampa di Chicago dell’11.2.1988 di 5 scienziati Usa). Peter Price, deputato al Parlamento europeo, dice di avere le prove che i medici stanno curando ferite provocate da proiettili Dum-dum. È sorprendente, ma anche tra i fondamentalisti ebraici vi sono gli antisionisti, come gli appartenenti al gruppo Neturei Karta. Essi non riconoscono lo stato di Israele, il loro rabbino, Moshe H. Hirsch, sostiene che i palestinesi sono i musulmani i cristiani e gli ebrei indigeni residenti in Palestina prima della nascita dello stato sionista. Egli non vuole che gli ebrei governino sui residenti in Palestina (arabi ed ebrei) contro la loro volontà e sostiene che la patria dei “veri ebrei” deve essere costituita da una confederazione giordano-palestinese; solo così si potrà uscire dallo stato sionista non koscher (impuro), per entrare in quello palestinese puro. La repressione avviene anche attraverso la confisca di terre palestinesi (comprese quelle dei proprietari “assenti” perché esuli) che vengono assegnate agli israeliani. Israele è padrona di rovinare l’agricoltura palestinese proibendo la coltivazione di melanzane, pomodori, alberi da frutta e anche cespugli ornamentali; limita il possesso di galline. Lo sviluppo dell’agricoltura palestinese viene strozzato anche con la privazione in Cisgiordania dell’acqua sufficiente per piante ed animali. Infatti la maggior parte del sottosuolo cisgiordano è utilizzato dal sistema idrogeologico di Israele. Circa 1/4 del potenziale idrico israeliano ha origine al di là della linea verde (475 milioni di m3 su 1.900 milioni). È su questa base che si fonda la pretesa israeliana di conservare comunque, in ogni circostanza, il controllo del potenziale idrico della Cisgiordania. In caso contrario, affermano, l’intero sistema idrico israeliano crollerebbe. Il potenziale idrico annuale della Cisgiordania è di 600 milioni di m3; Israele cerca di impedire ai “residenti” arabi di sfruttare le risorse idriche attraverso razionamenti e alti prezzi dell’acqua. Si prevede, di contro, l’aumento (entro i prossimi 10 anni) della quantità di acqua disponibile per gli israeliani. Da questo nasce il disastro dell’agricoltura di Gaza; gli agrumeti non irrigati, né potati, si vanno via via inselvatichendo. Scavare nuovi pozzi a Gaza è proibito, gli agrumi di Gaza non possono essere esportati in Israele ma solo verso i paesi arabi e l’est europeo, ma non in camion frigorifero per “motivi di sicurezza” ...
16.4.1988 - a Tunisi viene ucciso dal Mossad Abu Jiad, numero due dell’OLP e ispiratore dell’intifada
10.11.1988 L’Olp proclama ad Algeri la nascita di uno Stato palestinese ― con la formazione di un governo in esilio ― sui territori di Cisgiordania e Gaza Lo Stato viene riconosciuto da Urss, Cina, dai paesi dell’Europa Centro-orientale e da numerosi paesi di Asia, Africa e America Latina
20.5.1990 Strage al mercato di Rishon Letzion: 27 morti
8.10.1990 Strage alla spianata delle Moschee: 20 morti. I palestinesi chiedono protezione ONU, gli USA si oppongono
14.1.1991 Viene assassinato a Tunisi Abu Iyad, grande amico e collaboratore di Arafat.
Dal 1987 al 1990 il bilancio della repressione israeliana contro l’intìfada è altissimo: oltre 1500 morti, 60.000 feriti, 15.000 detenuti (su una popolazione di 1.700.000 abitanti), 1720 case distrutte. E intanto l’intifada va avanti come vanno avanti gli insediamenti dei coloni israeliani ... “Un esercito può battere un altro esercito, non un popolo: Israele sta imparando che la potenza ha dei limiti. Il ferro può distruggere il ferro, ma non un pugno inerme: questo è il paradosso; in linea di fatto la Cisgiordania e Gaza pongono ad Israele un problema di sicurezza non se sono fuori il controllo di Israele, ma se sono al suo interno (Shlomo Avineri, professore di Scienze politiche della Hebrew University, The Jerusalem Post, 9.2.1988)
BIBLIOGRAFIA
AA.VV., Intifada, Ed. Associate, Roma 1988
Henri Curiel, Pour une paix juste au Proche Orìent, Ass. H. Curiel, Paris
- Gresh, Storia dell’OLP, Ed. Associate, Roma 1988
- Gresh, D. Vidal, Medio Oriente - Guida storico-politica, Ed. Associate, Roma 1990
Maxime Rodinson, Peuple juif ou problème juif?, Maspero, Paris, 1981
- Savioli, I giorni delle pietre, Vecchio faggio editore, 1988
Enciclopedia storica Zanichelli, Bologna 1980
scheda
LA QUESTIONE EBRAICA
Karl Marx
Noi non diciamo agli ebrei, voi non potete essere emancipati politicamente senza emanciparvi radicalmente dal giudaismo. Piuttosto diciamo loro: per il fatto che potete essere emancipati politicamente senza abbandonare completamente e coerentemente il giudaismo, per questo l’emancipazione politica stessa non è l’emancipazione umana. Se voi ebrei volete essere emancipati politicamente, senza emancipare voi stessi umanamente, è perché l’incompletezza e la contraddizione non risiedono in voi soltanto, esse risiedono nell’essenza e nella categoria della emancipazione politica.
Noi cerchiamo di rompere la formulazione teologica della questione. La questione della capacità dell’ebreo a emanciparsi si trasforma per noi nella questione di quale particolare elemento sociale sia da superare per sopprimere il giudaismo. Infatti la capacità a emanciparsi dell’ebreo d’oggi sta nel rapporto del giudaismo con l’emancipazione del mondo d’oggi. Tale rapporto risulta necessariamente dalla posizione particolare del giudaismo nell’asservito mondo odierno.
Consideriamo l’ebreo reale mondano, non l’ebreo del Sabbath, ma l’ebreo di tutti i giorni. Cerchiamo il segreto dell’ebreo non nella sua religione, bensì cerchiamo il segreto della religione nell’ebreo reale. Qual è il fondamento moderno del giudaismo? Il bisogno pratico, l’egoismo. Qual è il culto mondano dell’ebreo? Il traffico. Qual è il suo dio mondano? Il denaro. Ebbene, l’emancipazione dal traffico e dal denaro, dunque dal giudaismo pratico e reale, sarebbe l’autoemancipazione del nostro tempo.
Un’organizzazione della società che eliminasse i presupposti del traffico, dunque la possibilità del traffico, renderebbe impossibile l’ebreo. La sua coscienza religiosa si dissolverebbe come un vapore inconsistente nella vitale atmosfera reale della società. D’altro lato: se l’ebreo riconosce come inconsistente questa sua essenza pratica e lavora per la sua eliminazione, distaccandosi dal suo sviluppo passato, lavora per l’emancipazione umana senz’altro, e si volge contro la più alta espressione pratica dell’autoestraneazione umana.
Noi riconosciamo dunque nel giudaismo un universale elemento attuale antisociale, il quale attraverso lo sviluppo storico cui gli ebrei per questo lato cattivo hanno collaborato con zelo, venne sospinto fino al suo presente vertice, un vertice sul quale deve necessariamente dissolversi. L’emancipazione degli ebrei nel suo significato ultimo è l’emancipazione dell’umanità dal giudaismo.
L’ebreo si è già emancipato in modo giudaico. Questo non è un fatto isolato. L’ebreo si è emancipato in modo giudaico non solo in quanto si è appropriato della potenza del denaro, ma altresì in quanto il denaro per mezzo di lui e senza di lui è diventato una potenza mondiale, e lo spirito pratico dell’ebreo lo spirito pratico dei popoli cristiani. Gli ebrei si sono emancipati nella misura in cui i cristiani sono diventati ebrei.
Invero il dominio pratico del giudaismo sul mondo cristiano ha raggiunto nel Nordamerica l’espressione non equivoca, normale del fatto che l’annunzio stesso del vangelo, la predicazione cristiana è divenuto un articolo di commercio, e il commerciante fallito traffica in vangelo come l’evangelista arricchito traffica negli affari.
Il bisogno pratico, l’egoismo, è il principio della società civile, ed emerge come tale allo stato puro, non appena la società civile abbia completamente partorito lo Stato politico. Il dio del bisogno pratico e dell’egoismo è il denaro. Il denaro è il geloso dio d’Israele, di fronte al quale nessun altro dio può esistere. Il denaro avvilisce tutti gli dèi dell’uomo, e li trasforma in una merce. Il denaro è il valore universale, per sé costituito, di tutte le cose. Esso ha perciò spogliato il mondo intero, il mondo dell’uomo e la natura, del loro valore peculiare. Il denaro è l’essenza, estraniata all’uomo, del suo lavoro e della sua esistenza, e questa essenza estranea lo domina, ed egli l’adora. Il dio degli ebrei si è mondanizzato, è divenuto un dio mondano. La cambiale è il dio reale dell’ebreo. Il suo dio è soltanto la cambiale illusoria.
La chimerica nazionalità dell’ebreo è la nazionalità del commerciante, soprattutto del finanziere. La legge senza patria dell’ebreo è soltanto la caricatura religiosa della moralità senza patria e del diritto in generale, dei riti soltanto formali, dei quali si circonda il mondo dell’egoismo. Invero, il movimento di questo mondo entro le sue leggi è necessariamente una costante soppressione della legge.
Il giudaismo, come religione, non poteva svilupparsi ulteriormente, sul piano teorico, poiché la concezione del mondo propria del bisogno pratico è, per sua natura, angusta e si esaurisce in pochi tratti. La religione del bisogno pratico, per la sua essenza, poteva trovare il compimento non nella teoria ma soltanto nella prassi, appunto perché la sua verità è la prassi. Il giudaismo non poteva creare un nuovo mondo; esso poteva solo attirare nell’ambito della propria operosità le nuove creazioni e i nuovi rapporti del mondo, perché il bisogno pratico, il cui intelletto è l’egoismo, si comporta passivamente e non si amplia a piacere, ma si trova ampliato con il progressivo sviluppo delle condizioni sociali.
Il cristianesimo è l’idea sublime del giudaismo, il giudaismo è la piatta applicazione utilitaristica del cristianesimo, ma questa applicazione poteva diventare universale soltanto dopo che il cristianesimo in quanto religione perfetta avesse compiuto teoricamente l’autoestraneazione dell’uomo da sé e dalla natura. Solo allora il giudaismo poteva pervenire alla signoria universale e fare dell’uomo espropriato, della natura espropriata, oggetti alienabili, vendibili, caduti in balìa del bisogno egoistico del traffico.
L’alienazione è la pratica dell’espropriazione. Come l’uomo, fino a che è schiavo del pregiudizio religioso, sa oggettivare il proprio essere soltanto facendone un estraneo essere fantastico, così sotto il dominio del bisogno egoistico egli può operare praticamente, praticamente produrre oggetti, soltanto ponendo i propri prodotti, come la propria attività, sotto il dominio di un essere estraneo, e conferendo a essi il significato di un essere estraneo: il denaro. L’uomo non venne perciò liberato dalla religione, egli ricevette la libertà religiosa. Egli non venne liberato dalla proprietà. Ricevette la libertà della proprietà. Egli non venne liberato dall’egoismo del mestiere, ricevette la libertà del mestiere.
A quello Stato che riconosce il cristianesimo come sua norma suprema, la Bibbia come sua Charte, si devono contrapporre le parole della sacra scrittura, perché la Scrittura è sacra fin nella parola. Questo Stato, come pure l’immondizia umana sulla quale esso si basa, cade in una contraddizione dolorosa, insormontabile dal punto di vista della coscienza religiosa, se lo si richiama a quei precetti del vangelo che esso non solo non segue, ma neppure può seguire, se non vuole dissolversi completamente in quanto Stato. Esso stesso non sa più se è una fantasia о una realtà, in cui l’infamia dei suoi scopi mondani, ai quali la religione serve da copertura, entra in un conflitto insolubile con l’onestà della sua coscienza religiosa, cui la religione appare come lo scopo del mondo. Questo Stato può riscattarsi dal suo tormento interiore soltanto divenendo lo sgherro della Chiesa cattolica. Di fronte a essa, che dichiara proprio corpo servente il potere mondano, lo Stato è impotente, impotente il potere mondano che asserisce di essere l’autorità dello spirito religioso.
La questione ebraica perde il suo significato teologico per diventare una questione realmente mondana. Solo là dove lo Stato politico esiste nella sua forma compiuta, il rapporto dell’ebreo, e in generale dell’uomo religioso, con lo Stato politico, dunque il rapporto della religione con lo Stato, può presentarsi nella sua peculiarità, nella sua purezza. La critica di questo rapporto cessa di essere teologica, non appena lo Stato cessi di comportarsi in modo teologico nei riguardi della religione, non appena esso si comporti verso la religione da Stato, cioè politicamente.
La critica diviene allora critica dello Stato politico. Poiché l’esistenza della religione è l’esistenza di un difetto, la fonte di tale difetto, la fonte di tale difetto può ancora essere ricercata soltanto nell’essenza dello Stato stesso. La religione per noi non costituisce più il fondamento, bensì ormai soltanto il fenomeno della limitatezza mondana. Per questo, noi spieghiamo il pregiudizio religioso dei liberi cittadini con il loro pregiudizio mondano. Non riteniamo che essi debbano sopprimere la loro limitatezza religiosa, per poter sopprimere i loro limiti mondani. Affermiamo che essi sopprimeranno la loro limitatezza religiosa non appena avranno soppresso i loro limiti mondani. Noi non trasformiamo le questioni mondane in questioni teologiche. Trasformiamo le questioni teologiche in questioni mondane. Dato che per lungo tempo la storia è stata risolta in superstizione, noi risolviamo la superstizione in storia. La questione del rapporto tra l’emancipazione politica e la religione, diviene per noi la questione del rapporto tra l’emancipazione politica e l’emancipazione umana. Noi critichiamo la debolezza religiosa dello Stato politico, in quanto critichiamo lo Stato politico, facendo astrazione dalle debolezze religiose nella sua costruzione mondana. Noi umanizziamo la contraddizione tra lo Stato e una determinata religione, a esempio il giudaismo, nella contraddizione tra lo Stato e determinati elementi mondani, la contraddizione dello Stato con la religione in generale nella contraddizione tra lo Stato e le sue premesse.
L’emancipazione politica dell’ebreo, del cristiano, in genere dell’uomo religioso, è l’emancipazione dello Stato dal giudaismo, dal cristianesimo, in generale dalla religione. Nella sua forma, nel modo proprio alla sua essenza, in quanto Stato, lo Stato si emancipa dalla religione emancipandosi dalla religione di Stato, cioè quando lo Stato come Stato non professa religione alcuna, quando lo Stato riconosce piuttosto se stesso come Stato. L’emancipazione politica dalla religione non è l’emancipazione compiuta, senza contraddizioni, dalla religione, perché l’emancipazione politica non è il modo compiuto, senza contraddizioni, dell’emancipazione umana.
Il limite dell’emancipazione politica appare immediatamente nel fatto che lo Stato può liberarsi da un limite senza che l’uomo ne sia realmente libero, che lo Stato può essere un libero Stato senza che l’uomo sia un uomo libero. Lo Stato può dunque essersi emancipato dalla religione, persino se la stragrande maggioranza è ancora religiosa. E la stragrande maggioranza non cessa di essere religiosa per il fatto di essere religiosa privatim.
Ma il comportamento dello Stato verso la religione, e particolarmente, dello Stato libero, non è tuttavia altro che il comportamento degli uomini che formano lo Stato, verso la religione. Ne consegue che l’uomo per mezzo dello Stato, politicamente, si libera di un limite, innalzandosi oltre tale limite, in contraddizione con se stesso, in un modo astratto e limitato, in un modo parziale. Ne consegue inoltre che l’uomo, liberandosi politicamente, si libera per via indiretta, attraverso un mezzo, anche se un mezzo necessario. Ne consegue infine che l’uomo, anche se con la mediazione dello Stato si proclama ateo, cioè se proclama ateo lo Stato, rimane ancor sempre prigioniero del pregiudizio religioso, appunto perché riconosce se stesso solo per via indiretta, solo attraverso un mezzo. La religione è appunto il riconoscersi dell’uomo per via indiretta. Attraverso un mediatore. Lo Stato è il mediatore tra l’uomo e la libertà dell’uomo.