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Domenico Moro

 

“Coloro che non ricordano il passato sono costretti a ripeterlo”

George Santayana

 

Gli errori di cento anni fa

Cento anni fa aveva termine la Prima guerra mondiale. L’Italia ne uscì vittoriosa. Tuttavia, per assecondare le mire imperialiste del grande capitale industriale, pagò un prezzo molto superiore persino a quello della Seconda guerra mondiale: oltre 650mila caduti, centinaia di migliaia di feriti e mutilati e più di mezzo milione di vittime civili. Inoltre, la guerra provocò una crescita repentina ma squilibrata dell’industria, e, grazie agli enormi profitti e alle sovvenzioni statali, una fortissima centralizzazione del potere economico.

I quattro milioni di ex combattenti, dopo quattro anni di morte e sofferenza nelle trincee, ritornarono alle loro case ma non trovarono lavoro. Nelle città era difficilissimo riconvertire a scopi civili la ridondante industria bellica. Nelle campagne i proprietari avevano sostituito la forza lavoro partita per la guerra con moderni macchinari e non volevano espandere la produzione a causa della riduzione della domanda interna.

La guerra aveva scavato un solco tra le élite e le masse e l’Italia era attraversata da contraddizioni profonde che svilupparono ampie lotte sociali e democratiche. Il Partito socialista vinse le elezioni del 1919 con il 32,28% dei voti, seguito dai Popolari al 20,3% e dai Liberali al 15,9%. Inoltre, tra 1919 e 1920 il Paese fu attraversato da un imponente movimento di occupazione delle fabbriche. Eppure, nel giro di pochi anni la reazione capitalistica portò all’affermazione di una forza nuova, il fascismo, che la sinistra non riuscì a contrastare. Molti furono i fattori della vittoria fascista: le divisioni interne al Psi, il supporto degli apparati dello Stato, in particolare dello Stato maggiore dell’esercito e della monarchia. L’aspetto su cui crediamo valga la pena soffermarci è però un altro: l’incapacità dei socialisti e dei comunisti a entrare in contatto con i milioni di ex combattenti e con i settori intermedi della società, che finirono per diventare la massa di manovra del fascismo.

Contrariamente a quanto si può pensare, la massa gli ex combattenti era inizialmente tutt’altro che favorevole al fascismo[1], anzi molti ex combattenti saranno il nerbo della resistenza armata contro le squadre fasciste, come i pluridecorati Emilio Lussu e Ferruccio Parri, il quale successivamente sarà uno dei capi della Resistenza. Tuttavia, il partito socialista e poi il partito comunista fallirono nel compito di stabilire un rapporto con questo importantissimo settore della società dell’epoca, corteggiatissimo da Mussolini. Il partito comunista, guidato da Bordiga, rifiutò persino di collaborare con gli arditi del popolo. Una scelta criticata da Gramsci al Congresso di Lione del 1926: “Questa tattica [quella di Bordiga relativa agli arditi del popolo] (…) servì d’altra parte a squalificare un movimento di massa che partiva dal basso e che avrebbe potuto invece essere politicamente sfruttato da noi”[2]. Anche per queste ragioni i partiti operai non riuscirono a impedire la saldatura in un unico blocco sociale di piccola borghesia e grande capitale. Anni dopo, l’autocritica sarà molto severa. Così si esprime Palmiro Togliatti nelle famose Lezioni sul fascismo (1935).

“Nel periodo di sviluppo del fascismo italiano, prima della marcia su Roma, il partito ha ignorato questo importante problema: intralciare la conquista delle masse piccolo-borghesi malcontente da parte della grande borghesia. Questa massa era allora rappresentata dagli ex combattenti, da alcuni strati di contadini poveri in via di arricchimento, da tutta una massa di spostati creati dalla guerra. (…) Non abbiamo compreso che non si poteva semplicemente mandarli al diavolo. (…) Compito nostro era quello di conquistare una parte di questa massa, di neutralizzare l’altra parte onde impedire che diventasse una massa di manovra della borghesia. Questi compiti sono stati da noi ignorati.”[3]

 

Analogie con la critica al sovranismo piccolo-borghese

Ora, è possibile stabilire una qualche analogia tra la sinistra socialista e comunista di allora e quella di oggi? I periodi sono molto diversi. Come ho già spiegato altrove, non siamo davanti al fascismo, anche perché oggi sono altre le forme della neutralizzazione della democrazia rappresentativa[4]. Tuttavia, anche oggi, come allora, sebbene in modo apparentemente meno drammatico, l’Italia è attraversata da rivolgimenti economici e sociali non meno profondi di quelli che gli ex combattenti del 1918 si trovarono davanti. Di conseguenza, si è creata una spaccatura tra élite e masse, le une beneficiate e le altre impoverite allora dalla guerra mondiale, ora dalla mondializzazione e dalla integrazione economica e valutaria europea. Di fronte a questa situazione una parte consistente della sinistra (anche radicale e comunista) mostra una incomprensione del movimento sociale profondo, che conduce a una incomprensione del fenomeno sovranista e populista. Oggi come allora si regalano certi settori all’avversario politico e non ci si pone neanche il problema di neutralizzarli. Lascia, a questo proposito, un po’ perplessi sentir parlare di <<orrido>> sovranismo piccolo-borghese[5]. Orrido, secondo il dizionario Treccani, significa “che mette nell’animo un senso di orrore, di ribrezzo e di spavento”. Insomma, un termine, mi pare, poco adatto a una oggettiva analisi sociale e politica. Inoltre, sembrerebbe esserci qualche confusione tra piccola borghesia - strato intermedio tra capitale e classe operaia (contenendo anche stipendiati e lavoratori autonomi senza o con qualche dipendente) - e il capitale vero e proprio. Infatti, il sovranismo, definito piccolo-borghese, viene però attribuito ai “capitali nazionali in affanno contro una devastante centralizzazione trainata dai capitali più forti e ramificati a livello globale”[6].

Ad ogni modo, a sinistra non pochi sembrano ritirarsi inorriditi dinanzi a un sovranismo giudicato con disprezzo espressione di un ceto bottegaio miserabile, evasore fiscale e fondamentalmente anticaglia del passato. Una visione che, in alcuni casi, si collega a una interpretazione deterministica del movimento del capitale, derivata da una lettura parziale e semplicistica di Marx. La centralizzazione dei capitali di cui Marx parla nel Capitale non significa che le classi intermedie spariscano d’incanto, togliendosi dalle scatole e semplificando, per farci un piacere, una realtà che semplice non è. Di certo, oltre cento anni di storia dimostrano che la centralizzazione non elimina le classi intermedie (anzi ne produce di altro tipo), né favorisce di per sé la presa del potere da parte del lavoro salariato, né tantomeno la sua ricomposizione economica o politica. Era, invece, questa la concezione meccanicistica di Rudolf Hilferding, autore del pur importante Il capitale finanziario, già ministro socialdemocratico della Repubblica di Weimar e convinto che la centralizzazione sarebbe andata avanti fino alla definitiva e automatica socializzazione di imprese e banche da parte di una disciplinata classe operaia unita nel partito socialdemocratico e nei suoi sindacati[7]. Sindacati la cui preziosa organizzazione andava preservata e non messa a rischio in uno sciopero generale contro Hitler, come ebbe a dire un Hilferding fiducioso nel sistema democratico, appena pochi giorni prima di darsi alla fuga braccato dalla Gestapo, dopo la vergognosa resa dei sindacati stessi[8].

L’importanza delle classi intermedie

La verità è che Marx in tutte le opere, dove analizza le formazioni economico-sociali concrete, segue attentamente il movimento di tutte le varie classi, comprese quelle intermedie fra capitale e lavoro salariato, indicando come strategica l’alleanza della classe operaia con i settori intermedi, a partire da quello allora principale, la classe contadina piccola proprietaria.[9] Lenin e dopo di lui Gramsci dedicarono molte energie alla teoria e alla pratica delle alleanze di classe, che per l’appunto presuppongono l’esistenza di una pluralità di classi subalterne. Del resto, la Rivoluzione d’Ottobre vinse anche grazie alla parola d’ordine, poco ortodossa secondo il metro di alcuni, della terra ai contadini. Anzi, per Lenin, che parla proprio a proposito della situazione creatasi nel primo dopo-guerra (1920):

“Il capitalismo non sarebbe capitalismo se il proletario <<puro>> non fosse circondato da una folla straordinariamente variopinta di tipi intermedi tra il proletariato e il semiproletario (colui che si procura da vivere solo a metà mediante la vendita della propria forza-lavoro), tra il semiproletario e il contadino (e il piccolo artigiano e il piccolo padrone in generale), tra il piccolo contadino e il contadino medio, ecc.; e se in seno la proletariato non vi fossero divisioni per regione, per mestiere, talvolta per religione, ecc. E da tutto ciò deriva la necessità, la necessità incondizionata, assoluta per l’avanguardia del proletariato, per la parte cosciente di esso, per il partito comunista di destreggiarsi, di stringere accordi, compromessi con i diversi gruppi di proletari, con i diversi partiti di operai e piccoli padroni. Tutto sta nel saper impiegare questa tattica allo scopo di elevare e non di abbassare il livello generale della coscienza proletaria, dello spirito rivoluzionario del proletariato, della sua capacità di lottare e vincere.”[10]

Gramsci, che indica come seconda forza motrice della rivoluzione italiana i contadini del Mezzogiorno e delle altre parti d’Italia[11], scrive:

“In nessun Paese il proletariato è in grado di conquistare il potere e di tenerlo con le sole sue forze: esso deve quindi procurarsi degli alleati, cioè deve condurre una tale politica che gli consenta di porsi a capo delle altre classi che hanno interessi anticapitalistici e guidarle nella lotta per l’abbattimento della società borghese.”[12]

Oggi, certamente i settori intermedi non sono quelli dell’epoca Marx e neanche di Lenin, ma esistono e sono particolarmente numerosi in Italia[13], così come la classe lavoratrice è divisa al suo interno per molti aspetti. La crisi e la concentrazione e centralizzazione dei capitali non li hanno eliminati, li hanno riempiti di paura e rabbia, allo stesso modo della classe operaia e del lavoro salariato tutto. Quello che viene definito sovranismo piccolo-borghese è l’espressione di questa paura e di questa rabbia. Definirlo “orrido”, di fronte alle conseguenze devastanti sulla società e sulle classi subalterne italiane ed europee prodotte dal trasferimento della sovranità sul bilancio pubblico e sulla valuta a organismi europei, acquista il sapore amaro della beffa. La mancata comprensione di questa situazione così come la sottovalutazione dei suddetti sentimenti di paura porta la sinistra (compresa in parte quella radicale e comunista) ad allontanarsi ancora di più dai settori popolari e a regalarli a chi sta costruendo il suo blocco sociale reazionario, come la Lega. Questa, ormai sempre più “nazionale”, sta mettendo insieme classe operaia del Nord, artigiani, lavoratori autonomi, partite iva, piccolissima, piccola e media impresa. Ma essa non parla solo a questi settori, parla anche a pezzi di capitale più importanti, grandi imprese e banche, con una forte base nazionale, ma non necessariamente non internazionalizzate, che nel mercato domestico sono state penalizzate dall’austerity europea e sui mercati europei e extraeuropei dalla concorrenza dei capitalismi francese e tedesco e dalla loro invadenza negli assetti proprietari delle imprese italiane. Bisogna, quindi, fare attenzione a individuare, tra tutte queste classi e settori, quelle che, per dirla con Gramsci, rappresentano la vera <<base di classe>> della Lega, distinguendole da quelle che ne sono la <<base di massa>>. Insomma, anche se non siamo davanti al fascismo, siamo davanti alla stessa capacità di formare un blocco che metta insieme piccola borghesia con grande borghesia, più pezzi importanti di lavoro salariato e classe operaia. Quest’ultima è una delle differenze maggiori con gli anni ’20. Ed è per questo che la situazione richiede ancora maggiori capacità di fare politica.

Conclusioni

Certe affermazioni sul sovranismo, invece, portano al rifiuto della politica, intesa come terreno pratico della costruzione e della modifica dei rapporti di forza fra le classi e i settori di classe. Rifugiarsi in astratte formule ideologiche rafforza proprio quelle tendenze, soprattutto il tatticismo elettoralista, che si vorrebbero eliminare e che ci hanno fatto perdere consensi. Dovremmo avere ormai capito che in un Paese con la storia e la struttura di classe dell’Italia va quantomeno neutralizzato, per usare le parole di Togliatti, il possibile ruolo reazionario di certi settori e classi sociali. Bisogna evitare di <<fare d’ogni erba un fascio>> e individuare, all’interno della piccola borghesia e del lavoro indipendente, i settori con i quali, per le loro condizioni oggettive, si possano stabilire delle interlocuzioni sociali e politiche in funzione anticapitalistica. Anche per queste ragioni non ci si può permettere di lasciare il tema della sovranità e della lotta contro la Commissione europea e la Bce alla Lega e al Movimento cinque stelle, né si può restare sul vago sul ruolo dell’integrazione economica e valutaria europea e sulla posizione da assumere al riguardo. Bisogna, al contrario, avere la capacità di entrare nel cuore della battaglia politica, che è rappresentato dall’Europa, declinando la sovranità nell’unico modo in cui abbia senso, cioè in termini di sovranità democratica e popolare, come del resto recita la Costituzione, e dal punto di vista della classe lavoratrice. Quindi, non si tratta di un recupero della sovranità (genericamente nazionale) per rafforzare le posizioni del capitale “italiano”, ma del recupero e dell’allargamento democratico della sovranità popolare per modificare i rapporti di forza a favore del lavoro salariato e delle classi subalterne, bloccate nella gabbia del “vincolo esterno”. Ciò richiede, evidentemente, una maggiore capacità di lettura della composizione di classe della società italiana, una proposta economica nuova e organica, e soprattutto la volontà politica di porre le basi per la ricomposizione della classe lavoratrice e per la costruzione di un nuovo blocco sociale di alternativa al capitalismo, cioè di alleanze sociali e politiche tra il lavoro salariato e tutti i settori subalterni al grande capitale. Oggi l’integrazione europea – cioè la compressione della democrazia, della spesa pubblica, e del salario – è l’elemento non unico ma certamente centrale per la costruzione di un tale blocco sociale.

 

[1] Al primo congresso dei combattenti nel 1918 a Mussolini non fu neanche permesso di parlare.

[2] A. Gramsci, “Il Congresso di Lione”, in La costruzione del partito comunista, Einaudi, Torino 1971, p. 487.

[3] P. Togliatti, Corso sugli avversari, Einaudi, Torino 2010, pp. 8-9.

[4] D. Moro, “Quale antifascismo nell’epoca dell’euro e della democrazia oligarchica?”, Sinistra in rete, 26 settembre 2017. Vedi anche D. Moro, La gabbia dell’euro. Perché uscire dall’euro è internazionalista e di sinistra, Imprimatur, Reggio Emilia 2018.

[5] E. Brancaccio, “Classe (lotta di)”, in l’Espresso, 7 ottobre 2018.

[6] Ibidem.

[7] R. Hilferding, Il capitale finanziario, Mimesis edizioni, Milano 2011, p. 487.

[8] Episodio riferito all’economista Pietranera da un amico tedesco che parlò con Hilferding dopo la nomina di Hitler a cancelliere. Va ricordato che Hilferding pagò con la vita la sua militanza, morendo esule in Francia in circostanze ancora non chiarite. Sulla resa imbelle dei sindacati tedeschi e il rifiuto socialdemocratico di un fronte comune con i comunisti vedi F. Neumann, Behemot. Struttura e pratica del nazionalsocialismo, Bruno Mondadori, Milano 2000.

[9] K. Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, Editori riuniti, Roma 1973. K. Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, Editori riuniti, Roma 1977, pp. 212-216.

[10] Lenin, L’estremismo malattia infantile del comunismo, Editori Riuniti, Roma 1974, p. 115. Il corsivo è mio.

[11] Cfr. A. Gramsci, “Tesi di Lione”, in La costruzione del partito comunista, op. cit., p.499.

[12] A. Gramsci, “Il congresso di Lione”, in op. cit., p. 483.

[13] Senza considerare i settori superiori del lavoro “dipendente” (management, ecc.), solo i lavoratori autonomi o indipendenti (15-74 anni), sebbene fortemente diminuiti con la crisi, sono quasi 5 milioni, di cui quasi 3,6 senza dipendenti. In Germania, con forze di lavoro molto più numerose, i lavoratori autonomi sono quasi 4 milioni (Eurostat database, LFS main indicators). L’Istat considera anche i coadiuvanti e arriva a circa 5,4 milioni, ossia il 23,2% degli occupati contro il 15,7% della media Ue (Focus – I lavoratori indipendenti. II trimestre 2017, 5 novembre 2018). Bisogna tenere conto che si tratta di un universo molto differenziato dal punto di vista del reddito, di classe e del rapporto con il capitale. Gli imprenditori veri e propri sono 273mila, mentre i lavoratori in proprio e i professionisti con dipendenti sono 1,1 milioni. Rimangono quasi 4 milioni di autonomi senza dipendenti.

 

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