Fosco Giannini *
Il 28 settembre di questo 2019 si sono tenute le elezioni presidenziali in Afghanistan. Il caos attorno a questa tornata elettorale non diverge da quello delle precedenti elezioni, a dimostrazione del totale fallimento della “gestione” USA e NATO dell’Afghanistan dopo l’invasione del 2001, scelta di guerra nordamericana successiva all’attacco alle Torri Gemelle a New York.
Nelle elezioni presidenziali dell’agosto 2014, infatti, occorsero circa sei mesi affinché la Commissione Elettorale Indipendente (IEC) assegnasse la vittoria ad Ashraf Ghani, ai danni dell’altro candidato, Abdullah Abdullah. I due si lanciarono a lungo reciproche accuse di scorrettezze, disonestà, frodi elettorali, accuse che bloccarono l’investitura. Alla fine, difronte al fatto che nessuno dei due candidati riconoscesse la vittoria dell’altro, per venirne fuori la IEC, eterodiretta da Washington, decise di dividere il potere tra Ghani, eletto presidente, ed Abdullah Abdullah, eletto primo ministro. A dimostrazione di come tutta l’operazione fosse guidata dagli USA, fu l’allora Segretario di Stato americano John Kerry a dirimere le questioni e ad imporre la mediazione.
Non meno problematiche risultarono le elezioni presidenziali del 20 agosto 2009, quando Karzai si trovò difronte, come più forte avversario, Abdullah Abdullah, che accusò Karzai – che in prima battuta superò il 50% dei consensi - di brogli elettorali, accuse che la IEC accolse come vere imponendo un ballottaggio tra i due contendenti. Ma Abdullah Abdullah non accettò di partecipare al ballottaggio denunciando un quadro generale di corruzione e di decisioni già assunte da Washington a favore di Karzai che, a suo avviso, non gli potevano permettere di correre democraticamente alla presidenza. E si ritirò.
Gli stessi problemi si presentarono alle presidenziali del 9 ottobre 2004, quando Karzai batté la concorrenza di altri 22 candidati durante elezioni segnate da forti ambiguità e confusione generale, esiti inevitabili di una “democrazia” imposta militarmente dalle forze di occupazione USA e NATO.
In queste elezioni del 28 settembre la tragicommedia si ripete: gli sfidanti sono gli stessi del 2014, Ghani e Abdullah Abdullah, appartenenti entrambi, con le loro diversità, alla sfera di potere statunitense. Le prime letture del voto li danno in parità; il 19 ottobre sono attesi i primi risultati non definitivi, il 7 novembre quelli ufficiali. Ma sono prevedibili tempi più lunghi. Anche queste elezioni presidenziali ci dicono del ginepraio afghano, dell’oscura “democrazia” americana costruita nel sangue e del funereo disordine disseminato dagli USA e dalla NATO in Afghanistan. Col tempo, questo Paese, specie per il senso comune occidentale, è divenuto un’incodificabile matassa di eventi. Proviamo a dipanare questa matassa tentando di dare agli eventi una loro conseguenzialità e delle basi materiali.
Per quest’obiettivo si può partire proprio dalle presidenziali 2019, ancora in corso. In che contesto avvengono? Avvengono, appunto, in un duopolio di poteri, tra Ghani e Abdullah Abdullah che seppure (o proprio perché) sovraordinato direttamente da Washington non è riuscito a proporre un proprio ordine, un proprio progetto politico e sociale; la distanza già profonda tra il governo Ghani- Abdullah Abdullah e il popolo afghano si fa immensa e in questo contesto i talebani, all’opposizione dei governi filoamericani che si sono succeduti dal 2001, cioè dall’invasione USA e NATO, consolidano ancor più il loro potere, politico e militare, sul territorio afghano. Un potere militare talebano che proviene anche dalla fatiscenza dell’“esercito regolare” afghano, il cosiddetto “Afghan National Army”, un’armata di semi mercenari privi di senso della patria e senso morale che senza il supporto continuo e determinante dei marines non sarebbe in nessun modo in grado di combattere e sostenere l’urto talebano. L’ “Afghan National Army” controlla a mala pena, e con i mille quotidiani problemi che l’occupazione militare imperialista e colonialista ha sempre nei confronti della popolazione, i governatorati di Ghowr, Daykondi, Bamian, Samangan e Balkh. A Kabul, considerata naturalmente dagli USA e dalla NATO la sede anche simbolica del potere “portato da Washington” e dunque superprotetta militarmente, la presenza organizzata jihadista permane e si fa notare con attentati continui. Mentre totale è il controllo militare talebano a Ghazni, Kunar, Helmnd, Kunduz, Sar-e Pul e persino, ora, nel territorio dell’ex base NATO di Farah.
Ma oltre l’insipiente duopolio di poteri al servizio USA le elezioni di questo settembre 2019 sono state caratterizzate dalle trattative di Doha, nel Qatar, tra USA e talebani, trattative che -anche sulla scorta di un’iniziale posizione di Trump espressa nella primavera del 2019 ed evocante “un totale disimpegno militare USA dall’Afghanistan” - sembravano poter sboccare in un concreto armistizio. Sino a fine agosto 2019 la stessa delegazione talebana trattante a Doha parlava di “ultimi dettagli” e “accordo vicino”, con gli USA. In un quadro che, dopo diciotto anni di guerra prodotta dall’invasione USA e NATO, prevedeva il ritiro dell’esercito USA e il ritorno al potere (al governo, in parlamento) dei talebani, con la promessa, da parte loro, di rompere ogni relazione, ogni unità di combattimento, col movimento al-Qaaeda. E seppur in un contesto che non prevedeva un serio smantellamento delle basi militari USA e NATO in Afghanistan (forse una quindicina, tra grandi, piccole e non conosciute), dato decisivo per capire le vere ragioni della presenza USA e NATO in Afghanistan, che non sono certo quelle di “colpire al-Qaaeda dopo l’attentato alle Torri Gemelle”, ma di collocare una poderosa postazione militare ai confini della Russia e anche in grado di minacciare la Cina) era questa trattativa che a fine agosto 2019 la delegazione talebana a Doha, definiva “prossima a concludersi” e che la stessa portavoce del Ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, si era detta pronta a garantire. Una trattativa, va detto, molto interessante anche per l’Italia, che in Afghanistan, tra Herat e Kabul, ha dislocato 800 militari, 145 mezzi terresti e dieci mezzi aerei che potrebbero tutti, uomini e mezzi, col ritiro USA e NATO, tornare a casa.
Trattativa che tuttavia Trump fa saltare con l’improvvisa dichiarazione del 20 agosto con la quale si afferma che “probabilmente non è ancora venuto il tempo della pace” e che comunque, “gli USA manterranno in Afghanistan almeno 8.600 soldati”. Oltre le basi USA e NATO, naturalmente. E poiché lo stesso Mullah Hibatullah Akhundzada, attuale guida dei talebani, dichiara immediatamente che il mantenimento degli 8.600 soldati USA in Afghanistan fa crollare ogni ipotesi di intesa, la trattativa a Doha si interrompe e si scatenano, subito dopo, decine di nuovi e sanguinosi attentati talebani nelle aeree “protette” dall’ “Afghan National Army” e dai marines, attentati che si aggiungono alle incursioni in atto di al-Qaaeda. Tutto ciò poco prima (e poi durante) le presidenziali di questo settembre.
Ma perché Trump decide – nei primi giorni di settembre, nel pieno della trattativa di Doha, poco prima delle elezioni e dopo aver annunciato il ritiro completo dell’esercito USA – di dichiarare la permanenza di un contingente militare in Afghanistan, invalidando così l’intera trattativa? È vero che il 19 agosto c’è un attentato, a Kabul, durante un matrimonio, con sessanta morti ed il 3 ed il 5 settembre vi sono altri due attentati, sempre a Kabul, con ventisei morti (tra cui due soldati americani) e 140 feriti (ed è in seguito a ciò che Trump annulla il vertice segreto che doveva tenersi a Camp David e a cui erano invitati sia una delegazione di talebani che il presidente Asraf Ghani). Ma Trump sa anche che questi attentati sono opera dell’ISIS, non dei talebani e che la stessa ISIS compie quelle stragi proprio per far saltare l’incontro di Camp David, la trattativa di Doha e la stessa linea dei talebani ora volta all’accordo.
Ed è a partire da ciò, da questo differente atteggiamento tra talebani ed ISIS sull’eventuale accordo sul (pur parziale) disimpegno militare USA in Afghanistan che va ridefinita l’attuale linea politica dei talebani. A questo proposito di grande importanza è la rivelatrice intervista che lo scorso 3 ottobre Qadir Hekmat, comandante militare talebano di sette provincie del nord dell’Afghanistan ha rilasciato, significativamente (per far conoscere, cioè, il nuovo profilo politico talebano all’occidente) al quotidiano “la Repubblica”.
L’intervista inizia con la seguente domanda del giornalista Giampaolo Cadalanu: “Come ha deciso di aderire ai talebani?”. Importante è la risposta: «Vivevo nel Logar con la mia famiglia, studiavo in una madrassa. All'inizio credevamo che gli americani fossero arrivati per ricostruire il Paese e portare sviluppo. E invece ci siamo accorti che massacravano donne e bambini, che entravano nelle nostre case con la forza, che uccidevano i musulmani o li imprigionavano senza motivo. Non è stato un incidente specifico a farmi decidere che volevo oppormi agli invasori. In realtà non c'è un solo villaggio dove non abbiano commesso crimini di guerra o ucciso innocenti».
Anche la domanda sull’organizzazione della lotta talebana, “Come è organizzata l'attività?”, suscita una risposta di grande interesse al fine della comprensione dell’attuale politica talebana e delle dinamiche in campo in Afghanistan: «C'è una riunione di vertice ogni due mesi, in coordinamento fra due strutture, i talebani legati alla Shura di Quetta e la rete Haqqani. Ogni network porta le risorse che ha disponibili per le operazioni: intelligence sul posto, armi, combattenti. Non ci sono rivalità, gli Haqqani sono più attivi a Nord e a Est, noi a Sud e a Ovest. Ma uniamo le nostre forze contro gli invasori americani e i militanti di Isis-Khorasan».
Vi è poi una domanda centrale, che di nuovo suscita una risposta interessante: “Che differenza c'è fra voi talebani e i fondamentalisti che giurano fedeltà ad Abubakr Al Baghdadi?” (attuale guida suprema di al-Qaaeda,n.d.r.). «Loro sono wahabiti, seguono l'influenza saudita. Di fatto hanno creato una nuova famiglia eretica, con l'aiuto degli ebrei e degli Stati Uniti, per dividere i musulmani. Ma le differenze sono soprattutto nelle operazioni. Noi non attacchiamo mai obiettivi civili, matrimoni, funerali. Americani e Isis, sì».
Prosegue Cadalanu: “Parliamo dei vostri nemici, Isis-K e americani. Li mette sullo stesso piano?”. Risposta: «Fanno lo stesso tipo di azioni militari, e collaborano fra loro. Se non fosse per le forze americane, che intervengono ogni volta per bombardarci quando accerchiamo gruppi di Isis-K, questi sarebbero stati spazzati via da tempo. Si vede che gli Usa hanno bisogno di aiuto per i loro piani. Vogliono soltanto impadronirsi delle nostre risorse. Se veramente fossero arrivati esclusivamente per catturare Bin Laden, sarebbero andati in Pakistan. Ma Islamabad è un loro alleato stretto, tanto è vero che non gli hanno mai imposto sanzioni. E quando se ne andranno lasceranno tutte le attrezzature al Pakistan, che pure è la madre di tutti i terrorismi. Mi stupisce che la Nato, Italia compresa, abbiano deciso di seguire gli Stati Uniti in questa operazione sciagurata».
Sulle trattative a Doha chiede il giornalista de “la Repubblica”: “Come giudica la sospensione dei colloqui di pace a Doha tra voi e gli americani?”. Risposta: «Noi non vogliamo un bagno di sangue ed eravamo pronti a firmare un accordo di pace, ma gli Usa ci hanno ripensato. Per noi non è un problema. Sul terreno stiamo vincendo, avanziamo senza sosta e abbiamo chi ci sostiene, in Iran, in Russia, in Cina, nello stesso Pakistan. Anche per l'ultimo attacco a Qalat, nella provincia di Zabul, con una grande esplosione su uffici governativi, abbiamo usato esplosivo arrivato da fuori».
Ora, è del tutto evidente che le posizioni talebane emerse da questa intervista, ma in genere da tutta la nuova linea politica talebana che va emergendo, non ci parla certo di un nuovo movimento rivoluzionario di carattere antimperialista e progressista, poiché la strategia sociale talebana non ha caratteri anticapitalisti e di liberazione e forte rimane l’elemento confessionale reazionario che, ad esempio, mantiene la terribile discriminante antifemminile, anche se nell’intervista il comandante talebano -attraverso una davvero orrenda “concessione”- afferma che il burqa non sarebbe più obbligatorio per le donne. Tuttavia emerge, nella linea talebana, un nuovo dato e cioè il carattere nazionale e nazionalista della lotta talebana volto alla cacciata degli invasori USA e NATO; emerge una nuova considerazione della concezione dello Stato islamico, che ora i talebani considerano come un nemico del popolo afghano, essendo sostenuto dagli USA e dall’ebraismo israeliano. E considerando sé stessi dei partigiani nazionalisti, i talebani collocano oggi la loro patria e la libertà dagli USA del loro popolo ben al di sopra della Umma, della comunità internazionale dei musulmani e della Jihad mondiale. Anche se tutto ciò è da verificare, naturalmente.
Perché, dunque, Trump, consapevole della nuova inclinazione politica dei talebani e del loro positivo atteggiamento verso l’accordo di Doha si muove per chiudere, almeno in questa fase, le trattative?
Per almeno tre motivi: primo, l’approssimarsi delle nuove elezioni presidenziali USA del novembre 2020, fatto che induce Trump a non mostrarsi cedevole, verso l’elettorato, con i terroristi ( pur sapendo che le azioni terroristiche portate avanti a ridosso delle trattative di Doha sono da attribuire all’ISIS e non ai talebani); secondo, le contraddizioni interne allo stesso establishment americano, caratterizzato sia da una linea volta alla fine dell’impegno militare USA in Afghanistan ( il più lungo della storia americana), linea rappresentata, sia pure in modo altalenante, dallo stesso Trump, che da una linea più dura e volta al permanere della presenza militare in Afghanistan, soprattutto in funzione antirussa e anticinese e rappresentata da John Bolton, estromesso infatti dal negoziato con i talebani ma influentissimo; terzo, il fatto che la ritirata degli USA e della NATO dall’Afghanistan interessa naturalmente e molto anche la Cina ( oltreché la Russia, il Pakistan e l’Iran) ed è questa la fase dell’acutizzazione dello scontro economico, della guerra doganale, con la Cina. Questi sono i punti reali del ripensamento di Trump sulle trattative a Doha e non certo gli attentati dell’ISIS, che peraltro, assieme agli attacchi dei talebani, mai sono cessati dall’invasione USA e NATO del 2001.
Ma per comprendere ancora meglio la fase afghana successiva all’invasione USA e NATO possiamo ripercorrere, mettere a fuoco, le biografie dei presidenti Kazal e Ghazi e del primo ministro Abdullah Abdullah, sicuramente tra i più importanti uomini politici afghani dal 2001.
Iniziamo con la biografia di Karzai, che è il primo presidente post-invasione americana.
Hamid Karzai proviene da una famiglia pashtun, tra le maggiori sostenitrici del re Zahir Shah e parte del potente clan Popalzay, influentissimo nell’intero Afghanistan. Inserito in questa cerchia del potere Karzai inizia molto giovane la propria esperienza politica. Si laurea alla Habibia High Scholl di Kabul nel 1979, arricchisce i propri studi con un corso pst lauream in Scienze Politiche presso l’università indiana Himachal Pradesh per poi tornare in Afghanistan a supportare la lotta militare contro il governo comunista e i sovietici. In questa fase viene contattato dalla CIA, che fiancheggia, sostiene economicamente ed organizza militarmente i mujaheddin e che lo arruola nella guerra antisovietica. Un ruolo nella CIA e nella lotta anticomunista che sarà per Karzai il viatico per una grande carriera politica nel proprio Paese, sempre al servizio degli USA. Dopo la caduta del governo rivoluzionario, d’ispirazione marxista e comunista di Mohammed Najibullah, a Karzai viene dato l’incarico di viceministro degli Esteri nell’Esecutivo di Burhanuddin Rabbani, governo dei mujaheddin che avevano battuto i sovietici con il grandissimo aiuto economico, politico e militare degli USA, della NATO e di tanta parte dell’occidente capitalistico. Negli anni ’90, quando emerge in Afghanistan la forza dei talebani, inizialmente Karzai sostiene questa nuova forza, per poi prenderne le distanze. Quando i talebani entrano a Kabul, nel 1996, e destituiscono il governo Rabbani instaurando il loro potere, Karzai si rifiuta di rappresentare, come ambasciatore afghano, questo nuovo potere all’ONU e si reca in esilio, con la propria famiglia, a Quetta, in Pakistan. Da Quetta Karzai lavora assiduamente al fine di rovesciare il potere talebano per riconsegnarlo al re Zahai Shah. Per questo motivo il padre di Karzai verrà assassinato dai talebani, nel 1999. Nel periodo successivo all’attentato alle Torri Gemelle, l’11 settembre 2001, Karzai combatte con la Lega militare dell’Alleanza del Nord, filoamericana, unendosi poi all’invasione statunitense dell’Afghanistan. Questa scelta di campo sarà decisiva, per Karzai, per vincere le elezioni presidenziali del 9 ottobre 2004 quando, con il totale appoggio dell’Amministrazione USA di George W. Bush, batte gli altri 22 candidati e diviene il primo presidente afghano eletto. Nelle presidenziali del 2009, come già abbiamo visto, Karzai ha come maggiore avversario politico Abdullah Abdullah, che accusa Karzai di corruzione e manipolazione delle votazioni. Karzai viene di nuovo eletto presidente. Ma nonostante il pieno appoggio che gli deriva dalla presenza USA e dalle basi NATO in Afghanistan, Karzai non riesce mai a divenire il vero presidente del Paese, ma solo “il sindaco di Kabul”, in quanto circa l’80% dei territori rimangono in mano ai talebani. A rafforzare ancor più l’immagine di Karzai quale uomo profondamente corrotto e vero uomo-servo dell’imperialismo, tre fatti: il fratello di Karzai, Ahmed Wali Karzai, era stato assunto dalla CIA per reclutare paramilitari nella lotta contro il governo comunista afghano e ciò gli valse come salvacondotto, da parte della CIA e della NATO, per proseguire tranquillamente il proprio “lavoro” di grande trafficante d’oppio. Hamid Karzai stesso aveva lavorato, prima dell’ascesa politica, come consulente della compagnia petrolifera Unocal, fatto che conferma ancor più il rapporto organico e subordinato di Karzai con l’occidente capitalistico. Per ultimo il giudizio del generale sovietico Igor’ Rodionov su Karzai: “Egli non ha nessun legame col popolo afghano. È solo uno dei grandi capi della mafia afghana”.
Veniamo ad Abdullah Abdullah: si laurea in medicina all’università di Kabul e nel 1984 si è trasferisce in Pakistan, esercitando presso l’ospedale dei Rifugiati delle famiglie afghane. Partecipa alla lotta contro l’intervento sovietico e contro il governo comunista della Repubblica dell’Afghanistan e diviene il capo del Dipartimento della Salute per il Fronte di resistenza del Panjshir, quel Fronte guidato da Massoud, che negli anni ’80 aveva molto contribuito, con l’aiuto determinante in armi, soldi e sostegno organizzativo degli USA, della NATO e di tanta parte del fronte capitalistico occidentale, a sconfiggere i sovietici e che negli anni ’90, nella lotta contro i governi talebani ( una lotta che contro gli orrori talebani è giusta ma che si colloca sul fronte filo imperialista) concorre alla vittoria americana aprendo la strada alla missione Enduring Freedom, diretta all’invasione dell’Afghanistan e che nel 1992, caduto sotto la spinta dei mujaheddin sostenuti dagli USA il governo talebano, entra come ministro della difesa nel governo pro occidentale di Burhanuddin Rabbani. Abdullah Abdullah, nell’Alleanza del Nord - struttura militare foraggiata dall’occidente - che organizza nel Panjshir la lotta contro i governi talebani degli anni ’90, diviene uno dei più importanti collaboratori del comandante dei mujaheddin Ahmad Shah Massoud e ciò gli varrà come importante salvacondotto per la propria carriera politica, sia nella fase che precede l’invasione statunitense ( nel 1992 è ministro degli Esteri per il governo in esilio della Repubblica islamica anti talebana e filo occidentale) che nella fase successiva all’intervento USA e NATO, quando diviene primo ministro e tra i più autorevoli candidati alla presidenza dell’Afghanistan.
Meno ricca politicamente, ma altrettanto chiara in relazione all’appartenenza al mondo culturale e ideologico nordamericano e occidentale, è la biografia politico-intellettuale di Ashraf Ghani, attuale presidente, in attesa dell’esito elettorale del 28 settembre, dell’Afghanistan.
Ghani, di etnia pashtun, si laurea presso l’American University di Beirut nel 1973 e si perfeziona in antropologia nel 1977 alla Columbia University. Sarà un alto funzionario della Banca Mondiale e poi ministro delle Finanze e consigliere-capo di Karzai nel primo governo dopo l’invasione USA-NATO.
Poiché l’intento di questo scritto è far luce sulla complicata storia afghana degli ultimi decenni, dagli anni ’70 sino ad oggi, ci pare opportuno offrire al lettore una cronologia dei fatti che, a partire dai primi anni ’70, giunga sino ad ora.
-Dal 1933 sino al 1973 l’Afghanistan è guidato dal re Zahir Shah;
-a partire dagli anni ’50 il Paese stringe, anche per difendersi dall’Iran e dal Pakistan filo americani, ancor più i rapporti con l’Unione Sovietica, rapporti che erano solidi sin dalla Rivoluzione d’Ottobre;
-nel 1964 il re approva una nuova Costituzione, di impianto liberale, con libere elezioni e più vasti diritti politici e civili;
-nel 1973 Zahir Shah viene detronizzato da un colpo di stato guidato dal principe Mohammed Daud. L’Afghanistan diviene una repubblica e Daud viene eletto presidente. Le sue sono politiche liberali, segnate da elementi progressisti e democratici. Daud ribadisce il rapporto dell’Afghanistan con l’URSS, pur proponendo per il proprio Paese una prospettiva liberista e capitalista. Forte è il suo impegno per la liberazione della donna;
-nell’aprile del 1978 scoppia in Afghanistan la “Rivoluzione d’aprile”, d’impianto marxista e comunista e guidata dal Partito Democratico del Popolo Afghano (PDPA). Daud, nell’insurrezione rivoluzionaria, viene ucciso. Alla guida del Paese viene eletto il comunista Mohammad Taraki, con Babrak Karmal vicepremier. Si lanciano immediatamente politiche anticapitaliste, contrarie ai latifondisti, ai poteri reazionari tribali e favorevoli alle aree proletarie e alla più grande massa dei contadini; si punta ad una profonda laicizzazione del Paese e ad una vastissima estensione dei diritti, innanzitutto quelli per le donne. Tuttavia, il grande impianto riformatore si scontra con il senso comune dal carattere conservatore e reazionario di vasti strati della popolazione e ciò favorisce l’organizzazione controrivoluzionaria islamica armata;
-già nel 1979 le diverse forze dell’organizzazione controrivoluzionaria islamica, grazie ad un immediato quanto vasto appoggio economico, politico e militare dell’occidente capitalistico al quale si aggiunge il poderoso aiuto dell’Iran e del Pakistan, fanno un salto di qualità e si costituiscono nel Fronte Unico di Resistenza, che giunge a controllare l’80% del territorio afghano. Nelle contraddizioni che i successi della controrivoluzione aprono in seno al governo il presidente comunista della Repubblica, Taraki, viene ucciso e il potere passa nelle mani di Amin, sempre del PDPA ma, per le sue posizioni ritenute estremiste, inviso ai sovietici. Tra il 27 ed il 28 dicembre, difronte all’estensione del processo controrivoluzionario sostenuto sia dai paesi imperialisti che dalle potenze regionali reazionarie, l’URSS interviene militarmente in Afghanistan. Amin viene ucciso dai servizi segreti dell’URSS e al suo posto viene chiamato Karmal;
-nel 1980 il presidente nordamericano Jimmy Carter dichiara che gli USA sono pronti all’intervento militare diretto in Afghanistan e nel frattempo sostengono un poderoso piano di aiuti economici e militari al Pakistan per respingere l’avanzata sovietica;
-nel 1982, per la prima volta, le forze controrivoluzionarie islamiche attaccano Kabul;
-nel 1984 è il nuovo presidente, Ronald Reagan, a dichiarare che gli USA invieranno missili Stinger ai controrivoluzionari islamici;
-nel 1985, mentre Gorbaciov, neopresidente dell’URSS, inizia a pensare al ritiro dell’esercito sovietico in Afghanistan e a proporre agli USA soluzioni pacifiche per il conflitto, Reagan dichiara di inviare al Pakistan, al fine di farli giungere alla controrivoluzione islamica, i missili Sidewinder, che si aggiungono agli Stinger;
-nel 1986 gli USA dichiarano che il loro sostegno economico alla guerriglia controrivoluzionaria ha raggiunto i 470 milioni di dollari; difronte all’allargamento del sostegno imperialista e reazionario alla guerriglia islamica si acutizzano i problemi all’interno del governo comunista afghano: Babrak Karmal non viene più sostenuto da Gorbaciov e viene sostituito, sia come segretario generale del PDPA che come capo del governo, da Najibullah, che, sulla spinta del nuovo presidente sovietico, lancia in patria una proposta di conciliazione nazionale, letta dagli USA e dalla guerriglia controrivoluzionaria come un primo passo per la resa. Ciò mentre lo stesso Gorbaciov ritira dall’Afghanistan ben sei reggimenti e insiste sul ritiro totale dal terreno afghano, con la contrarietà di una parte del PCUS e dell’Armata Rossa;
- il 25 maggio del 1988 Gorbaciov annuncia ufficialmente il ritiro di una buona parte dell’Armata Rossa dall’Afghanistan e a luglio Najibullah forma un governo con alcuni ministri non comunisti;
-il 15 febbraio del 1989 Gorbaciov ordina il ritiro totale dei soldati sovietici, mentre i guerriglieri musulmani, con l’aiuto determinante degli istruttori militari della CIA, della NATO e degli ufficiali pakistani, si organizzano in un esercito regolare, ben armato ed equipaggiato dal sostegno economico USA e di buona parte del fronte occidentale;
-tra l’aprile e il giugno del 1992, dopo l’autoscioglimento dell’URSS, il movimento controrivoluzionario islamico – al cui interno, nel frattempo, si aprono violente e sanguinose contraddizioni - prende Kabul e costituisce, con la benedizione esplicita degli USA, un governo con a capo Burhannudin Rabbani;
-nel 1993 le terribili faide interne al movimento controrivoluzionario portano ad una prima guerra tra le truppe fedeli al governo di Rabbani e quelle di Hekmatjar, guerra che produce circa 10 mila morti;
- nel 1994 si acutizzano ancor più le lotte interne al movimento controrivoluzionario e si indebolisce il governo Rabbani; nel caos prende corpo il nuovo movimento degli “studenti della teologia coranica”, i talebani, che proprio in questo 1994 appaiono per la prima volta in azioni armate;
-nel 1995, con il massiccio aiuto militare del Pakistan, i talebani crescono a dismisura e iniziano a conquistare vasti territori dell’Afghanistan; il governo controrivoluzionario è in piena crisi e il 20 settembre i talebani inviano a Rabbani un ultimatum perché in cinque giorni lasci Kabul; il 10 ottobre i talebani spostano 400 carri armati da Kandahar verso Kabul;
-il 20 marzo del 1996 la Shura dei talebani incita il popolo afghano alla guerra santa, la Jihad, contro il governo Rabbani e Mohammad Omar viene proclamato guida spirituale e politica dei talebani;
- il 26 giugno Hekmatjar entra nel governo Rabbani e ne diventa primo ministro;
-il 26 settembre i talebani conquistano Kabul. Rabbani ed Hekmatjar fuggono. Omar è nominato capo di un Consiglio provvisorio;
-il 28 settembre gli USA si dichiarano disponibili a stabilire relazioni con il nuovo governo talebano;
- nel febbraio del 1997 una delegazione talebana visita gli USA; la politica americana del doppio binario prende corpo e dopo i primi rapporti con i talebani Washington benedice anche la costituzione dell’Alleanza del Nord, l’unità militare anti talebana e filo occidentale costituitasi tra l’ex capo del governo Rabbani ed altre fazioni musulmane già anticomuniste;
-il 18 agosto del 1998 la guida talebana Omar dichiara che il suo governo darà asilo ad Osama bin-Laden;
-nel 2000 il governo dei talebani, pur nelle altissime tensioni regionali e internazionali, è consolidato e il 13 luglio l’ex presidente Rabbani denuncia una scarsa attenzione e scarsi aiuti USA e occidentali all’alleanza anti talebana afghana; la doppia linea USA nei confronti del potere talebano continua;
- il 1° ottobre una delegazione talebana è ricevuta a Washington, al Dipartimento di Stato, mentre il 21 novembre gli USA chiedono all’ONU l’inasprimento delle sanzioni contro il governo afghano, sia per l’ospitalità a Osama bin-Laden che per le politiche ultrareazionarie condotte dal governo Omar.
Il governo dei talebani, che trasforma l’Afghanistan in un Emirato Islamico, dura dal 1996 sino al 2001, quando viene travolto dall’invasione USA e NATO. I soli Paesi che lo riconoscono sono gli Emirati Arabi, il Pakistan e l’Arabia Saudita.
I rapporti degli USA con il governo talebano si rileveranno alquanto opachi, ambigui. Come abbiamo visto Washington, nella fase di presa del potere dei talebani, alterna tentativi di costruzione delle relazioni diplomatiche con il movimento di Omar ad aiuti espliciti all’Alleanza del Nord, l’unità delle forze politiche e militari che si era costituita nella lotta contro la Rivoluzione d’aprile. La stessa ambiguità USA si perpetrerà durante il governo Omar. In verità, in quella fase, gli USA non hanno ancora un progetto strategico compiuto verso l’area Afghanistan-Pakistan-Iran-Asia centrale, ma il sostegno, seppur mascherato, al governo talebano proviene essenzialmente dal fatto che il Pakistan e l’Arabia Saudita – colonne filo americane nella regione- sono paesi schierati nettamente con i talebani, e la nuova alleanza tra l’Afghanistan di Omar, il Pakistan e l’Arabia Saudita aumenta fortemente, nell’occhiuto interesse USA, la potenza di fuoco contro l’Iran rivoluzionario di Khomeini e l’intero mondo antiamericano sciita. Tra il 1995 ed il 1997, oltretutto, il sostegno USA ai talebani si rafforza per l’interesse americano al gigantesco progetto petrolifero Unocal che prevede la costruzione di una pipeline tra il Turkmenistan ed il Pakistan che deve passare per l’Afghanistan: un interesse strategico così grande e futuribile da oscurare ogni altra questione posta dai talebani, compresa la violenta e medievale attuazione della Sharia.
Quando, nel 1995, i talebani conquistano Herat e decidono, come prima misura, di espellere dalle scuole tutte le ragazze, gli USA decidono di tenere a freno ogni critica (che pure si alza dalla società civile ed intellettuale USA) affascinati come sono dal fatto che la conquista di Herat, secondo i servizi segreti pachistani (ISI), può significare un aiuto al progetto Unocal e un colpo contro il petrolio iraniano. Lo stesso accade quando i talebani entrano a Kabul, nel 1996, e la CIA viene convinta dai servizi segreti di Islamabad che con il potere talebano sarà certamente possibile realizzare il progetto petrolifero dell’Unocal. In quella fase i massimi esponenti della politica estera USA convincono la Casa Bianca che con l’Afghanistan talebano si sarebbero ripetute le stesse dinamiche positive che gli USA avevano vissuto con l’Arabia Saudita negli anni ’20. E che, soprattutto, i talebani, alla fine, avrebbero scelto la stessa linea filo americana che avevano già praticato i mujahedin saliti al potere dopo che aver sconfitto il governo comunista, essendo i talebani, per gli esperti di politica internazionale USA di questa fase, solo un’altra, subordinabile, costola del movimento generale islamico afghano.
La stessa questione legata ad Osama bin-Laden, che Washington vuole sia estradato dall’Afghanistan negli USA (richiesta sempre respinta dal governo Omar) non sembra, nella fase che precede la crescita del movimento talebano, creare ancora troppi problemi a Washington, che non ha ancora saggiato la vendetta che Osama-bin Laden ha in serbo per gli USA.
Perché, allora, nel 2001 gli USA e la NATO dichiarano guerra al governo talebano ed invadono l’Afghanistan?
Certo, ci sono le Torri Gemelle e l’impatto devastante che il loro fuoco, l’11 settembre del 2001, ha sul senso comune del popolo nordamericano, che chiede vendetta. Una richiesta di guerra così profonda, così ventrale, così di massa che sembra scaturire da uno stesso, occulto disegno del potere USA.
In verità, sul piano generale, nel quadro internazionale, le cose sono celermente e inaspettatamente cambiate dalla prima fase della lotta talebana per il potere. Innanzitutto, dopo la caduta dell’URSS (1991) che aveva dato al fronte imperialista l’illusione che la storia fosse finita e fosse giunto il tempo del dominio imperialista totale ed incontrastato, un processo nuovo e inaspettato si mostra agli occhi della Casa Bianca: la crescita improvvisa, che si organizzava attorno allo sviluppo economico titanico della Cina, di un fronte antimperialista in progress che da lì a pochi anni (2009) si sarebbe addirittura costituito nei BRICS ( l’unità tra Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa).
Rispetto a questo vero e proprio sommovimento tellurico geopolitico torna in auge e diviene linea guida l’analisi già formulata, negli anni successivi alla caduta dell’URSS, del generale USA W.E. Oden, che così rifletteva: “ La scomparsa della minaccia sovietica non ha reso obsoleto il sistema di sicurezza guidato dagli USA e creato per contenerla; l’idea diffusa che la fine della guerra fredda abbia rimosso il bisogno di una leadership degli USA nelle tre aree strategiche ( Europa, Giappone-Corea, Golfo Persico- Asia Centrale) è pericolosamente sbagliata, anzi è divenuta più importante per il collasso dell’URSS. Questo è ancor più vero nel Transcaucaso e nell’Asia Centrale”.
Questa del generale Oden è un’analisi dirompente che, aggiunta all’esigenza imperialista di contrapporsi al nascente e nuovo fronte antimperialista che sarebbe poi sboccato nei BRICS, spinge gli USA ad una nuova politica di espansione militare globale e specificatamente ad un’espansione della NATO verso l’Asia centrale, ai confini di Russia e Cina.
La conquista dell’Afghanistan come postazione più avanzata delle basi USA e NATO diviene, agli occhi della nuova dottrina militare della Casa Bianca, elemento decisivo e l’abbattimento del potere talebano, che andava rivelandosi indocile e ben diverso da quello dei precedenti mujahidin sorti dalla lotta anticomunista foraggiata dalle forze imperialiste, obiettivo necessario. D’altra parte, anche il progetto Unicol per il grande oleodotto che doveva attraversare l’Afghanistan, sia come necessità degli USA che come colpo al petrolio iraniano, era stato respinto dal governo talebano. Oltre ciò, a rendere ancor più verosimile l’analisi e la linea di guerra del generale Oden, un significativo e nuovo fenomeno prende corpo: i cinque grandi Paesi del Turkestan occidentale (Kazakistan, Uzbekistan, Tagikistan, Turkmenistan e Kirghizistan), Paesi ricchi di idrocarburi e materie prime, vivono una fase, dopo l’indipendenza dall’URSS, di confusa transizione economica e politica, che attrae fortemente Washington. Anche per ciò, e non è poco, aumenta l’esigenza USA di collocare in Asia Centrale una nuova e forte presenza militare e l’Afghanistan si presta, agli occhi americani, come base centrale di tale presenza.
Su questo nuovo quadro, peraltro, s’abbatte anche il cambiamento radicale degli USA verso Osama-bin Laden. La vasta famiglia Bin Laden, notoriamente, aveva vissuto, sin dagli anni ’60, una lunga fase di giganteschi affari in comune, negli USA, con la famiglia Bush, nel campo petrolifero. Affari in comune facilitati dalla stessa CIA, della quale peraltro George Bush senior, tra i più grandi petrolieri americani, era stato direttore dal 1976. Osama, però, rispetto agli altri membri della sua famiglia, nutre anche ambizioni politiche. Nella guerra USA-mujaheddin contro il governo comunista afghano e contro i sovietici si schiera con gli USA e con il movimento islamico controrivoluzionario, sostenendolo lautamente sul piano economico. Osama diviene uno dei più importanti finanziatori dei mujaheddin e con la completa assistenza degli USA, del Pakistan e dell’Arabia Saudita e attraverso il proprio Maktab al-Khadamat (Mak, Ufficio d’ordine) riesce ad incanalare verso l’Afghanistan denaro, armi e combattenti musulmani da tante parti del mondo.
Ma tra il ’90 ed il ’91 il cartello finanziario autonomo che Osama bin-Laden aveva, come membro dell’intera famiglia Bin Laden, con la famiglia Bush si rompe e Osama, già attratto politicamente dal nuovo Afghanistan islamizzato, decide di investire sugli interessi petroliferi afghani. La stessa invasione USA del Golfo Persico radicalizza in senso antiamericano le posizioni di Osama bin-Laden, che inizia a concepire la propria vendetta e la propria guerra anti USA. Le operazioni di al-Qaaeda e le sue grandi organizzazioni del terrore si spostano in Afghanistan; i pachistani mettono Osama in contatto con i talebani e con lo tesso Omar. Una pioggia di denaro viene sposto da Osama a favore dei talebani. Nel 1998 Osama fa esplodere le ambasciate americane in Africa e gli USA rispondono bombardando con un diluvio di missili le postazioni di al-Qaaeda in Afghanistan. Questi bombardamenti convincono definitamente il governo talebano a respingere il progetto Unicol volto al passaggio del grande oleodotto in Afghanistan. Per gli USA è il tempo della guerra e l’esplosione delle Torri Gemelle decreta l’avvio di un attacco da tempo progettato. Il 9 ottobre del 2001 è il giorno dell’attacco e dell’invasione USA in Afghanistan e di nuovo l’Alleanza del Nord, costituita dalle forze che avevano combattuto contro il governo comunista, è a fianco degli USA e della NATO.
In questo quadro generale, che va dai primi anni ’70 ad oggi, è del tutto evidente che le fasi del governo comunista in Afghanistan e dell’intervento sovietico assumono un carattere centrale che va analizzato. Anche alla luce di quell’esperienza comunista che in troppi hanno rimosso, sia, naturalmente, le forze imperialiste e occidentali che diverse forze di sinistra e persino comuniste europee.
Come già scritto il Partito Democratico Popolare dell’Afghanistan (PDPA), partito marxista e comunista, prende il potere nel 1978 e lo detiene sino al 1992. All’inizio del 1978, ricordiamo, vi è in Afghanistan il governo presieduto da Mohammed Daud Khan, un governo dal carattere democratico -progressista e laico che tuttavia, proprio per la sua incerta natura, scontenta sia l’ala reazionaria e fondamentalista islamica che l’ala rivoluzionaria capeggiata dal PDPA. Il 17 aprile del 1978 viene assassinato un importante dirigente comunista, Mir Akbar Khiber, amatissimo tra la popolazione. Il 27 aprile i comunisti del PDPA si mettono alla testa dei contadini, dei cittadini rivoluzionari e degli alti ufficiali delle forze armate e assaltano, conquistandolo, il palazzo presidenziale di Kabul, proclamando la vittoria della Rivoluzione di Saur (d’aprile) e la costituzione della Repubblica Democratica dell’Afghanistan.
Il programma messo subito in atto dal governo rivoluzionario è essenzialmente caratterizzato da queste misure: la nazionalizzazione delle banche; una riforma agraria che redistribuisce le terra a 200 mila famiglie contadine; l’abrogazione dell’ “ushur”, la decima parte che i braccianti dovevano ai latifondisti; la proibizione dell’usura, vissuta dalla popolazione come pratica naturaliter; il riconoscimento del diritto di voto alle donne; il divieto, attraverso il cambio della legislazione, dei matrimoni forzati e di interesse; la legalizzazione dei sindacati; la laicizzazione delle tradizionali e spesso brutali leggi tradizionali religiose; la proibizione dei tribunali tribali, da cui provenivano condanne feroci contro le donne e contro ogni diversità sociale e sessuale; l’abolizione della legge tradizionale che imponeva il burqa alle donne e quella che impediva alle bambine di frequentare le scuole, con una conseguente campagna di massa per l’alfabetizzazione, specie femminile; l’abolizione dello scambio economico nei matrimoni combinati; un vasto progetto di edificazione, nelle zone rurali, di scuole e ospedali; una lotta ideologica contro gli aspetti più deleteri della religione islamica che tuttavia non prevede nessuna penalizzazione della stessa religione, una lotta ideologica che tuttavia le gerarchie islamiche, fortemente colpite dalla riforma agraria e dall’abolizione dell’ “ushur”, raccontano invece come persecuzione violenta. E parte proprio da questi centri del potere ecclesiastico l’incitazione al popolo per una guerra santa (la jihad) contro il potere comunista, per gli “uomini senza dio”. Ben presto, attorno alle gerarchie ecclesiastiche si organizzano le forze islamiche controrivoluzionarie che in breve saranno appoggiate, fortemente sostenute, sul piano economico, politico e militare sia dagli USA e dalla NATO che dal Pakistan e da un vasto fronte imperialista mondiale.
Il 3 luglio del 1979 Jimmy Carter, presidente degli USA, firma la prima deliberazione per l’organizzazione degli aiuti militari ed economici segreti ai mujaheddin afghani, dando compito alla CIA di tessere una rete con tutti i Paesi arabi al fine di sostenere la lotta controrivoluzionaria. La base per la raccolta fondi e per l’addestramento militare di migliaia di islamisti anticomunisti che provenivano sia dall’Afghanistan che da tante altre aree del mondo la offre il Pakistan. Carter da un sostegno politico e ideologico a questo vasto impegno controrivoluzionario mettendo a fuoco quattro punti:
-scoraggiare i Paesi del Terzo Mondo a cercare vie rivoluzionarie socialiste;
-cercare per gli USA un nuovo alleato, dopo la perdita dell’Iran rivoluzionario, in una zona geo strategicamente centrale;
-rimuovere dal senso comune americano e occidentale il peso della sconfitta imperialista in Vietnam;
-attrarre l’Unione Sovietica nella guerra al fine di aprire profonde contraddizioni al suo interno.
Al comando della guerriglia anticomunista, gli USA, il Pakistan e l’Arabia Saudita pongono Gulbuddin Hekmatyar, già noto per la crudeltà con cui puniva i comunisti, i sostenitori del governo rivoluzionario e gli “infedeli”, sfigurando con l’acido le donne che non rispettavano, ad avviso dei mujaheddin, i precetti islamici e persino, per creare terrore nelle file comuniste afghane e poi tra i soldati sovietici, lo scuoiamento da vivi e l’amputazione, con tanto di foto divulgate, di dita, orecchie e genitali. Col vasto appoggio militare ed economico del fronte arabo e occidentale coordinato dalla CIA, in breve tempo i mujaheddin diventano un’armata. Gli USA colgono così gli obiettivi che si erano prefissati con la cosiddetta “Operazione Ciclone”, strategicamente e scientemente diretta ad abbattere il governo comunista afghano, a trovare nell’Afghanistan il nuovo Paese di riferimento nella regione, a conquistare i Paesi arabi e a costringere l’Unione Sovietica ad intervenire, nel tentativo di dissanguarla, in un territorio terribilmente difficile come quello afghano, di fronte alla nuova armata islamica messa in piedi da Obama bin-Laden, dai Paesi arabi, dagli USA e dal fronte imperialista mondiale. E’ del tutto evidente che, attraverso l’“Operazione Ciclone”, gli strateghi della CIA e del governo USA puntavano a mettere a valore, prolungandola in un’esperienza terribile come quella afghana, l’esperienza della Guerra Fredda e della corsa al riarmo, che se faceva bene, in termini di profitti e in termini imperialisti (per i mercati mondiali di guerra che si aprivano alle imprese belliche USA) al grande apparato finanziario-militare americano, molto male faceva all’URSS, che era costretta a spostare ingenti ricchezze sugli armamenti piuttosto che sul proprio sviluppo industriale e sociale.
L’intervento sovietico in Afghanistan ha subito molte letture distorte, molte menzogne e tante condanne, non solo dal mondo imperialista, occidentale e arabo, ma anche da tante forze di sinistra europee, compreso il PCI dell’epoca, mentre gran parte dei partiti comunisti mondiali ed europei hanno compreso le ragioni sovietiche. Tra le accuse all’URSS vi è stata quella di un intervento improvviso e violento in un Paese autonomo, una sorta di occupazione militare, un’invasione.
In verità i rapporti tra URSS ed Afghanistan avevano già una storia molto lunga, che si era sviluppata molto prima della costituzione del governo comunista a Kabul. Già nel 1919 il governo afghano del re Amanullah Khan fu il primo a riconoscere il governo bolscevico instauratosi a Mosca dopo la Rivoluzione d’Ottobre, ricevendo in cambio, da Lenin, un sostegno decisivo nella lotta afghana di liberazione dal colonialismo britannico; nel 1921 fu siglato un trattato di amicizia tra URSS e Afghanistan che prevedeva anche il reciproco aiuto militare; nel 1953 il primo ministro afghano Daud abbandona definitivamente la tradizionale linea afghana di neutralità internazionale e avvia rapporti più stretti con Mosca, rapporti che si protraggono sino agli anni’70, ben prima della Rivoluzione d’aprile.
Ricordiamo: il 27 aprile del 1978 i comunisti del PDPA prendono il potere a Kabul ed immediatamente scatta la gigantesca “Operazione Ciclone” internazionale imperialista contro la Rivoluzione. Già nel marzo del 1979 durissima ed estesa su gran parte del territorio nazionale è la controrivoluzione dei mujaheddin alla quale da un grande contributo anche Osam-bin Laden. La controrivoluzione gioca sul malcontento della vasta popolazione islamica, sulla quale i comunisti lanciano una grande riforma laica, e gioca sulle stesse ali dell’esercito afghano che sia Bin Laden che l’“Operazione Ciclone” vanno conquistando, con promesse di grandi prebende future. I militari anticomunisti insorgono a Kabul e la rivolta viene repressa nel sangue, ma entro la metà del 1979, 25 delle 28 province afghane si rivoltano contro il governo. Di fronte al caos diversi esponenti governativi del PDPA sono estromessi dallo loro cariche e un importante dirigente come Karmal viene allontanato dal Paese e inviato come ambasciatore a Praga. In questa fase, 1979, presidente del Consiglio rivoluzionario è Nur Muhammad Taraki, che difronte alle insurrezioni controrivoluzionarie accentua (contrariamente a quanto suggeriva la stessa Unione Sovietica, più propensa a difendere la Rivoluzione attuando le riforme in tempi più lunghi e con più attenzione verso la cultura islamica della popolazione) sia la politica riformatrice che la lotta di repressione contro la reazione islamica. Ma l’ala oltranzista del PDPA giudica addirittura moderata la politica di Taraki e il 16 settembre del 1979 il ministro della Difesa, Hafizzulah Amin, rovescia il governo, uccide Taraki e prende la guida della Rivoluzione. Da questa fase in poi la Rivoluzione accelera ancor più i suoi passaggi riformatori e la lotta contro ogni resistenza islamica, sino al punto da provocare una vastissima opposizione popolare a guida islamica reazionaria, alla cui testa si pone l’intervento imperialista e arabo. Sarà lo stesso KGB sovietico, con Andropov in testa, ad iniziare a sospettare che Amin, nella sua spinta ultra rivoluzionaria e oggettivamente carica di provocazioni antipopolari, possa persino essere un fiancheggiatore della CIA. E sono queste profonde perplessità che frenano l’URSS ad intervenire nel territorio afghano, anche quando Amin, per ben 19 volte, chiede a Breznev l’intervento militare sovietico.
Infine, il 24 dicembre del 1979, l’URSS invia il proprio esercito in Afghanistan. Breznev era giunto a pensare che se l’Afghanistan fosse stato conquistato dai mujaheddin al servizio del fronte imperialista, pachistano e arabo, non solo la Rivoluzione afghana sarebbe stata sconfitta, con gravi ripercussione sull’intero fronte mondiale antimperialista e anticolonialista, non solo le basi militari USA e NATO, in piena Guerra Fredda, avrebbero portato le loro bocche di fuoco in prossimità dei confini sovietici, ma anche che l’islamismo al potere a Kabul potesse divenire destabilizzante per le grandi aree sovietiche tagiche e uzbeche, culturalmente prossime all’Islam. Il primo atto dell’Armata Rossa a Kabul fu quello di deporre da capo del governo Amin (che sarà, come abbiamo visto, ucciso) in ragione di una visione strategica più ampia e razionale (secondo l’URSS) di quella del gruppo dirigente del PDPA e di sostituirlo con Babrak Karmal. Il 4 maggio del 1986 Karmal, sotto i colpi della controrivoluzione, si dimette da segretario nazionale del PDPA e viene sostituito da Najibullah, che nel 1987 viene eletto presidente della Repubblica. Quello che sarà l’ultimo presidente comunista emana una nuova Costituzione – segno della sconfitta vicina e delle nuove politiche conciliatrici gorbacioviane - che prevede il multipartitismo, questione che per nulla affascina i mujaheddin ma che si suppone possa essere giudicato positivo dagli USA e dal fronte occidentale. Difronte al crescere dell’onda controrivoluzionaria Najibullah tenta di venire a patti con i leader dei fondamentalisti islamici e sempre sospinto da Gorbaciov cambia anche il nome dello Stato, che da Repubblica Democratica dell’Afghanistan si avvilisce nel più innocuo Repubblica dell’Afghanistan. Secondo la linea gorbacioviana offre seggi e ministri ai ribelli in armi. Ma ormai tutto è inutile: i mujaheddin, sospinti dalle poderose forze straniere in campo, sentono vicina la vittoria e puntano solo alla presa totale del potere. Quando Yeltsin, primo presidente della Federazione russa, nel 1992, dopo la resa di Gorbaciov e dopo lo scioglimento dell’URSS, taglia i fondi al governo di Kabul e dopo che le truppe sovietiche avevano già lasciato il Paese, Najibullah è costretto a dimettersi e rifugiarsi presso l’ambasciata dell’ONU, da dove lancia un grido d’aiuto ai governi di tutto il mondo, naturalmente inascoltato. Najibullah sarà poi impiccato ad un lampione dai talebani, nei giorni del loro ingresso a Kabul.
L’Armata Rossa resterà in Afghanistan circa dieci anni e si ritirerà - sconfitta dal grande fronte imperialista in campo, dalle ingenti forze portate da Osam bin-Laden, dal Pakistan, dall’Arabia Saudita, dal mondo arabo e dai mujahiddin che sapevano/potevano trovare un rapporto con l’islamismo popolare controrivoluzionario - il 15 febbraio 1989, dopo gli accordi di Ginevra tra il governo afghano e i mujahiddin. Ma soprattutto a due anni (dicembre 1991) dal proprio autoscioglimento, il che la dice lunga sulle enormi contraddizioni interne con le quali Mosca ed il PCUS affrontarono la guerra in Afghanistan, contraddizioni, titubanze e opacamento del senso strategico che certo Gorbaciov, alfiere e cavallo di Troia della caduta dell’URSS, non era in grado di superare.
Il Governo rivoluzionario cadrà nell’aprile del 1992, sostituito da quello sostenuto dagli USA, dalla NATO e dalle altre forze internazionali intervenute in Afghanistan. Abbiamo già visto precedentemente come i talebani scalzeranno i mujahiddin e come, contro il loro governo, di nuovo interverranno, dopo le Torri Gemelle, nel 2001, l’esercito USA e la NATO per ripristinare, sino ad oggi, l’ordine imperialista.
La storia densissima di questi ultimi trent’anni in Afghanistan ci dice davvero molto sulla stessa fase internazionale in cui i fatti sono avvenuti e molto anche sull’attuale fase internazionale, come molto ci dice anche sull’attuale imperialismo, sull’Unione Sovietica di allora e sul movimento comunista e sui suoi, attuali, compiti rivoluzionari ed internazionalisti. Affermiamo ciò in virtù del fatto che la Rivoluzione comunista afghana è stata troppo presto cancellata dalla memoria storica di una parte del movimento comunista e con troppa facilità e fretta si è condannato senza analisi e discussioni l’intervento sovietico in difesa della Rivoluzione, anche da parte di alcuni partiti ed aree comuniste mondiali. La Rivoluzione comunista afghana è stata sconfitta, ma non per questo merita l’oblio: tante altre esperienze rivoluzionarie, a partire da quella francese del 1789, segnata anch’essa non solo dal ritorno della reazione ma anche da profonde e sanguinose contraddizioni interne (Robespierre-Danton, ad esempio) non hanno, nell’immediato, consolidato la vittoria, ma non per questo sono state cancellate dalla memoria storica rivoluzionaria complessiva. Esse fanno parte dell’esperienza rivoluzionaria mondiale, da esse, dai loro errori, il proletariato mondiale può trarre insegnamenti, come dalla Rivoluzione comunista afghana.
Nella Direzione Nazionale del PCI del 1980, che condannò l’intervento sovietico in Afghanistan, solo Giorgio Amendola si sottrasse al voto di condanna, votando contro la risoluzione del PCI. E nel suo intervento affermò tra l’altro: “Sono in dissenso aperto sulla relazione di Bufalini. L’attacco del documento (intervento sovietico nell’Afghanistan) indica la posizione dell’URSS come il primo atto che mette in pericolo la coesistenza. Vi è una storia dell’ultimo anno in cui gli USA hanno risposto picche alle proposte di Breznev di approvare il Salt 2. A questo si è accompagnata la questione dei missili in Europa. Cossiga si è lamentato, assieme agli altri europei che sono solo più cauti ma rispondono agli USA (tranne la Francia). E come non ricordare la reale occupazione americana dell’Iran, attraverso lo Scià, tutto per collocare le basi missilistiche americane ai confini con l’URSS? Difronte alla detenzione degli ostaggi a Teheran vi è stata una dichiarata minaccia di intervento militare con la flotta USA (…mi auguro che vi sia anche la flotta sovietica da quelle parti…). L’invasione dell’Afghanistan è la risposta ad una vigilia di guerra mondiale in cui l’URSS è accerchiata. Gli USA sono il nemico numero uno dell’Italia: qui pone basi missilistiche, frastorna la nostra economia, gli USA ci espongono a mille pericoli. Senza gli aiuti cubani gli Stati socialisti dell’Africa sarebbero divenuti colonie di Stati reazionari. Abbiamo forse criticato l’URSS perché è intervenuta in Spagna, dopo il 1935 -1936? Ed ora perché lo facciamo? Alla vigilia di una terza guerra mondiale, come oggi siamo, le mosse dell’URSS servono a prendere un vantaggio contro gli eventuali aggressori. Ieri, in una tavola rotonda dell’Avanti su Nenni, Ingrao ha introdotto condannando l’invasione militare sovietica dell’Afghanistan ed io ho risposto collocando l’intervento in questo quadro più generale. Se vi è una disciplina di partito sulle questioni economiche e sociali, su questo terreno internazionale è possibile applicarla? In primo piano non deve esserci la critica all’URSS, ma quella agli USA, veri aggressori imperialisti che utilizzano l’Italia, che è casa nostra, come base di missili”.
L’intervento di Amendola, del 1980, può risentire, qua e la, del tempo passato. Ma quando il grande dirigente del PCI chiede se l’URSS dovesse essere condannata anche per il suo intervento in Spagna, contro i fascisti di Franco e in difesa dei Repubblicani, pone un problema di assoluta contemporaneità, ponendo di fatto la questione dell’internazionalismo.
* Il presente saggio è parte di un libro in uscita di Fosco Giannini dal titolo Liberare i popoli! L’autore è membro della Direzione nazionale del Pci.